«Ragazzino» fu il termine con cui Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica, definì quel tipo di magistrato che, a suo dire, non poteva seguire indagini impegnative come quelle contro la mafia e il traffico di droga, per la giovane età e inesperienza. Non voleva assolutamente essere un complimento, tanto che poi dovette smentire di averlo detto riferendosi al giudice Rosario Livatino.
Di «piccolo giudice» parlò invece la professoressa Ida Abate, che a lui insegnò greco e latino, ma si riferiva, più che alla statura fisica, comunque minuta, alla “piccolezza” secondo il Vangelo: la sua statura morale, per lei, era infatti fuori discussione.
Rosario Angelo Livatino arriva da Canicattì, che per alcuni equivale un po’ alla “fine del mondo” (italiano) o, perlomeno, ad un posto imprecisato e geograficamente confuso. Nasce il 3 ottobre 1952 e viene battezzato il 7 dicembre dello stesso anno, nella chiesa madre della cittadina, dedicata a san Pancrazio, primo vescovo di Taormina e martire. Si rivela subito eccezionale per intelligenza e applicazione negli studi, che gli consentono, a neppure 23 anni, di laurearsi con lode in giurisprudenza e subito dopo in scienze politiche.
Entra in magistratura, il sogno della sua vita e come sostituto Procuratore al tribunale di Agrigento, si occupa delle più delicate indagini antimafia oltreché di criminalità comune, mettendo le mani nella “tangentopoli siciliana” e inevitabilmente approdando alla mafia agrigentina. Presta poi servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere della speciale sezione misure di prevenzione e molto probabilmente è proprio questo delicato incarico a decretare la sua fine.
Inflessibile, coerente, assolutamente ininfluenzabile, non aderisce a club od associazioni, non rilascia dichiarazioni e rarissimi sono i suoi interventi pubblici. Tutto concentrato sul suo lavoro, se lo porta anche a casa, per studiare le cause su quella sua scrivania, dove spiccano un crocifisso e un Vangelo, che, da come troveranno evidenziato e con annotazioni a margine, deve essere molto consultato.
«La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità», scrive ed è facile capire da dove abbia preso spunto, così come non è difficile immaginare da dove abbia attinto che «il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico».
La giornata del giudice Livatino, oltreché nutrita di Vangelo, è intessuta di preghiera: inizia sempre con una sosta nella chiesa di San Giuseppe ad Agrigento, davanti al Tabernacolo; è una chiesetta fuori mano, in cui può pregare in incognito. Anche per la Messa domenicale sceglie una chiesa dove può passare inosservato, perché la sua non è una fede esibita, ma concreta. Riceve la Cresima da adulto, il 29 ottobre 1988: segue il catechismo insieme ai ragazzi delle medie, senza per questo farsi problemi né dare sfoggio di cultura.
«Il giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile. L’immagine di un uomo capace di condannare, ma anche di capire», scrive, ed è esattamente quanto cerca di fare per «dare alla legge un’anima», nel continuo sforzo di essere giusto nel condannare ma attento a non confondere la persona con il reato, scegliendo sempre secondo giustizia, anche se, come scrive, «scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare… (Ma) è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio: un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio».
È sua la scelta, malgrado gli inviti bonari a “lasciar perdere”, di far parte del collegio chiamato a decidere sulla confisca dei beni a quattro presunti mafiosi agrigentini, potenti ed “intoccabili” capifamiglia di Canicattì e così gli tendono un agguato il 21 settembre 1990, sulla superstrada che normalmente percorre, sempre senza scorta, per andare in ufficio: lo rincorrono per la scarpata lungo la quale si da alla fuga, uccidendolo con sei colpi mortali e quello di lupara finale, come per lasciare la firma con la loro arma preferita. Grazie ad una testimonianza oculare, in pochissimo tempo, mandanti ed esecutori vengono identificati, arrestati e condannati all’ergastolo.
Morte di mafia, quella del giudice Livatino, ma non casuale, piuttosto logica conseguenza di un impegno per la legalità, che porta san Giovanni Paolo II a definire lui e gli altri uccisi dalla mafia «martiri della giustizia e indirettamente della fede».
Il Papa, proprio dall’incontro con i suoi genitori, prende l’ispirazione per la sua celebre condanna biblica della mafia nella Valle dei Templi di Agrigento, assolutamente non prevista ma stimolata dall’esempio di Rosario, al quale è attribuita una frase particolarmente profonda: «Al termine della vita non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili».
Sulla sua “credibilità” di magistrato e di cristiano ha indagato la Chiesa: la diocesi di Agrigento ha seguito la prima fase della causa di beatificazione e canonizzazione dal 21 settembre 2011 al 3 agosto 2017: tale inchiesta diocesana è stata però volta a indagare vita, virtù e fama di santità del Servo di Dio.
Con l’inizio della fase romana è stato nominato un nuovo postulatore nella persona di monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, che aveva già contribuito, nella stessa veste, a far dimostrare il martirio in odio alla fede di don Giuseppe Puglisi, portando alla sua beatificazione.
Il 16 ottobre 2019 la Congregazione delle Cause dei Santi ha scritto al nuovo postulatore per richiedere l’istruzione di un’inchiesta suppletiva “super martyrio”, per completare il lavoro della commissione storica e ascoltare i circa venti nuovi testimoni, ma anche per riascoltare quelli già escussi, facendo riferimento esplicito alle circostanze della morte. È quindi stata realizzata la “Positio super martyrio”, presentata nel 2020.
Il 21 dicembre 2020, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui veniva riconosciuto il martirio di Rosario Livatino. La sua beatificazione è stata celebrata il 9 maggio 2021 nella cattedrale di San Gerlando ad Agrigento, nella Messa presieduta dal cardinal Semeraro come delegato del Santo Padre.
Le spoglie del giudice riposano presso il cimitero di Canicattì, nella tomba di famiglia. La sua memoria liturgica, invece, cade il 29 ottobre, giorno anniversario della sua Cresima.
Autore: Gianpiero Pettiti ed Emilia Flocchini
Il 21 settembre 1990, memoria di S. Matteo apostolo, è una giornata calda ma non afosa, tipica del mite autunno siciliano. Sono le otto, il giudice Rosario Livatino riordina alacremente i fascicoli processuali. Gesti preparatori, gli stessi di ogni mattina. Mancano appena due settimane al suo trentottesimo compleanno.
Alle 8.30 sta percorrendo, come fa tutti i giorni, la statale 640 per recarsi al lavoro presso il Tribunale di Agrigento. Sullo scorrimento veloce Agrigento-Caltanissetta viene raggiunto da un commando e barbaramente trucidato.
Un’ondata di commozione in quei giorni percorse allora il nostro Paese, nell’apprendere la sua storia dalle pagine dei giornali. L’Italia avrebbe scoperto nel sacrificio del “giudice ragazzino” l’eroismo di un giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria vita alla luce del Vangelo.
Nato a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, figlio unico di Vincenzo e Rosalia (il padre è avvocato, figlio a sua volta di avvocati), il piccolo Rosario è un bambino mite, silenzioso, dolcissimo, dai grandi occhi scuri e vellutati. I suoi giochi preferiti: macchinine e soldatini; e poi c’è a riempirgli assai presto le giornate la passione precoce per la lettura. Un’infanzia serena, la sua, vissuta nella semplicità e nel decoro di una famiglia borghese, appartata e schiva, che lo segue con attenzione e tenero affetto.
Negli anni del liceo Livatino è il ragazzo che scendeva di rado a fare ricreazione per restare in classe ad aiutare qualche compagno in difficoltà. Aperto ai bisogni degli altri, ma riservato su di sé, studia intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica.
(…)Per il liceale affascinato da Dio arriva infine il giorno fatidico della scelta: che cosa farà da grande? E non ha alcun dubbio: farà il giudice.
Nel ‘78, a ventisei anni, può coronare il suo sogno. Sulla propria agenda quel giorno scrive con la penna rossa, in bella evidenza: «Ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura». E poi, a matita, vi aggiunge: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».
Livatino avverte infatti in maniera molto forte il problema della giustizia e lo assume ben presto come una vera missione. Il dramma del giudicare un altro essere umano, di dover decidere della sua sorte, non è cosa da poco per chi senta profondo in sé il tarlo della coscienza unito a un sincero senso di carità.
Sono valori che riecheggiano pure nella «Christifideles Laici» (1988), sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, laddove si può anche leggere che «la carità che ama e serve la persona non può mai essere disgiunta dalla giustizia» (§ 42).
Ma come si fa, noi ci chiediamo, ad esercitare il diritto in Sicilia? Qui lo Stato è da sempre percepito – e sempre lo sarà – come “straniero”. La verità, si dice, ha sette teste. Come afferrarla? E come riuscire a farla trionfare nell’isola dai mille volti, l’isola “plurale” secondo la bella e calzante definizione di Gesualdo Bufalino?
È con questa difficile realtà che il giovane magistrato, fresco di laurea e di entusiasmo, dovrà fare i propri conti molto presto.
Il 29 settembre 1979 Livatino entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero. Dopo l’iniziale apprendistato, le prime inchieste importanti. È abile, intelligente, professionale; comincia a diventare un punto di riferimento per i colleghi della Procura.
Da Canicattì tutte le mattine raggiunge la sede del Tribunale, ad Agrigento, una manciata di chilometri percorsi con la sua utilitaria. Prima di entrare in ufficio, la visita puntuale alla chiesa di S. Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, dove si ferma a pregare; quindi, il lavoro indefesso al Tribunale fino a sera inoltrata.
Nell’aula delle udienze aveva voluto un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Un crocefisso teneva inoltre anche sul suo tavolo, insieme a una copia del Vangelo, tutto annotato: segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro.
(…)Il suo sincero senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario: il “missionario” del diritto. Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze: è entrato ormai nel mirino di Cosa Nostra.
Domanda che gli venga affidata una difficile inchiesta di mafia perché è l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia: con fiducia totale si affida nelle mani di Dio («Sub Tutela Dei», annota nella sua agenda).
Ma Rosario non era un eroe: faceva semplicemente il suo dovere. E lo faceva coniugando le ragioni della giustizia con quelle di una incrollabile e profondissima fede cristiana.
«Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’eucaristia domenicale, discepolo del crocifisso», sintetizzò nell’omelia delle esequie mons. Carmelo Ferraro, fotografandolo con pochi rapidi tratti. Uomo di legge, uomo di Cristo.
(…) Da quando Rosario non c’è più, lei non ha smesso un solo giorno di girare l’Italia in lungo e in largo, recandosi nelle scuole, ma anche in televisione, dovunque insomma la chiamassero per parlare del “suo” giudice. È la professoressa Ida Abate, che fu sua insegnante di latino e greco al liceo classico.
Sull’allievo scomparso ha speso fiumi di parole, ha scritto molte lettere e testimonianze. È stata poi incaricata dal Vescovo di Agrigento, monsignor Ferraro, di raccogliere le voci, i racconti, le dichiarazioni di quanti conobbero in vita Rosario, così da poter dare inizio a quel lungo e complesso iter che lo ha successivamente portato sugli altari.
Ottenuto il nulla osta da parte della Santa Sede l’11 maggio 2011, la diocesi di Agrigento ha quindi dato inizio alla sua causa di beatificazione e canonizzazione. Il processo diocesano è stato aperto a il 21 settembre 2011 e si è concluso il 3 ottobre 2018, per la verifica dell’eroicità delle virtù. Si è poi resa necessaria, nel 2019, un’inchiesta suppletiva, per verificarne il martirio in odio alla fede.
Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sul suo martirio, mentre la beatificazione si è svolta il 9 maggio 2021 nella cattedrale di Agrigento. Il 29 ottobre, giorno anniversario della sua Cresima, è la data stabilita per la sua memoria liturgica.
(…) Di Rosario molte cose si sono conosciute solo dopo la sua morte. Della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri. Il custode dell’obitorio ricordava allora con le lacrime agli occhi tutte le volte che lo aveva visto pregare accanto al cadavere di individui di cui egli ben conosceva la fedina penale, pregiudicati in cui si era imbattuto svolgendo il suo lavoro di sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento, e ai quali aveva pure applicato la legge, ma che non per questo cessavano di essere suoi fratelli in Cristo nella sventura.
«Uno dei martiri della giustizia e indirettamente della fede», ha detto di lui Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993, ricevendo in udienza privata i genitori e la professoressa Abate, durante la sua visita pastorale in Sicilia.
La lezione morale che ci trasmette è quella di un testimone radicale della Giustizia, che in essa credeva profondamente, come progetto di fede e come esercizio di carità.
Autore: Maria Di Lorenzo
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