“Signore, insegnami ad essere furbo” è la sua preghiera preferita, che recita ed insegna ai suoi penitenti, come ricorderà il futuro cardinal Ballestrero, che andava spesso a confessarsi da lui. Ed “essere furbo”, per lui, significa pensare che tutto passa, solo il paradiso è eterno ed allora tutto deve essere fatto in vista di quello che ci attende, senza calcoli e senza perdersi di coraggio quaggiù. Nasce nel 1863 a Pogliano Milanese, in una casa dove si fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ma in cui i genitori tutte le domeniche vanno a fare la comunione (a quei tempi!) e non tornano mai a casa senza portarsi dietro un povero invitato a pranzo. Perché sono convinti, e lo insegnano ai figli, che non si può ricevere Gesù senza spalancare la porta ai poveri. Non stupisce proprio, allora, se tra i loro cinque figli, sopravvissuti agli otto che hanno avuto, uno scelga di lavorare tra “i poveri più poveri” del Cottolengo. Arriva a Torino giovanissimo, su consiglio del suo parroco, dopo aver faticato a staccarsi dai suoi; vinto dalla nostalgia e tormentato dal dubbio di aver fatto la scelta giusta, una notte tenta anche di scavalcare il muretto di cinta del seminario per tornare a casa. Sul momento prevale il buon senso, in seguito la grazia di Dio fa il resto, e così a 23 anni è ordinato prete con tanto di dispensa papale per la giovane età, perché davvero nessuno ha dubbi sulla sua vocazione. Il pretino (che oltre ad essere giovane è anche piccolo di statura), trova subito la sua collocazione all’interno del Cottolengo: per 53 anni sarà maestro, predicatore, confessore e direttore spirituale, in un’attività vorticosa e semplice allo stesso tempo, facendosi tutto a tutti e condendo ogni cosa con il suo inconfondibile sorriso. Perché, se del Cottolengo si diceva che era il “Canonico buono”, di don Franceschino dicono semplicemente che è “il prete che sorride”. Il suo è un sorriso che conquista: i bambini, prima di tutto, che vanno volentieri a confessarsi da quel piccolo prete, poco più alto di loro, ma anche, indistintamente, vescovi e preti, nobildonne e popolani, suore e seminaristi, che quando hanno bisogno di un conforto, un consiglio o una spinta vanno a cercare quel prete che fa sorridere il cuore. Dato che poi i santi hanno buon fiuto e si riconoscono a distanza, riesce a farsi conquistare anche dal canonico Allamano, che prima gli chiede di andare a confessare regolarmente i giovani preti del convitto, poi i futuri Missionari della Consolata, infine inizia con lui una fraterna emulazione alla virtù, con la familiarità e la sincera amicizia che soltanto i veri santi sanno avere. Anche la diocesi torinese si accorge di che perla di prete sia e così fioccano gli incarichi. Il vescovo di Torino lo vuole confessore dei seminaristi, dicendo loro che quel pretino “è un altro San Luigi”; gli chiede in continuazione di predicare corsi di esercizi spirituali; lo segnala come confessore a svariati istituti di suore; lo vuole provicario della diocesi, consultore per lo spostamento dei preti e insegnante in seminario, anche se qualcuno, forse più per invidia che per convinzione, storce il naso, dicendo che, in quanto ad intelligenza e capacità, a Torino si potrebbe trovare di meglio. Come don Franceschino riesca a reggere una tale mole di impegni è tuttora un mistero: lui non obbietta, non si lamenta, quasi si scusa di non poter fare di più, anche perché gli impegni diocesani si assommano a quelli che regolarmente continua a svolgere alla Piccola Casa. “E’ mio Padre”, risponde con disarmante semplicità a chi gli fa notare che anche nel fisico ha una certa somiglianza con il Cottolengo. Da quel Padre ha ereditato soprattutto la fede, “ma di quella”, che gli fa compiere piccoli prodigi, come leggere nei cuori, vedere a distanza e operare guarigioni con semplici impacchi di acqua fresca, che lasciano chiaramente intendere che il rimedio non sta nelle medicine ma soltanto nella fede. Se lui non dice mai basta, è il suo cuore a ribellarsi e ad andare a brandelli per il suo continuo a donarsi. È costretto alla completa inattività ed a passare dal letto alla sedia, fino al 7 maggio 1939, quando si spegne. Poveri e ricchi, preti e vescovi sfilano davanti alla sua bara. Il 17 settembre 2011 è stato beatificato a Torino, primo prete del “Cottolengo”, dopo il fondatore, ad essere elevato alla gloria degli altari. La memoria liturgica del Beato Francesco Paleari è celebrata il 18 settembre.
Autore: Gianpiero Pettiti
Il grande scrittore russo Fëdor Dostojevskij disse: “Se volete conoscere a fondo un uomo, giudicatelo non dalle parole, dalle lacrime o dai suoi silenzi. Neppure le sue idee ve lo faranno conoscere appieno. Guardatelo bene quando sorride. Quest’uomo è buono se il suo sorriso è buono….”.
E il sorriso inconfondibile, dolce, accattivante, di don Paleari fu il segno distintivo della sua bontà, che lo fece amare da tutti.
Francesco Paleari nacque a Pogliano Milanese (MI) il 22 ottobre 1863, i suoi genitori Angelo Paleari e Serafina Oldani erano poveri contadini, ma nella loro famiglia non mancava la serenità e tanta fiducia in Dio e si lavorava sodo per crescere i cinque figli rimasti degli otto nati; la mortalità infantile dell’epoca mieteva vittime in quasi tutte le famiglie.
Crebbe sereno, gioioso e ben disposto verso tutti i compagni in ogni occasione, tanto che a detta di qualcuno di loro, era impossibile litigare con lui; Franceschino non crebbe molto di statura e resterà sempre piuttosto piccolo ed esile nel fisico.
Il parroco di Pogliano scorse in lui tutti i segni di una buona vocazione sacerdotale e per superare le difficoltà economiche della famiglia, che erano un ostacolo alla sua entrata in Seminario, scrisse a Torino alla ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza’, fondata da s. Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), dove il santo fondatore oltre ad accogliere fra le sue mura persone affette da ogni miseria umana, intese di dare aiuto anche nelle necessità spirituali, spesso altrettanto gravi.
Pertanto aveva istituito anche un piccolo Seminario, dove le rette erano puramente simboliche, per poter studiare e diventare sacerdote dello stesso Istituto, oppure in completa libertà passare fra il clero diocesano.
Il primo successore del Cottolengo, padre Anglesio rispose favorevolmente per l’ammissione di Franceschino Paleari fra gli aspiranti detti “Tommasini”.
Superate le normali difficoltà derivanti dalla nostalgia dei familiari e della sua casa, dall’incertezza di aver scelto la strada giusta, Francesco Paleari si ambientò ottimamente e vivendo con mitezza, scrupolo, zelo nello studio, impegno formativo del suo carattere e della sua vocazione, compì tutti gli studi necessari, venendo ordinato sacerdote il 18 settembre 1886 a 23 anni.
Durante il lungo corso di studi era stato continuamente in contatto con la triste realtà degli ospiti della ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza’, poi chiamata “il Cottolengo di Torino”, solo chi era disposto a soffrire per gli altri con quasi nessuna soddisfazione personale, poteva restare a lavorare nella grande Istituzione e il giovane Francesco Paleari era uno di questi e decise di rimanere.
Dopo 53 anni, alla sua morte fu detto di lui: “Don Paleari fu solo e sempre Sacerdote!”. La celebrazione della sua Messa era una mezz’ora di Paradiso per lui e per i presenti, tale era l’intensità spirituale, di fervore e di fede del ‘Piccolo Prete del Cottolengo’.
Il giovane sacerdote fu incaricato d’insegnare il latino fra gli allievi cottolenghini e l’insegnamento per molti anni lo vedrà sempre Maestro diligente, preparato, paziente e persuasivo con il suo sorriso, non solo al Cottolengo, ma anche fra i Missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano (1851-1926).
Cambiò materia e testi d’insegnamento, cambiarono per età e intelligenza i suoi allievi, ma lui restò fino alla maturità il Maestro di filosofia di tante figure celebri per la loro riuscita, ma anche di tanti timidi allievi che si fermarono prima.
Poi dalla Diocesi di Torino arrivarono sempre più spesso le richieste per incarichi al Piccolo Prete del Cottolengo. Per più di 40 anni fu confessore e direttore spirituale del Seminario diocesano, predicatore di Esercizi al Clero, a Religiose e ad ogni ceto di persone; Provicario dell’Arcidiocesi torinese, canonico del “Corpus Domini” dal 1922.
Quanti l’avvicinavano, non finivano di stupirsi della mole incredibile di lavoro, che con una calma veramente inalterabile riusciva a smaltire. Accettava incarichi, lavori ingrati, impegni straordinari, a volte pesi eccessivi per le sue spalle e tutto con la semplicità di un “servizio dovuto”, quasi scusandosi di non fare di più.
Nel 1936 ebbe frequenti crisi cardiache, che lo costrinsero ad una inattività assoluta, inchiodato alla sua Croce dalla malattia, fu un martirio del cuore e la lenta agonia della sua lucida e viva mente.
Con le lacrime agli occhi diceva a chi lo avvicinava: “Noi dobbiamo essere nelle mani di Dio, come una palla nelle mani di un bambino che gioca. Quanto più forte la palla viene buttata a terra, tanto più rimbalza in alto!”.
I superiori tentarono di farlo migliorare facendolo soggiornare a Celle Ligure nella colonia marina, ma inutilmente, quando fu riportato a Torino alla Piccola Casa della Provvidenza, la sua stanzetta d’ammalato diventò quasi una cappella, con la semplicità di un fanciullo continuava ad ubbidire a tutti.
Dopo un’agonia di alcuni giorni morì il 7 maggio 1939, dopo tre anni di sofferenza e di lento spegnersi della sua grande vitalità; i funerali , come d’uso nella Piccola Casa dove ogni giorno la morte faceva il suo lavoro, dovevano essere estremamente semplici, perché lì non si facevano distinzioni dal Superiore Generale all’ultimo dei ricoverati e così doveva essere per il piccolo Prete anche se monsignore, canonico e con altri meritati titoli.
Ma la voce si diffuse per Torino e man mano affluirono tanti suoi allievi, monsignori, vescovi, sacerdoti, popolo, professionisti, giovani, tanti poveri, ognuno volle rendere omaggio al piccolo emulo del suo Fondatore del quale aveva anche nel viso una forte somiglianza.
I funerali furono un vero trionfo; per la fama di santità che l’accompagnò anche dopo morto, la sua salma il 6 maggio 1946, fu traslata dal cimitero di Torino alla Chiesa del Cottolengo e tumulata non lontno dal fondatore San Giuseppe Benedetto Cottolengo.
La Causa di Beatificazione, iniziata l'11 giugno 1947, fu affidata nel 1980 a P. Antonio Cairoli, Postulatore generale OFM. Il 6 aprile 1998 don Francesco è stato dichiarato venerabile dal Beato Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) e il 10 dicembre 2010 fu promulgato il decreto che riconosce la guarigione miracolosa ottenuta per sua intercessione. Don Francesco Paleari è stato beatificato il 17 settembre 2011 nella Chiesa della Piccola Casa della Divina Provvidenza a Torino; il rito è stato presieduto, in rappresentanza di Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger, 2005-2013), da S. Em. Angelo Card. Amato, S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. La sua salma è stata ricollocata nella cappella di fronte a quella del Santo Cottolengo.
Piace concludere questa piccola scheda riportando alcune massime di don Francesco Paleari:
“La Croce prima è amarissima, poi amara, poi dolce e infine rapisce in estasi”.
“Il Signore ci manda le sofferenze per tre P; per pena, per prova, per premio”.
“Prontezza nel cominciare, pazienza nel continuare, perseveranza nel terminare”.
Autore: Antonio Borrelli
|