A Pepi piacciono le stelle, si incanta a fissare il cielo e da grande vorrebbe fare l’astronomo: deve accontentarsi invece di un diploma di scuola commerciale e adattarsi a fare il cassiere in un paio di aziende di Bolzano.
Nato nel 1910 in una famiglia di viticoltori, ha lo sport nel sangue, ama il pattinaggio, legge con avidità libri impegnati, coltiva una intensa vita spirituale. Gli piace Tommaso Moro, l’inflessibile cancelliere che quattro secoli, pur di non perdere la sua fede, si oppone al re d’Inghilterra, che lo fa decapitare. Travolgente e vulcanico trascinatore di giovani, ne cura la formazione umana e spirituale, dicendo che «dare testimonianza oggi è la nostra unica arma efficace», perché sull’Europa si stanno addensando i cupi nuvoloni del nazionalsocialismo e «intorno a noi c'è il buio della miscredenza, dell'indifferenza, del disprezzo e forse della persecuzione».
Naturale che ad un giovane così si offra la presidenza della Gioventù Cattolica Sudtirolese, che in quegli anni si sta organizzando, sapendo di metterla in buone mani; altrettanto naturale che, così facendo, si esponga troppo e finisca per essere attenzionato dalle autorità, che si convincono di avere in lui un pericoloso formatore di coscienze e un temutissimo testimone. Non sfuggono, ad esempio, queste sue parole del 1936, quasi premonitrici della sua scelta futura: «Oggi, più che in qualsiasi altro tempo, si esige nell’Azione Cattolica un cattolicesimo vissuto. Oggi, si deve mostrare alle masse che l’unico capo che solo ha diritto ad una completa, illimitata autorità e ad essere il nostro “condottiero” è Cristo».
Si innamora, esattamente come gli altri, quando conosce Hildegard, che lavora nella sua stessa ditta: c’è un’affinità evidente tra i due e una gran condivisione di ideali. Le fa una corte spietata e tenace fino a quando lei, che sta pensando seriamente di farsi suora, gli dice di sì. Convinto che nel matrimonio ci sia spazio sufficiente per testimoniare la propria fede e aspirare alla santità, la sposa il 26 maggio 1942 e l’anno successivo sono rallegrati dalla nascita di Albert.
Fidanzamento e matrimonio non lo distolgono dalla sua multiforme attività sociale e religiosa, anche in conseguenza della quale viene arruolato a forza nelle divisioni dell'esercito nazista e condotto a Konitz per l'addestramento. Insieme all’indottrinamento ed alle esercitazioni militari che dovrebbero fare di lui una perfetta SS, lo preparano anche al giuramento, insegnandogli la formula: «Giuro a Te, Adolf Hitler, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a Te e ai superiori designati da Te obbedienza fino alla morte. E che Dio mi assista». Ed è qui che va in crisi la fede di Pepi, al quale sembra blasfemo coinvolgere il Dio in cui crede nel culto del capo innalzato a idolo.
«Ci tocca oggi assistere a un culto del leader (Führer) che rasenta l'idolatria», scriveva nel 1936; «non posso giurare a questo Führer» dice a voce alta la mattina del 4 ottobre 1944, aggiungendo di non sentirsi nazionalsocialista per motivi religiosi. Ai commilitoni, che lo invitano a ritrattare, risponde senza enfasi, ma con profonda convinzione, che «se nessuno avrà mai il coraggio di dire no ad Hitler, il nazionalsocialismo non finirà mai». Una scelta, la sua, maturata nei lunghi colloqui con il fratello don Jakob e con la moglie, alla quale scrive: «Prega per me, affinché nell'ora della prova io possa agire senza esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza (…) tu sei una donna coraggiosa e nemmeno i sacrifici personali che forse ti saranno chiesti potranno indurti a condannare tuo marito perché ha preferito perdere la vita piuttosto che abbandonare la via del dovere».
Subito incarcerato e processato, viene condannato a morte come “disfattista”. Caricato su un treno a inizio febbraio 1945, insieme ad altri 40 obiettori, con destinazione Dachau, il convoglio si ferma ad Erlangen perché la linea ferroviaria è stata bombardata: Pepi sta male, ha la febbre, la dissenteria lo sta uccidendo. Per iniziativa di una delle guardie (un ex seminarista) si affronta un viaggio a piedi di tre ore per farlo visitare da un medico nazista, che lo rimanda indietro: «Niente di grave, può riprendere il viaggio».
Tornato sul treno, muore quella stessa notte. «Per broncopolmonite», dirà il telegramma che oltre un mese dopo, arriverà a casa sua; «Per Cristo e per la fede», dice la Chiesa, che ha ufficialmente sancito quest’affermazione dopo un lungo processo.
Autore: Gianpiero Pettiti
Il contesto storico
La dittatura nazista fu terribile per la paura che incuteva, nefasta per le sue leggi segregazioniste e razziali, sciagurata per la violenza che usò e per le guerre arrecate al mondo, orribile per i crimini contro l’umanità di cui si macchiò, tanto più perpetrati nella civile Europa.
E se, per i più svariati motivi, il popolo tedesco e quelli dei Paesi orbitanti intorno al III Reich furono accondiscendenti, se non collaboranti di questa ventata di dittatura nazionalistica, non pertanto ci furono anche fra i loro cittadini figure esemplari, che con atto di eroismo cosciente, dissentirono dalla politica imposta da Adolf Hitler e dai suoi gerarchi.
Alcuni, che pagarono con la vita la loro opposizione, sono stati beatificati e canonizzati, oppure hanno in corso la causa per la loro beatificazione, ovviamente se cattolici. Per i laici la cosa è stata più difficile, sperduti nella gran massa di detenuti, prigionieri, deportati, perseguitati, che languirono e morirono nei campi di sterminio, o ancora prima di arrivarci. Tra di essi, Josef Mayr-Nusser.
Nascita e famiglia
Nacque il 27 dicembre 1910 a Bolzano, in un maso (tipica abitazione di campagna) di media grandezza situato ai Piani di Bolzano, vicino al fiume Isarco. La famiglia non era benestante: il padre faceva il viticoltore, ma non le fece mancare mai il necessario. Morì in guerra nel 1915, lasciando la moglie e sette figli.
Josef, o Pepi come lo chiamavano in casa, era il terzogenito. Crebbe nel sano ambiente del maso Nusser, imparando a condividere il pane con chi non aveva nulla: la porta della tenuta era sempre aperta per i bisognosi, che non andavano mai via privi del necessario.
Nelle Conferenze di San Vincenzo
Non fu solo spettatore della grande povertà esistente al suo tempo, nel quartiere dove era nato e cresciuto. Affascinato dalla figura e opera del beato Federico Ozanam, fondatore delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, a soli 22 anni divenne confratello della Conferenza di Bolzano/Centro e poi di quella del quartiere Piani, fondata nel 1937, della quale divenne presidente.
Sebbene così giovane, era dotato di particolare sensibilità verso i poveri. In una lettera del 1940 scriveva agli altri soci: «Quando il confratello della San Vincenzo si accinge a visitare una famiglia di poveri, dovrebbe a tutti i costi organizzarsi il tempo in modo da poter dedicare almeno dai dieci ai quindici minuti alla visita. […] Nel nostro atteggiamento non ci deve essere traccia di fredda condiscendenza, perché in tal modo feriremmo i nostri assistiti. Dobbiamo evitare ogni forma di paternalismo. Non esprimiamo al povero la nostra compassione con frasi fatte; quello che diciamo deve venire dal nostro cuore, solo così potrà trovare la strada al cuore dell’altro».
Impiegato e autodidatta
La sua giornata, fatta anche di preghiera, iniziava con la partecipazione alla Messa delle 6.30. Il padre, come già detto, era morto in guerra, mentre il fratello più grande, Jakob, era in seminario. Josef, quindi, si poté permettere solo la scuola commerciale, che gli diede l’opportunità di trovare un lavoro come impiegato presso le manifatture Eccel, una ditta tessile, come cassiere.
Continuò da solo ad arricchire la sua cultura leggendo assiduamente, dalla Sacra Scrittura a San Tommaso d’Aquino. Con particolare passione si dedicò alle lettere scritte in carcere da san Tommaso Moro, il Cancelliere di re Enrico VIII, che si oppose al divorzio del re e al suo ruolo di capo della Chiesa d’Inghilterra, finendo decapitato. S’interessò molto anche al movimento liturgico, incoraggiando i giovani alla partecipazione attiva alla Messa tramite l’uso del messalino bilingue.
Socio di Azione Cattolica in tempi difficili
Nel 1936 accettò l’invito di papa Pio XI sul coinvolgimento dei laici nell’impegno ecclesiale ed entrò nel gruppo giovanile dell’Azione Cattolica avviato da don Friedrich Pfister. Non erano tempi facili per l’Azione Cattolica: pur essendo stata riconosciuta nel Concordato del 1929, era fortemente e spesso violentemente osteggiata dal regime fascista. A Bolzano la situazione era ancora più preoccupante: le riunioni dei giovani si tenevano in un convento di Lana, al riparo da occhi indiscreti. Quando il gruppo si fu ben formato, Josef, il più assiduo e motivato, venne eletto presidente.
Attento agli eventi di quel periodo irrequieto, foriero di ulteriori sconvolgimenti, si preoccupò di dare ai suoi giovani indicazioni di comportamento come cristiani, come in un discorso pronunciato il giorno di Pentecoste del 1936 (nell’originale, la parola “leader” è “Führer”):
«Vediamo oggi con quanto entusiasmo, anzi spesso con una dedizione cieca, passionale e incondizionata le masse si votano ai leader. Ci tocca oggi assistere a un culto del leader che rasenta l’idolatria. Tanto più può stupirci questa cieca fiducia nei leader se consideriamo che viviamo in un’epoca piena delle più straordinarie realizzazioni dello spirito umano in tutti i campi della scienza e della tecnica, in un’epoca piena di scetticismo in cui il singolo non vale niente, solo la massa, il grande numero.
Oggi si tratta di indicare di nuovo alle masse la guida che sola ha il diritto al dominio e alla leadership illimitata, Cristo».
Dopo aver ripulito e addobbato la chiesa abbandonata di san Giovanni in Villa, nel centro storico di Bolzano, i giovani di Azione Cattolica presero a riunirsi e pregare in questo luogo, guidati dall’assistente diocesano per la parte italiana, don Josef Ferrari, e maturarono le loro scelte di cristiani.
In quel tempo di sofferti interrogativi sul futuro, Josef suggeriva: «Dare testimonianza è oggi la nostra unica arma efficace. […] Dobbiamo essere testimoni! Proviamo, prima di diventare apostoli della parola, a essere dei giovani cristiani e a esserlo totalmente. Lo diventiamo presso la sacra fonte dell’altare. Su di esso vi è la Parola e il Corpo di Cristo. All’interno di esso vi sono le spoglie di coloro che sono stati fedeli fino alla morte».
Matrimonio e impegno politico
Si innamorò di una sua collega di lavoro, Hildegard Staub, con la quale si trovava in sintonia di idee e impegni: era il suo primo amore, profondo e autentico. Si sposarono il 26 maggio 1942 e l’anno successivo nacque il frutto del loro amore, Albert.
Intanto in Alto Adige la situazione si fece difficile. Molte attività si dovevano svolgere in segreto, perché il regime fascista aveva proibito ai tirolesi di parlare la loro lingua e coltivare le loro tradizioni, per integrarli completamente nella società italiana.
Con l’accordo del 1939 fra Mussolini e Hitler sulle “Opzioni” la situazione precipitò: chi voleva mantenere la propria identità tedesca poteva trasferirsi in Germania e chi restava invece doveva adeguarsi.
Tra convinzioni o minacce, l’80% della popolazione decise di andarsene. Josef non solo volle rimanere, ma, con la collaborazione dei circoli cattolici di Bolzano e della maggioranza del clero locale, cercò di convincere la gente a non partire, in completo disaccordo con il vescovo di Bressanone, monsignor Geisler, che optò per la Germania.
I motivi per restare erano le notizie che giungevano dal Reich, per niente confortanti, insieme all’aperta persecuzione anticristiana da parte di Hitler. Tuttavia, la vita non era ugualmente facile per i “Dableiber” (gli altoatesini di lingua tedesca rimasti in Italia), a causa delle repressioni e delle limitazioni che dovevano soffrire. Erano sostenuti solo dal movimento di resistenza “Andreas Hofer-Bund” al quale Josef aderì, offrendo anche una pertinenza del suo maso per gli incontri.
Arruolato a forza nelle SS
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, in Alto Adige presero a comandare i tedeschi. Nel successivo settembre 1944, quando ormai tutto stava per crollare, il Führer, nell’intento di difendere fino all’ultimo il suo regime, ordinò di arruolare quanti più uomini possibile.
Così Josef, insieme a tanti altri Dableiber, si trovò arruolato nelle file delle Schutz-Staffeln o SS, votate anima e corpo al Führer e ai suoi progetti. Il 7 settembre i giovani vennero stipati in tre vagoni alla stazione ferroviaria di Bolzano: dopo un viaggio estenuante di quattro giorni, giunsero a Konitz in Germania (oggi Chojnice in Polonia), dove furono sottoposti a un addestramento mirato al combattimento e all’indottrinamento politico.
Non giurò a Hitler
Il 4 ottobre 1944 le reclute furono schierate nel piazzale dell’ex manicomio cittadino, adibito a caserma, per prestare il giuramento che le impegnava totalmente alla causa di Adolf Hitler. Il sergente ripeté l’ennesima lezione di propaganda, ma a un certo punto la recluta Mayr-Nusser chiese di parlare: di fronte a tutti, dichiarò di non poter prestare giuramento.
Il sergente, sbalordito, mandò a chiamare il comandante della compagnia, che domandò al giovane il perché di quell’affermazione: motivi religiosi, ribatté l’altro. Il comandante, allora, gli ordinò di mettere per iscritto la sua dichiarazione: fra lo stupore di alcuni e la rabbia di altri, Josef firmò quella che doveva essere la sua condanna a morte.
Prima di consegnarla, venne raggiunto dal commilitone Franz Treibenreif (al quale si deve la testimonianza che racconta l’accaduto), che gli sussurrò: «Non credo che il Signore ci chieda questo». La sua lucida risposta fu: «Se mai nessuno trova il coraggio di dire loro che non è d’accordo con le loro idee nazionalsocialiste, le cose non cambieranno mai».
L’arresto e la morte
Verso le 6 di sera, dopo un addestramento speciale che comportava stendersi, rialzarsi e strisciare nel fango, Josef venne messo agli arresti. Il 14 novembre 1944 fu trasferito a Danzica, sede del tribunale militare. Il 5 dicembre scrisse, per l’ultima volta, alla moglie: «Non posso ancora dirti quando si deciderà la mia sorte e ti prego di pazientare. Dio, il Padre che pieno d’amore veglia su di noi sempre e ovunque, non ci abbandonerà».
Da quel giorno, a Hildegard non arrivarono più notizie del marito, fino al 5 aprile 1945: una comunicazione del lazzaretto di Erlangen, giunta a Renon, dove la sua famiglia era sfollata, riferì che Josef era morto di broncopolmonite il 24 febbraio 1945, su un treno in sosta proveniente da Buchenwald e diretto a Dachau.
I suoi ultimi giorni nel racconto di un testimone diretto
Trentacinque anni dopo, un’ex guardia carceraria delle SS, l’austriaco Fritz Habicher, vedendo in televisione un documentario su Josef, lo riconobbe. Scrisse quindi una lettera alla vedova Hildegard: raccontò come il detenuto fosse sempre disponibile a donare un sorriso e una parola di speranza, pur stremato dalla fame e dalla dissenteria, mentre le sue forze si andavano man mano spegnendo.
Il treno aveva dovuto fermarsi a Erlangen a causa di un’interruzione della linea ferroviaria, quindi i soldati avevano ottenuto, a fatica, il permesso di portarlo in ospedale. Il tragitto compiuto a piedi fu fatale per Josef, il quale, tuttavia, continuava a ringraziare chi stava cercando di aiutarlo. Il medico, tuttavia, lo rimandò indietro.
La sua morte avvenne la mattina successiva: il suo ultimo gesto di carità era stato passare il cibo a chi, degli altri prigionieri, era più affamato di lui. Tra i suoi effetti personali furono trovati un Vangelo, un messalino e una corona del Rosario.
Habicher concluse la testimonianza con queste parole: «Josef Mayr-Nusser è morto per Cristo, ne sono certo, anche se me ne sono reso conto solo 34 anni dopo… Anche se non è molto che le posso raccontare, sono comunque convinto che ho vissuto quattordici giorni insieme ad un santo, che oggi è il mio più grande intercessore presso Dio».
La causa di beatificazione
La sua vicenda terrena per molti anni ha diviso i tirolesi, perché chi aveva giurato fedeltà a Hitler, convinto di servire la patria, lo aveva considerato un traditore. Con l’apertura del processo di beatificazione, si è cercato di leggere tutto con una luce diversa.
La diocesi di competenza per l’istruzione del processo avrebbe dovuto essere quella di Bamberga, nel territorio della quale Josef morì, ma il 23 febbraio 1991 è stato operato il trasferimento al tribunale ecclesiastico della diocesi di Bolzano-Bressanone. Ottenuto il nulla osta da parte della Santa Sede il 30 settembre 2005, è stata aperta la fase diocesana il 24 febbraio 2006, conclusa poi il 19 marzo 2007 e convalidata il 23 aprile 2010. La riunione dei periti storici, l’11 novembre 2014, ha trattato le questioni aperte sul suo conto.
Il riconoscimento del martirio e la beatificazione
L’8 luglio 2016, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui Josef Mayr-Nusser veniva ufficialmente dichiarato martire.
La sua beatificazione è stata celebrata alle 10 del 18 marzo 2017 nel Duomo di Bolzano, presieduta dal cardinal Amato come delegato del Santo Padre. La sua memoria liturgica, per la diocesi di Bolzano-Bressanone, è stata fissata al 3 ottobre, alla vigilia dell’anniversario del giorno in cui lui scelse di obbedire non a Hitler, ma all’unico e vero Signore.
I suoi resti mortali furono inizialmente sepolti a Erlangen, poi riportati in Alto Adige nel 1958. Nel 1963 furono collocati nelle mura esterne della chiesa parrocchiale di San Giuseppe a Stella di Renon, paese dove il Beato e sua moglie avevano una villa estiva. In seguito alla beatificazione, sono stati definitivamente collocati nel Duomo di Trento; più precisamente, presso l’altare laterale nella parte meridionale (altare di san Floriano).
Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini
Note:
Sito ufficiale: www.josef-mayr-nusser.it/it
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