Vivesse oggi, i “no global” ben volentieri lo annovererebbero tra le loro fila e saprebbero di poter contare su un giovane entusiasta, insoddisfatto, “politicizzato”, pronto a battersi per una giusta causa ed a contestare il sistema, disposto alla protesta ed al rischio incontrollato, specialmente di fronte a certe situazioni economico-sociali che proprio non riesce a condividere. E tutto questo, anche a costo di… perderci un piede ed una mano. Ma andiamo con ordine, facendo un salto indietro nel tempo di almeno 800 anni, tanti quanti ci separano dall’inizio dell’avventura umana del Beato Giacomo Papocchi.
Che nasce, appunto, agli inizi del XIII secolo a Montieri, un paese distante 90 miglia da Siena e che troviamo esuberante e gagliardo minatore, fino ai 30 anni, nelle miniere d’argento disseminate sui fianchi del colle che sovrasta il suo paese natale. Fino ai 30 anni, dicevamo, quando avviene il fattaccio: Giacomo, insieme ad alcuni giovani del paese, è accusato di furto del prezioso materiale, arrestato e condannato. E che, mettono un ladro sugli altari?, può scandalizzarsi qualcuno. A parte il fatto che proprio di un ladro (ovviamente pentito) Cristo stesso ha celebrato una “canonizzazione per direttissima” addirittura sul Calvario, del nostro Giacomo Papocchi nessuno si sogna di mettere in dubbio che ladro sia stato. E ladro raffinato, pure, che punta direttamente alla zecca del paese. La condanna, oggi sicuramente crudele, all’epoca ritenuta esemplare e prevista dagli statuti cittadini, è l’amputazione di una mano, riservata a chi non vuole o non può pagare la multa prevista per i ladri del prezioso minerale. A Giacomo, oltre alla mano, amputano anche un piede, perché è andato a rubare argento già raffinato e depositato nella zecca.
Una rilettura storica, oggi, porta a ritenere che il gesto ladresco di Giacomo e dei suoi amici non sia semplicemente un furto, ma un segno di aperta protesta verso il sistematico sfruttamento che Siena sta operando sul suo paese e sull’intero circondario. Un gesto politico, insomma, punito in modo esemplare e plateale con quella doppia mutilazione. Che oltre a lasciarlo invalido, però, gli fa cambiare completamente vita. Di pari passo al cicatrizzarsi delle ferite del corpo si cicatrizzano anche le ferite dell’anima, attraverso la preghiera e la penitenza. Anzi, il suo desiderio di penitenza e di segregazione, dopo tanta esuberanza e vitalità, è tale da portarlo a chiudersi in una cella, appositamente costruita per lui e addossata alla chiesa di San Giacomo. Si chiude la porta alle spalle, anzi la fa murare, per non uscire da quella cella mai più.
Per 46 anni, tanti quanti gli restano da vivere. E non per la sua pur comprensibile difficoltà a camminare, ma soltanto per il suo desiderio di restare con “Dio solo”. Lo chiameranno “il Murato”, perché in pratica la sua fu un’esistenza di “murato vivo”. Giacomo non può salire l’angusta scaletta ricavata nella spessa parete della adiacente chiesa dedicata all’Apostolo omonimo, sia perché reso zoppo e monco dalla terribile giustizia dell’epoca, sia per rispettare il voto di perpetua clausura; Lui dalla cella partecipa intimamente alla Messa che si celebrava nella chiesa ed il sacerdote, al momento della Comunione, scende a porgerGli il S.Corpo del suo Signore. Tale però è il desiderio di Giacomo di partecipare direttamente al S.Sacrificio che Gli pare che la spessa parete divisoria con il tempio si apra e così Egli può vedere il sacerdote celebrante all’altare.
Un giorno, causa abbondante nevicata il sacerdote non può salire a S.Giacomo a celebrare; tanto è in Lui il desiderio dell’Eucarestia, che Gesù stesso,“ministro e vittima” al medesimo tempo” porge Se Stesso con le proprie mani” sotto le S.Specie al Murato estasiato per il Paradiso che scende nella nuda cella.
Qui muore il 28 dicembre 1289, quando ormai la sua fama si è sparsa all’intorno e la gente sa di avere un santo, abbarbicato sul monte, che prega per loro. E la devozione si diffonde subito, in un misto di venerazione e patriottismo, è attestata già dieci anni dopo la morte e rimane inalterata attraverso i secoli. Iniziato dagli stessi Senesi il processo di beatificazione, la peste del 1348 sconvolge tutti i loro piani, comprese la progettata grandiosa cattedrale e la causa per canonizzare il Papocchi.
Tutta la documentazione va perduta, ma il suo popolo seguita nei secoli a riconoscerLo e a venerarLo come proprio Patrono. Il papa Pio IV, nel 1798, prigioniero di Napoleone nella Certosa di Firenze, su istanza dell’intero popolo di Montieri, rappresentata dal vescovo diocesano di Volterra, conferma il culto del beato Giacomo Papocchi, che viene iscritto nel catalogo dei santi della Chiesa volterrana.
Il 27 luglio, la seconda domenica di Maggio ed il 27/28 dicembre di ogni anno Montieri festeggia il suo patrono, ex ladro e rivoluzionario mancato, ma soprattutto recluso, anzi, murato vivo per amore.
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