Nacque a Villafranca Sicula, in provincia di Agrigento, il 23 settembre 1918 da genitori originari di Zafferana Etnea, Alfio, maresciallo dell’Arma dei carabinieri, e Gaetana Coco, casalinga.
Negli anni dell’infanzia visse in diversi paesi della Sicilia trascorrendo, poi, l’adolescenza a Catania, dove fu alunno del liceo classico Nicola Spedalieri. Conseguita nel 1936 la maturità, avvertì la vocazione al sacerdozio e fu inviato dal vescovo di Catania, Carmelo Patanè, nel Pontificio seminario romano e divenne alunno della Pontificia università lateranense. Fu ordinato prete il 12 aprile 1941 a Roma, nell’arcibasilica di S. Giovanni in Laterano, dall’allora arcivescovo Luigi Traglia e conseguì la laurea in sacra teologia con la tesi La sentenza “de certitudine inhaerentis gratiae” in Ambrogio Catarino. Successivamente entrò nella Pontificia accademia ecclesiastica. Come previsto dall’accademia continuò gli studi nella stessa Università lateranense, dove conseguì la laurea in utroque iure discutendo una tesi dal titolo La controversia per la giurisdizione ecclesiastica in Sicilia al tempo di Clemente XI. Per quasi vent’anni (1947-1965) lavorò come consigliere di nunziatura presso la segreteria di Stato mentre svolse attività pastorale, sempre nella città di Roma, nelle parrocchie di recente costruzione di S. Giovanni Battista de’ Rossi nel quartiere Appio Latino, S. Lucia nel quartiere della Vittoria e nello storico collegio S. Giuseppe dell’istituto De Merode dei Fratelli delle scuole cristiane, a piazza di Spagna, di cui fu cappellano. Dal 1959 al 1965 insegnò diplomazia ecclesiastica presso la Pontificia accademia ecclesiastica e diritto presso l’Università lateranense, mentre nel giugno del 1963 fu chiamato dal vescovo Francesco Carpino a collaborare con lui al conclave di cui era segretario e nel quale venne eletto Paolo VI. Fu eletto vescovo il 7 dicembre 1965 e nominato pronunzio apostolico in Indonesia. Venne consacrato vescovo il 16 gennaio del 1966 dal segretario di Stato cardinale Amleto Giovanni Cicognani nella cappella del Pontificio seminario romano. Svolse il suo incarico diplomatico in Indonesia dal febbraio 1966 al luglio 1969 impegnandosi nel sostegno diretto ai tanti istituti missionari attivi nell’arcipelago. Nell’estate del 1969 fu richiamato a Roma per ricoprire il prestigioso incarico di presidente della Pontificia accademia ecclesiastica. Tuttavia, le impreviste dimissioni del 7 marzo 1970 del cardinale di Palermo Francesco Carpino, riconfermate mesi dopo, spinsero Paolo VI il 17 ottobre dello stesso anno a nominare Pappalardo nuovo vescovo di Palermo, città in cui fece ingresso il 6 dicembre. Fu poi creato cardinale da Paolo VI nel concistoro del 5 marzo 1973 con il titolo di Santa Maria d’Itria al Tritone, titolo che Pappalardo cambiò successivamente in Santa Maria Odigitria dei siciliani. Partecipò ai due conclavi del 1978, quello del 25-26 agosto e quello del 14-16 ottobre. Fu presidente della Conferenza episcopale siciliana, vice presidente della Conferenza episcopale italiana e presidente delle Conferenze episcopali europee.
Nel suo lungo episcopato Pappalardo, nell’affrontare la stagione dell’attuazione del Concilio Vaticano II, con le difficoltà di un contrastato rinnovamento pastorale ed ecclesiologico, si scontrò con l’affermarsi dell’emergenza mafiosa, con la sua interminabile catena di delitti di alti funzionari dello Stato, di politici, di giornalisti che spinse la Chiesa siciliana, da lui presieduta, a prendere ripetutamente e pubblicamente posizione di ferma condanna di un fenomeno invasivo e sottovalutato, rispetto al quale non si era marcata a sufficienza l’inconciliabilità con il cristianesimo: «anche le comunità ecclesiali e i loro responsabili non hanno percepito, per qualche tempo ed in diversa misura, che l’appartenenza o la contiguità con la mafia non erano compatibili con la professione della fede e che la mafia era di per se stessa una realtà contraddittoria al Vangelo» (1995, p. 6). Il 30 novembre del 1979, l’anno dell’omicidio del vicequestore Boris Giuliano e poi del giudice Cesare Terranova, Pappalardo scrisse un messaggio d’Avvento dal titolo La persona umana e il diritto alla vita. Esso è quasi il punto di arrivo dell’analisi da lui compiuta nei primi dieci anni di episcopato: «La mafia è pretesa di fare a meno della legge e di poterla impunemente violare; è clientelismo e favoritismo insieme; è sentirsi sicuri perché protetti da un amico o da un gruppo di persone che contano. Simili atteggiamenti non si riscontrano solo in individui o gruppi caratterialmente delinquenziali, ma anche in tanti che con il loro abituale comportamento arrogante e pretenzioso si dimostrano culturalmente mafiosi, anche se ostentano una rispettabilità sociale» (Vescovo a Palermo, 1982, p. 166). Dunque, molto prima di altri, Pappalardo intuì l’invasività della mafia nella società siciliana nell’ordine di una «borghesia mafiosa» e di cui gli omicidi rappresentavano soltanto le azioni più appariscenti.
Ma proprio altri assassini punteggeranno tragicamente tutto il suo episcopato successivo. Fra i tanti, dopo quelli del 1980 del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella e del procuratore della Repubblica Gaetano Costa, nel 1982 (l’anno degli oltre cento omicidi nella sola Palermo) vi fu prima l’assassinio del segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre e poi quello del prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa. Durante i funerali di quest’ultimo, il 4 settembre, Pappalardo, che con le chiese di Sicilia avrebbe presto ribadito la totale condanna della mafia, pronunciò la famosa frase che suonò come un atto di accusa a politici e istituzioni: «“Dum Romae consulitur… Saguntum expugnatum”, mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto, ma Palermo, povera Palermo» (1986, p. 51). Un grido dalla città ferita che fu confermato l’anno dopo con l’assassino del giudice Rocco Chinnici. E tuttavia furono sempre la città di Palermo e la Sicilia a ritornare positivamente nella sua attenzione pastorale cercando di prevenire generalizzazioni che, dall’esterno, le potessero identificare totalmente con il fenomeno mafioso, come avvenne nel 1986 durante la celebrazione del primo maxiprocesso ai mafiosi. Di fronte alle semplificazioni mediatiche di «Palermo città di mafia», Pappalardo rispose sempre con fermezza, rivendicando la dignità dei tantissimi cittadini onesti e rifiutando a un tempo le etichette di una «Chiesa antimafia».
Il fenomeno mafioso segnò in maniera drammatica anche gli ultimi anni di episcopato se si considerano, tra i tanti, gli omicidi dei giudici Rosario Livatino (1990), Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992) e, infine, quello del parroco Giuseppe Puglisi (1993), che egli stesso aveva inviato, pochi anni prima, nel difficile quartiere di Brancaccio. Nell’omelia per il funerale, Pappalardo ribadì che: «Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e alla sua prepotenza. È la comunità civile e ancor più quella cristiana che deve reagire coralmente» (Rivista della Chiesa palermitana, 87 (1993), p. 325).
Innanzi alla sequenza degli omicidi Pappalardo non si limitò alla pur ripetuta condanna, ma si attivò investendo energie e risorse per offrire un contributo di presenza e di cultura alla diocesi. Le Missioni popolari di Palermo, avviate nel 1984, rappresentarono un lungo tempo di impegno e coinvolgimento diretto della diocesi in un’opera di preevangelizzazione con forti risvolti sociali e di cui furono protagonisti molti laici: «Le missioni, oltre la valenza religiosa, vogliono avere anche un significato e un’influenza sul piano della vita e dei costumi civili, contribuendo a quella ripresa di responsabilità e di solidi impegni operativi, senza dei quali non ci può essere una vera rinascita sociale e vero progresso politico dell’uomo» (1992, p. 135).
Nel suo lungo episcopato si tennero tre convegni delle chiese di Sicilia nel 1985, 1989 e 1993, numerosi convegni diocesani e nel novembre del 1995 si celebrò a Palermo il terzo convegno ecclesiale Il Vangelo della carità per una nuova società italiana: tutte attività che, secondo Pappalardo, avrebbero condotto a una progressiva maturazione cristiana alla luce del Concilio. Lo affermò egli stesso in cattedrale nella celebrazione di congedo alla diocesi del 18 maggio 1996: «I cristiani sono stati responsabilizzati circa i loro impegni nei riguardi della società civile e della testimonianza che devono sempre rendere ai valori e alla esigenze del Vangelo. I diversi piani pastorali elaborati e pubblicati stanno lì a dimostrarlo, ed attendono di essere sempre più e meglio applicati» (2012, p. 275).
Egli era convinto che il fenomeno mafioso non potesse essere sconfitto con le sole, pur necessarie, misure repressive, ma che occorresse invece un’azione educativa profonda, continua e a vasto raggio che incidesse sulla cultura dominante. Per questo, tra le varie iniziative sociali e culturali, ebbe particolarmente a cuore la formazione e la ricerca teologica e promosse la nascita dell’Istituto teologico nel 1973. Successivamente riuscì a ottenere che esso divenisse, nel 1980, la Pontificia facoltà teologica di Sicilia S. Giovanni Evangelista, che il 1° ottobre dell’anno dopo iniziò ufficialmente i corsi accademici. A tale facoltà egli non fece mancare risorse economiche e umane, poiché era convinto della necessità e dell’urgenza di creare un gruppo di studiosi in grado di offrire una formazione adeguata alle chiese e alla società siciliana. Un impegno i cui positivi risultati, dopo oltre trent’anni, sono evidenti quanto ben noti.
Accolta da parte di Giovanni Paolo II il 4 aprile 1996 la sua rinuncia per limiti di età, Pappalardo si ritirò nella casa diocesana di Baida, sulle colline di Palermo, dove morì il 10 dicembre 2006.
Cameriere segreto di Sua Santità il 21 giugno del 1951 e prelato domestico il 19 maggio del 1961. Nel 1971 gli venne concesso il titolo di cavaliere di Gran croce dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme di cui divenne gran priore per la luogotenenza per l’Italia Sicilia. Il 28 settembre 1983 il presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini gli concesse il titolo di cavaliere di Gran croce dell’ordine al merito della Repubblica Italiana per l’alto impegno sociale e per il deciso contrasto della mafia realizzato con discorsi e azioni. L’11 maggio 1983 ottenne la laurea honoris causa in lettere e filosofia da parte dell’Università di Palermo con la motivazione che il suo magistero «costituisce al tempo stesso, una rilevante forza morale per la trasformazione della società generando tensione etica e stimolo al recupero della dignità dell’uomo, specialmente in riferimento al fenomeno mafioso ed alle sue connivenze, da Pappalardo denunciate con estrema energia e consapevolezza». Nel 1987 gli fu attribuita la laurea in scienze umane dalla Loyola University di Chicago.
Autore: Sergio Tanzarella
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