Un matrimonio, che sembra il coronamento di una meravigliosa storia d’amore, si frantuma in pochissimo tempo, tarlato da 27 lunghi anni di tradimento coniugale, con ampi spazi di lucida follia intervallati da episodi di spavalda violenza fisica, azzardi e sperperi finanziari che portano all’indigenza. È una storia di ordinario adulterio e di sfrontato libertinaggio, per nulla datati anche se risalenti a due secoli fa, in cui solo il finale è a sorpresa, perché intessuto con l’impercettibile sottilissima trama di una misericordia in “formato famiglia”.
Elisabetta Canori, bellissima e dolcissima figlia di un agiato proprietario terriero, il 10 gennaio 1796 sposa Cristoforo Mora, figlio di un rinomato medico romano che sembra avere tutte le carte in regola per essere un “ottimo partito”, in quanto colto, educato, religioso, con una ben avviata carriera di avvocato.
Sembra anche innamoratissimo della giovane moglie, il che, se è un valore aggiunto in un matrimonio d’amore autentico, finisce per essere più che un campanello d’allarme se spinto quasi all’eccesso di un’idolatria per la bellezza della moglie, costretta a non far niente per non sciuparsi o stancarsi e impedita anche di cucire o ricamare perché non le si induriscano le affusolate, bianchissime dita.
Si tratta, evidentemente, di un amore malato, che si trasforma ben presto in ossessiva gelosia: Cristoforo arriva ad impedire alla moglie qualsiasi contatto con l’esterno, inibendole la possibilità di incontrare chiunque, anche i genitori.
Altrettanto velocemente, alla paranoica gelosia subentra una glaciale freddezza e la più totale indifferenza verso la moglie, perché Cristoforo si è invaghito di un’altra donna, a causa della quale comincia a disertare il proprio lavoro e la propria casa, rientrando sempre a notte fonda, se non alle prime luci dell’alba, dopo serate di sesso, gioco e bagordi.
L’amante è riuscita ad irretirlo al punto da succhiargli progressivamente le sue sostanze e fargli trascurare la professione, riducendolo sul lastrico. E, questo, nonostante Elisabetta gli abbia partorito nel frattempo quattro figlie, due sole delle quali riescono però a sopravvivere.
Marito fedifrago e padre completamente assente, non si sente minimamente in colpa nel lasciar la famiglia priva del necessario, ma almeno ha il buon gusto di concedere, sull’educazione delle bimbe, ampia libertà alla moglie.
Lei ne approfitta per farle crescere con i principi cui si ispira, perché il tradimento, pur se sfacciatamente consumato alla luce del sole, non è riuscito ad indurirne il cuore né a mortificarne la femminilità.
Si è proposta di praticare la dolcezza, esercitare la pazienza e non adirarsi mai e così ogni notte attende il suo uomo, appena uscito dalle braccia di un’altra donna, accogliendolo come il più fedele dei mariti. Non certamente succube né da lui plagiata, diventa capace di contestargli l’adulterio con dolcezza, consapevole che quanto a lui la lega in virtù del sacramento del matrimonio, è di gran lunga superiore a qualsiasi tradimento.
Arriva addirittura a pregare per la “rivale in amore”, augurandosi di poterla avere accanto in paradiso e che ciò non sia buonismo lo dimostra insegnando alle figlie a rispettare quella donna che, umanamente parlando, davvero non se lo meriterebbe. Non per convenienza, tantomeno per servile sottomissione, resta a lui legata, forse con la segreta speranza di recuperarlo e convertirlo, perché si sente responsabile della di lui salvezza.
Dopo essersi spogliata dei suoi pochi gioielli ed aver messo in vendita addirittura il suo abito da sposa per pagare alcuni tra i tanti debiti contratti dal marito, va mendicando dilazioni dai creditori, trangugiando le umiliazioni che ciò le procura e fermandosi soltanto quando i più spavaldi tra questi osano avanzarle ricatti sessuali.
Nessun aiuto le arriva dai parenti di lui, piuttosto ulteriori amarezze che acuiscono, semai fosse possibile, il suo senso di completo abbandono. Contestata duramente dal suocero e criticata con acredine dalle due cognate, riesce a trovare un minimo di sostegno solo dalla suocera, che si fa sua complice nel sanare, di nascosto dal marito, qualche debito, le procura qualcosa da mangiare e l’aiuta nell’educazione delle bimbe.
È anche l’unica a sostenere l’attività caritativa di Elisabetta, permettendole di raccattare quello che avanza dai pasti o che le figlie cestinano, perché questa lo possa distribuire ai tanti poveri cui dà assistenza. Perché sua nuora, pur in estrema indigenza, non si ritiene tanto povera da ignorare gli accattoni o da non assistere i malati abbandonati.
Umiliata ma non sconfitta, tradita ma per nulla perdente, Elisabetta riesce a tener testa all’adultero marito costruendosi una propria personalità libera, paziente e misericordiosa, che non si lascia piegare dalle derisioni, dalle privazioni e neppure dalle minacce.
Non per compensazione, men che meno per rivalsa nei confronti di un marito inadempiente sotto tutti i punti di vista, accetta che Gesù venga «a fare da padre e padrone di casa», attraverso una maturazione cristiana che compie grazie all’aiuto di illuminati consiglieri spirituali.
Aderisce al Terz’Ordine trinitario e scopre la sua vocazione nella Chiesa: essere dono di amore in Cristo, animata dallo Spirito, per la gloria del Padre e per la salvezza dei suoi e di tutti gli schiavi e i poveri, a cominciare dal marito, perché è difficile trovare chi sia più di lui schiavo delle proprie passioni e spiritualmente più povero.
Il suo diario, scritto per obbedienza al confessore e pubblicato con il titolo «Nel cuore della Trinità», racconta della sua ascesi, nell’eroica fedeltà ad un uomo che arriva anche a pretendere da lei, sotto la minaccia di un coltello puntato alla gola, un’autorizzazione scritta a frequentare l’amante, nella speranza di scampare così alla galera cui, a quel tempo, andavano incontro gli adulteri e gli immorali.
La denuncia di adulterio parte dalle sorelle, ma a farne le spese è principalmente Elisabetta, per la quale inizia il periodo più difficile e delicato, in cui c’è da temere per la sua stessa incolumità. Amici, parenti e anche qualche confessore le consigliano di abbandonare un marito violento, volgare e pericoloso, che potrebbe anche ucciderla, ma lei ostinatamente rifiuta, sentendosi protetta dalla preghiera e dalla sua intimità con Gesù.
Non lo fa per opportunismo o moralismo, men che meno per motivi economici, avendo ormai raggiunto un’autosufficienza con i suoi lavori di cucito, che le permettono di provvedere da sola al mantenimento della famiglia, marito compreso, ma perché a lui si sente legata per fedeltà al fatidico “sì” pronunciato davanti all’altare.
Sembra che questo suo eroismo, unito ad un’intensa vita spirituale, venga premiato in modo singolare attraverso doni speciali: esperienze mistiche, scrutazione dei cuori, spirito di profezia, poteri taumaturgici che fanno della sua casetta luogo privilegiato per accogliere, consolare, guarire le tante ferite fisiche e morali dei suoi contemporanei.
Naturale è che da lei, già allora considerata la santa paziente delle donne tradite, trovino particolare accoglienza le famiglie in difficoltà. Alle frequenti derisioni e agli scherni del marito, risponde ora con frasi oscure, dal vago sapore profetico: «Ridete, ridete, voi direte la Messa e confesserete», oppure: «Verrà anche per voi la Notte di Natale».
Muore il 5 febbraio 1825, appena cinquantenne. Nei 40 giorni di malattia si accorge che Cristoforo è più presente, magari anche disposto a vegliarla, ma non ha la gioia di vederlo cambiato: invariate sono rimaste le sue abitudini, anche nella notte del 4 febbraio, quando esce per i suoi soliti divertimenti notturni, rientrando come sempre all’alba del giorno dopo.
Quel mattino, però, Elisabetta, non è ad attenderlo, sveglia come sua abitudine, perché è spirata da alcune ore e i singhiozzi senza ritegno davanti al suo cadavere sono la reazione del tutto inattesa di Cristoforo: non lacrime di coccodrillo come si potrebbe malignamente dedurre, ma un pianto purificatore, che sembra voler cancellare i 27 anni di torture che le ha inflitto.
Da quel preciso istante inizia il processo di conversione di Cristoforo, che, si scoprirà in seguito, pochi mesi prima si è visto morire tra le braccia anche l’amante. Da impenitente dongiovanni trasformato nel più irreprensibile vedovo, cerca, nel pianto e nella preghiera, il perdono per il suo passato in un percorso che inizia con l’innamorarsi per la seconda volta di Elisabetta, della quale riconosce che «l’aveva fatta santa con i suoi strapazzi», passa attraverso la pubblica ammenda delle sue colpe affermando che «una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle stato consorte» e termina con il suo ingresso nei Francescani e la sua ordinazione sacerdotale nel 1834, avverando così la “profezia” della moglie.
Morirà l’8 settembre di undici anni dopo con fama di santo, diventando il miglior capolavoro di Elisabetta Canori Mora, che la Chiesa ha proclamato beata il 24 aprile 1994 insieme a Gianna Beretta Molla: entrambe, secondo l’espressione di Giovanni Paolo II, «donne d’eroico amore».
Autore: Gianpiero Pettiti
Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli.
La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all'educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione.
I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un'altra sorella, Benedetta.
Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l'insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all'aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta.
Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza.
Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un "tradimento", anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata.
Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.
Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriera di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico.
Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà. La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all'assistenza degli ammalati.
La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un'azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l'ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare.
La fama della sua "santità", l'eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi "poteri taumaturgici" hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze. Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio.
Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825. È sepolta nella Chiesa di San Carlino.
Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell'Ordine secolare dei Trinitari e diviene, poi, frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte.
Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994 -Anno Internazionale della Famiglia.
"Mi distaccai dalle vanità, vinsi molti ostacoli che m 'impedivano d'andare a Dio…".
"Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio".
"Figlia mia diletta, offriti al mio celeste Padre a pro della Chiesa: ti prometto il mio aiuto …".
(dall'autobiografia)
"Una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte".
( il marito Cristoforo alle figlie) .
Autore: Carmelo Randello
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