Verucchio, Rimini, 1225 ca. - Fonte Colombo, Rieti, 1343
Nato a Verucchio nel 1225, a quindici anni vestì l'abito degli eremiti di S. Agostino. Dieci anni più tardi si ritirò a vita eremitica sul Monte Carnerio (nei pressi di Rieti) dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1343. Il culto per Gregorio Celli incominciò prestissimo e venne confermato da Papa Clemente XIV nel 1769.
Martirologio Romano: A Verrucchio in Romagna, beato Gregorio Celli, sacerdote dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che, scacciato dal monastero dai suoi confratelli, si dice sia morto tra i Frati Minori sul monte Carnerio.
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Per gli antichi i santi erano santi e basta. A noi oggi piace sapere una gran quantità di dati biografici: una volta bastava sapere che la santità era garantita dalla vox populi e dall’intervento del divino. Per il resto era normalissimo che le loro vite fossero condite da una abbondante presenza di fatti straordinari che ne confermavano la santità.
Siamo a Verucchio, un paese abbarbicato su una rupe che si eleva tra gli ulivi della piana di Rimini, con una vista eccezionale sulla riviera adriatica. Gregorio era nato su quella rocca nel lontano 1225. Non era un bambino uguale agli altri: non partecipava alle chiassose battaglie con le spade di legno che i suoi compagni facevano per le viuzze del paese. Dopo la morte del padre era diventato solitario: con i suoi occhioni tristi guardava per un po’ e poi spariva. Tutte le sere, all’ora del Vespro, sua madre lo andava a prendere nella chiesetta dei frati di Giovanni Bono, a strapiombo sulla rocca. Gregorio era lì, estasiato dal canto gregoriano, maschio e solenne, che sembrava venire da un altro mondo. Tutti i suoi parenti, benché religiosissimi, temevano in fondo al cuore che quel bambino non sarebbe mai diventato dottore in legge come suo padre. Infatti, appena poté, a 15 anni, chiese di entrare in convento. A quel punto anche la madre, libera ormai da ogni vincolo, si fece terziaria o, come si diceva allora, Sorella della Penitenza.
Così un giorno, a dorso della mula del convento, fu accompagnato dal priore a Cesena nell’eremo di fra Giovanni Bono, per fare il noviziato. Furono due anni intensi di preghiera e di penitenza, alla scuola di un eremita che tutti già ritenevano santo. Poi emise i voti nelle mani di fra Matteo da Modena, che nel frattempo era diventato superiore dell’Ordine: “Io fra Gregorio faccio professione e prometto obbedienza a Dio e alla Beata Maria, e a te fra Matteo, priore dei Frati Eremiti di fra Giovanni Bono, secondo le Costituzioni di questo luogo”. Con la Professione fece anche testamento: d’accordo con sua madre destinò tutti suoi averi al convento di Verucchio perché venisse restaurato e ingrandito.
Terminato il Noviziato, fu avviato agli studi per diventare sacerdote. In quei tempi il Papa aveva dato agli Eremiti di Giovanni Bono il compito di aiutare le parrocchie soprattutto con la predicazione e la confessione. Fra Matteo, il Generale della Congregazione, scelse fra Gregorio perché insieme ad altri andasse, su richiesta dei Vescovi, a predicare contro l’eresia dei Càtari. Questi erano eretici che seminavano nel popolo di Dio il disprezzo dei sacerdoti e soprattutto negavano che il pane e il vino, che venivano consacrati durante la Messa, diventassero il Corpo e il sangue di Cristo.
Nel giro di pochi anni erano passati per le Romagne san Francesco, sant’Antonio da Padova, san Domenico… come se al concentrato di eresie ci fosse stato bisogno di un concentrato di santità.
Fra Gregorio si diede anima e corpo alla predicazione e sembra abbia incontrato il celebre eretico Armanno Pungilupo, anche se non si sa con quali risultati. Visse così gran parte della sua vita, stimato dalla gente perché sapeva unire alle parole una cristallina santità di vita.
Ormai settantacinquenne, pensò di poter finire i suoi giorni degnamente con la partecipazione al primo Giubileo del 1300. E partì per Roma. Visitò e pregò sulle tombe degli Apostoli ed un’idea incominciò a balenargli in cuore. Si fece ricevere dal Generale dell’Ordine agostiniano, che a quel tempo era il beato Agostino Novello, e gli spiegò che, essendo ormai vecchio, avrebbe voluto ritirarsi a vita penitente sui monti di Rieti, dove altri agostiniani già da tempo vivevano come eremiti. Agostino Novello, che amava immensamente quella vita e che stava anch’egli pensando di abbracciarla, accondiscese di cuore, abbracciò fra Gregorio e si raccomandò alle sue preghiere.
Visse in una grotta come fra Giovanni Bono, pregando e digiunando, e aspettando che la morte lo ricongiungesse a quel Signore per il quale aveva dato la vita. Ma la morte sembrava essersi dimenticata di lui, perché superò abbondantemente i cento anni. Finalmente un giorno una mula si fermò davanti alla sua grotta e fra Gregorio capì che era giunto il momento di ritornare a casa.
Nel bel mezzo della notte tutte le campane di Verucchio incominciarono a suonare come a mezzogiorno e davanti alla porta della rocca si fermò una mula che portava un peso indistinto sulla groppa. Le sentinelle abbassarono il ponte levatoio e con precauzione aprirono la porta: la mula senza indugio prese la via del convento, seguita dalla gente uscita di casa con armi e torce. Giunta sul sagrato della chiesa si fermò davanti al Priore e a tutti i frati raccolti dietro di lui. Poi crollò in terra fulminata dalla fatica. Tutti si avvicinarono e il Priore sollevò la coperta: la mula aveva portato fin lì il cadavere di un vecchio frate con la lunga barba bianca. Un mormorio di stupore si levò dalle bocche di tutti, perché quel morto era frate Gregorio, tornato dopo tanti anni fra la sua gente. Fu sepolto sotto un altare della chiesa e venerato da tutti come il santo che era ritornato per proteggerli. La gente volle che anche per la mula ci fosse una degna sepoltura, perchè era chiaro che lo scopo della sua esistenza era stato quello di portare a termine una grande missione. Così fu sepolta nel luogo stesso in cui era morta, davanti alla porta della chiesa, sotto i ciottoli che la gente attraversa ancora in punta di piedi.
Fra Gregorio è rimasto lì, guardato a vista perché nessuna mula si sognasse di portarlo via. Solo quando la campagna aveva bisogno di acqua si portava la sua testa in processione per i campi. E a memoria d’uomo non fece mai ritorno in chiesa senza che grossi goccioloni incominciassero a cadere.
Autore: Padre Mario Mattei
Fonte: www.historiaaugustiniana.net
Le notizie sulla sua vita sono del XVII secolo, circa tre secoli dopo la sua morte, quindi risentono di tutte le incertezze dovute al lungo tempo trascorso in silenzio.
Il beato Gregorio Celli nacque verso il 1225 a Verucchio, oggi in provincia di Rimini, una volta era quella di Forlì e venne battezzato nell’antica pieve di S. Martino.
Aveva tre anni quando rimase orfano del padre e verso i quindici anni vestì da laico cioè fratello, l’abito degli Eremiti di S. Agostino, il cui monastero era situato nel suo paese.
Trascorsero una decina d’anni nei quali Gregorio Celli dimostrò tutta la sua perfezione di vita evangelica, suscitando purtroppo l’invidia dei religiosi del convento, che presero a rendergli la permanenza insopportabile.
Allora si allontanò dal convento e da Verucchio e si rifugiò in un eremo sul Monte Carnerio, nei pressi di Fonte Colombo (Rieti), dove visse molti anni, morendo vecchissimo nel 1343; si narra che le sue spoglie siano prodigiosamente ritornate a Verucchio, dove sono venerate attualmente nella Chiesa di S. Agostino.
Nel secoli successivi, insigni artisti hanno arricchito il suo altare di grandi opere d’arte in legno e oro, come la superba tribuna di stile berniniana, che incornicia un pregevole quadro del fiorentino Giovanni Maria Morandi, raffigurante il beato Gregorio Celli che prega davanti alla Croce.
Essendosi perso ogni documento autentico circa il suo culto, compreso il decreto di beatificazione emanato nel 1357 da papa Innocenzo VI, fu istruito un processo presso la Curia di Rimini nel 1757, per ribadire l’autenticità del culto, che fu confermato il 6 settembre 1769 da papa Clemente XIV suo corregionale, il quale era cresciuto in giovinezza proprio a Verucchio.
Il beato Gregorio Celli è invocato nelle grandi calamità; il ‘Martyrologium Romanum’ lo riporta all’11 maggio, ma veniva ricordato anche il 23 ottobre.
Autore: Antonio Borrelli
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