«Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti più terribili; e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio per questo»: un inno alla vita pienamente intonato ad una ventenne, sorprendente solo per il fatto che chi lo pronuncia è una ragazza cieca, sorda e totalmente paralizzata da una malattia subdola e devastante che ha risparmiato solo la sua intelligenza, un filo di voce e una mano per mezzo della quale comunica con il mondo.
Tutto si può dire di Benedetta Bianchi Porro, tranne che sia fortunata. Umanamente parlando, s’intende, e solo a giudicare dalla sua cartella clinica, che registra una salute fragile fin dalla nascita; a tre mesi arriva la poliomielite, che le lascia una gamba più corta dell’altra per cui sarà chiamata “la zoppetta”; poi deve indossare uno scomodissimo busto, per le deformazioni della schiena.
Malgrado la guerra (è nata nel 1936), la salute non proprio brillante e svariati traslochi, riesce a diplomarsi e ad iscriversi all’università ad appena 17 anni. Vuole diventare medico per aiutare gli altri, perché per sua sfortuna sa benissimo cos’è la malattia. E non solo per i malanni dell’infanzia, quanto piuttosto per ciò che sta turbando la sua adolescenza e infrangendo tanti sogni.
A partire dai 13 anni comincia ad accusare una progressiva perdita dell’udito, che si acuisce con il passare degli anni. Poi comincia a barcollare e per camminare deve appoggiarsi ad un bastone, mentre a 20 anni un’ulcera della cornea le indebolisce paurosamente la vista.
L’anno successivo (siamo nel 1957) i suoi studi di medicina le permettono un’autodiagnosi, confermata poi dai medici: la sua malattia si chiama morbo di Recklinghausen, ed è un proliferare di piccoli tumori che minano il sistema nervoso. Con straordinaria forza di volontà, malgrado la sordità, continua a studiare ed a sostenere gli esami, incontrando anche professori insensibili che si fanno beffe del suo handicap.
Un primo intervento chirurgico alla testa le provoca una paresi facciale; un secondo intervento al midollo, nel 1959, la paralizza completamente. Dopo aver attraversato la notte buia della sofferenza e della solitudine, essersi terrorizzata per lo spettro della cecità e della sordità, aver pianto sui più bei sogni che ha visto frantumarsi, finalmente una luce comincia ad illuminare il suo buio interiore.
Gesù comincia a farsi strada nella sua vita e la sua è una presenza sempre più significativa e preziosa, che dà un senso alle giornate interminabili, al dolore fisico, al buio ed al silenzio che la circonda: «Mi accade di trovarmi a volte a terra, sotto il peso di una croce pesante. Allora Lo chiamo con amore e Lui dolcemente mi fa posare la testa sul suo grembo».
Attorno al suo letto tanti amici cercano di riempire la sua solitudine, ma tornano a casa pieni della serenità che trasmette, come quando riesce a sussurrare loro: «La vita in sé e per sé mi sembra un miracolo, e vorrei poter innalzare un inno di lode a Chi me l’ha data ... Certe volte mi chiedo se non sia io una di quelle cui molto è stato dato e molto sarà chiesto...».
Nel 1962 la portano a Lourdes, alla ricerca di un miracolo. Che avviene, ma per la malata coricata sulla barella accanto. Ritorna a Lourdes l’anno dopo e questa volta il miracolo è per lei: non della guarigione fisica, ma della scoperta della sua vocazione alla croce: «Mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo».
Ci sono giorni in cui si accorge di aver bisogno di «attingere forza dalla Mamma celeste, poiché non so abituarmi come vorrei a vivere felicemente nel buio», ma sempre più deve riconoscere che «nella tristezza della mia sordità, e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con la volontà di essere serena per far fiorire il mio dolore».
A gennaio 1964 si accorge che le sue condizioni generali sono peggiorate parecchio: «Spero che la “chiamata” non si faccia attendere troppo», dice serenamente agli amici. Il momento arriva il 23 gennaio. Benedetta si congeda da questo mondo con un messaggio di speranza: «Amate la vita, perché anch’ io sono stata contenta di quello che Dio mi ha dato».
Benedetta è morta nella casa dei suoi genitori a Sirmione, in provincia e diocesi di Brescia, ma il processo cognizionale per l’accertamento delle sue virtù si è svolto presso la diocesi di Forlì-Bertinoro, dov’era stata fondata l’Associazione Amici di Benedetta, parte attrice della causa.
Il nulla osta per l’avvio della causa di beatificazione e canonizzazione porta la data del 12 luglio 1975. Il processo cognizionale, avviato il 25 gennaio 1976, si è concluso il 9 luglio 1977. Il decreto con cui gli atti del processo sono stati convalidati è datato 5 giugno 1981.
La “Positio super virtutibus”, consegnata nel 1988, è stata esaminata dai Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi l’11 maggio 1993, mentre i cardinali e i vescovi membri della stessa Congregazione hanno espresso parere positivo il 19 ottobre 1993. Il 23 dicembre 1993, quindi, il Papa san Giovanni Paolo II ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui Benedetta veniva dichiarata Venerabile.
Tra le numerose grazie significative a lei attribuite è stata presa in esame, come possibile miracolo per ottenere la sua beatificazione, quella avvenuta a un giovane genovese, Stefano Anerdi.
Come racconta il quotidiano «L’Arena», il 7 marzo 2014, nel 1986 Stefano, che aveva vent’anni, ebbe un incidente stradale. Sua madre, che aveva letto una biografia di Benedetta, fece iniziare una novena per chiederle di vegliare su suo figlio. Al termine dei nove giorni di preghiera, Stefano uscì dal coma e in breve tempo si riprese del tutto.
L’inchiesta diocesana sul miracolo si è svolta a Genova; gli atti sono stati convalidati il 20 giugno 2014. Il 25 gennaio 2018 la Consulta medica della Congregazione delle Cause dei Santi ha considerato inspiegabile a livello scientifico la guarigione del giovane. Tre mesi dopo, il 26 aprile 2018, il Congresso dei Consultori Teologi ha espresso parere favorevole circa il nesso tra l’asserito miracolo e il risveglio dal coma del paziente. Il 30 ottobre 2018, nella Sessione Ordinaria, i cardinali e i vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi hanno a loro volta emesso un parere positivo.
Il 7 novembre 2018, ricevendo in udienza il cardinal Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui la guarigione di Stefano Anerdi era da considerarsi inspiegabile, immediata, duratura e ottenuta per intercessione di Benedetta Bianchi Porro.
È stata beatificata sabato 14 settembre 2019 nella cattedrale di Santa Croce a Forlì, col rito presieduto dal cardinal Becciu come inviato del Santo Padre. La sua memoria liturgica cade il 23 gennaio, giorno della sua nascita al Cielo.
Autore: Gianpiero Pettiti ed Emilia Flocchini
Benedetta Bianchi Porro viene alla luce a Dovadola, in provincia di Forlì, l’8 agosto 1936. Appena nata è colpita da una emorragia e la madre le conferisce il battesimo di necessità con acqua di Lourdes. A tre mesi s’ammala di poliomielite che le lascia la gambina destra più corta, crescendo dovrà portare una pesante scarpa ortopedica. I bambini la chiamano “la zoppetta” ma lei non si offende: «Dicono la verità».
Nel maggio 1944, nella piccola chiesa dell’Annunziata a Dovadola, fa la prima Comunione. Le regalano in quell’occasione una corona del Rosario che avrà sempre carissima, non se ne staccherà mai. Un giorno, da studentessa universitaria, le capiterà di perderla per poi ritrovarla fortunosamente, e la sua gioia sarà incontenibile: «Che è mai tutto il resto – rispondeva a chi gliene chiedeva il motivo – in confronto alla mia corona!».
Il padre, che è un ingegnere termale, nel 1951 porta la famiglia a Sirmione, sul lago di Garda. Benedetta frequenta il liceo classico a Desenzano.
Tornando da scuola, un giorno annota nel suo diario: «Oggi sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo quello che il professore mi chiedeva. Che figure debbo fare ogni tanto! Ma che importa? Un giorno forse non capirò più niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia: e questa è la vera guida che devo seguire».
Già da qualche tempo aveva dovuto indossare un busto ortopedico per evitare la deformazione della schiena, a cui adesso si aggiungeva anche una incipiente sordità. Ma Benedetta non se ne cruccia più di tanto. «Che cosa meravigliosa è la vita», dice, e fa tanti progetti per il suo futuro: «Vorrei poter diventare qualche cosa di grande…».
Nell’ottobre del ‘53 si trasferisce a Milano per frequentare l’università: sceglie Fisica per compiacere il padre, ma la facoltà non le piace e cambia dopo un mese passando a Medicina. È convinta che la sua vocazione sia quella di dedicarsi agli altri come medico. Negli studi è molto brava, ma la malattia avanza, inesorabilmente.
«Non si è mai visto un medico sordo!”, le grida un giorno infuriato il titolare della cattedra di anatomia scagliandole il libretto per terra. Benedetta non si arrende, ma continuare è duro. «Mi sembra – lei scrive – di essere in una palude infinita e monotona e di sprofondare lentamente…».
Speranze, rinunce, ribellioni, una lunga via crucis di interventi chirurgici, fino alla diagnosi che lei stessa formulerà per prima: neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen. Un morbo rarissimo e incurabile che progressivamente la priva della vista e dell’udito, del gusto e dell’odorato immobilizzandola in un letto.
Benedetta allora era sola, Dio non era ancora il suo sostegno. Sono giorni difficili, rischiarati appena dall’amicizia con una ragazza, Nicoletta, che di lì a poco tempo dopo partirà missionaria. Chiusa nella sua stanza, paralizzata a letto, la giovane inferma vive giorni di buio e di lotta. Il dolore è il suo pane quotidiano.
Nel maggio del ‘62 Benedetta va a Lourdes col treno bianco dell’UNITALSI, un viaggio lungamente desiderato. «Attraverso un periodo di aridità, spero di passarlo con l’aiuto della S. Vergine che è la più dolce delle madri”. Piena di fiducia nella Consolatrice degli afflitti, Benedetta ha un sogno: «Desidero guarire per farmi suora. Ho fatto voto”.
Ma altri erano i disegni di Dio su di lei. La seconda volta che ci va, l’anno seguente, il miracolo di Lourdes sarà la scoperta della sua vocazione: la croce. «Dalla città della Madonna – scrive a un’amica – si torna nuovamente capaci di lottare, con più dolcezza, pazienza e serenità. Ed io mi sono accorta, più che mai, della ricchezza del mio stato, e non desidero altro che conservarlo. È stato questo per me il miracolo di Lourdes, quest’anno».
Giorno dopo giorno Benedetta si apre all’azione della grazia in un sofferto cammino di fede e di abbandono che la purifica e la rende una creatura che lentamente si spoglia di tutto per divenire dono per gli altri.
Tanti le scrivono o vanno a trovarla, in quella stanza dove lei consuma la sua offerta trasformandosi come l’ostia sull’altare. Benedetta scrive molte lettere, risponde a tutti, da sola finché può farlo e con molta fatica, con la sua scrittura sempre più incerta e tremolante, in seguito con l’aiuto della mamma attraverso un alfabeto muto convenzionale i cui segni venivano formati sul suo viso con le dita della mano destra, unica parte del suo corpo rimasta sensibile.
La sua cameretta diventa un crocevia di vite e il suo letto un altare attorno al quale si crea uno straordinario cenacolo d’amore: ragazzi e ragazze che da lei ci vanno non per pietà, ma per quello che da Benedetta riescono ad imparare: un amore grandissimo per la vita. Una suprema lezione di fede e di coraggio proprio da lei, nella sua carne offesa e umiliata, nella sua infermità: è il “mistero” di Benedetta.
«Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora –lei scrive – ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli...». Il mondo di Benedetta, il suo mondo interiore, affascina quelli che la vanno sempre più spesso a trovare. I suoi pensieri, “dettati” alla madre, sono come perle di luce che, riflettendo Dio nella sua anima, affacciano su di un abisso vertiginoso, una dimensione “altra”, intraducibile, che ha il sapore dell’eterno.
Frammenti d’interiorità che, consegnati ai suoi testi oggi tradotti in tutto il mondo, hanno incendiato il cuore di tanti, sacerdoti e artisti, medici, scrittori, ammalati e detenuti, tutti conquistati dal suo messaggio semplice e commovente: abbandonarsi a Dio totalmente e godere della gioia che nasce da questo abbandono.
«Tutta la vita di Benedetta – afferma don Divo Barsotti – sembra più o meno coscientemente modellarsi sulla Vergine, ritta, sulla montagna, ai piedi della Croce». Bisogna infatti guardare al suo rapporto con Maria per riuscire a comprendere il suo singolare cammino di fede e di santità. Maria le è maestra: alla scuola del Calvario come a quella del Magnificat.
«Il dolore è stare con la Madonna ai piedi della Croce», lei dice. «Prego molto la Madonna. Lei conosce cosa sia soffrire in silenzio... Nelle prove mi raccomando alla Madre che ha vissuto prove e durezze le più forti, perché riesca a scuotermi e a generare dentro il mio cuore il suo figlio così vivo e vero come lo è stato per Lei».
La prima volta andò a Lourdes per chiedere di guarire, la seconda volta per pregare per gli altri, perché, come diceva lei, «la carità è abitare negli altri». «La Madonna – confesserà poi al ritorno – mi ha ripagato di quello che non possiedo più…». Ha ottenuto infatti la cosa per lei più importante: la guarigione interiore. Un’esperienza così trasfigurante che le farà affermare: «La vera gioia passa per la Croce. Mi piace dire ai sofferenti, agli ammalati che se noi saremo umili e docili, il Signore farà di noi grandi cose…».
E il giorno dell’Incontro si avvicina. La mattina del 23 gennaio 1964, memoria dello Sposalizio della Vergine, una rosa bianca fiorisce, fuori stagione, in giardino. Quando lo sa, Benedetta dice: «È un dolce segno». Solo due mesi prima, infatti, aveva sognato di entrare in un cimitero di Romagna e di aver trovato in una tomba aperta una rosa bianca da cui emanava una luce abbagliante.
Benedetta moriva e una rosa quel giorno sbocciava, fuori tempo, nel suo giardino. Aveva detto: «Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà, qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano».
Autore: Maria Di Lorenzo
Note:
Per approfondire: www.benedetta.it
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