Con padre Mario Pozza, quasi coetanei, vissero ambedue l’ideale missionario seguendo il carisma e le finalità dei Comboniani, fondati nel 1867 da San Daniele Comboni (1831-1881) vescovo missionario in Africa, originario di Limone sul Lago di Garda e insieme offrirono la loro vita per salvare quella di un ragazzo africano.
Don Paolo Ponzi Paolo Ponzi nacque il 13 luglio 1930 nella frazione San Concordio in Contrada, della città di Lucca; quinto degli otto figli di Carlo e Assunta Ponzi; il padre dopo la guerra aveva lasciato la piccola proprietà terriera che aveva ereditato, insufficiente per la numerosa famiglia e si impiegò all’Ente Comunale di Assistenza di Lucca. Dopo la nascita di Paolo la famiglia si trasferì a San Monco, altra frazione fuori le mura della città e dal 1938 quando aveva otto anni, si trasferì di nuovo dentro le mura a Piazza Scalpellini, vicino la chiesa di san Frediano; in estate invece tutti si spostavano a Borgo a Mozzano (Lucca), paese natale del padre. In tutti questi luoghi, Paolo è ricordato come un ragazzino buono e vivace che si faceva benvolere da tutti, i genitori erano molto religiosi, il padre era Terziario Francescano e membro della Conferenza di S. Vincenzo, i figli l’aiutavano a distribuire settimanalmente i buoni pasto per le famiglie povere della parrocchia; ogni sera si recitava il rosario in famiglia. Sin da ragazzino Paolo aveva espresso il desiderio di farsi missionario, d’altra parte nella religiosa famiglia Ponzi si respirava l’atmosfera delle missioni, il padre dal 1937 contribuiva mensilmente al sostegno di un catechista indigeno e in casa arrivavano riviste e pubblicazioni missionarie, che venivano lette con passione dai ragazzi. Il parroco di San Frediano, cosciente del desiderio del ragazzo, gli consigliò di fare il ginnasio nel Seminario diocesano di Lucca, poi se la sua intenzione fosse stata sempre la stessa, avrebbe potuto entrare in un Istituto missionario. Così si fece e nell’ottobre 1942 Paolo Ponzi entrò in Seminario, l’anno precedente l’aveva trascorso facendo un’esperienza oratoriana presso i Salesiani vicino Livorno. Trascorsi felicemente gli anni del Ginnasio a Lucca, nel settembre 1948, accompagnato dalla madre, si presentò al Padre Superiore dell’Istituto dei Missionari Comboniani di Firenze; dove dopo le opportune e favorevoli informazioni chieste al Rettore del Seminario di Lucca, Paolo fu ammesso al Noviziato allora con sede a Firenze; anche la sorella Giuliana entrò in seguito fra le Suore di Santa Zita e poi fu missionaria in Brasile. Si avverò così la preghiera del padre, che ripeteva spesso, chiedendo al Signore che qualcuno dei suoi figli diventasse missionario o missionaria. Il noviziato fu per lui bene accetto, più del periodo trascorso in Seminario; ma dalle relazioni dei superiori si apprende che era un po’ fiacco nelle cose spirituali, in po’ indeciso dopo un anno di noviziato, ma nel contempo si diceva che era schietto con i superiori e pronto a riprendersi. In effetti Paolo era un ragazzo normale con tutti i suoi difetti e debolezze, i suoi desideri di bontà e i suoi scivoloni; ma alla fine le perplessità del Superiore caddero e il 3 ottobre 1950 anche Paolo formulò i suoi voti. Fu destinato come assistente dei ragazzi nei seminari Missionari di Como e Pesaro; oltre a trascorrere molto tempo con i ragazzi, doveva anche frequentare il liceo presso i locali Seminari. Continuò ad essere considerato dai Superiori con giudizi non proprio lusinghieri: “Non sa obbedire, però bisogna sempre essergli a fianco per dirgli cosa deve fare, perché da solo tira via allegramente”; “Mediocre, naturalmente buono, generoso, timido. Non farà né gran bene, né gran male”; “Conclude poco, prende tutto alla leggera anche le cose spirituali”. In un suo colloquio con il Padre Generale dei comboniani, Paolo Ponzi gli espresse tutti i suoi difetti e incapacità, il tutto condito con una certa disinvoltura che lasciò interdetto il Generale, che alla fine capì, in quella esteriorità leggera e quasi scanzonata, era nascosta una capacità di amare Cristo e il prossimo, forse superiore a quanti fra i suoi compagni avessero un atteggiamento conforme alla regola della Congregazione; il Padre Generale diede così il suo consenso per avviarlo alla vita sacerdotale e missionaria. La madre Assunta, sempre vicina al figlio con lo spirito e la preghiera, quando Paolo mostrò i segni dell’indecisione, offrì la sua vita a Dio per la vocazione del figlio; morì per un tumore a 52 anni di età il 23 luglio 1955. Purtroppo lei che era stata la sua guida spirituale sin da ragazzo, che l’aveva indirizzato con gioia verso la vita religiosa, non poté vederlo sacerdote. Il 5 novembre 1956 ebbe il Diaconato nel Duomo di Milano dall’arcivescovo Giovan Battista Montini, futuro papa Paolo VI e il 15 giugno 1957 insieme a numerosi giovani del seminario milanese e di varie Congregazioni, fu ordinato sacerdote. Il 23 giugno celebrò la Prima Messa nella parrocchia di san Frediano, presente l’orgoglioso e commosso padre. Nell’ottobre 1957 partì come missionario per il Sudan, dove trovò una situazione turbolenta che divideva il Paese, indipendente dal 1956, in due parti, il Nord arabo e musulmano e il Sud abitato dai Neri pagani o cristiani. Si dedicò all’apostolato con tutta la serenità e costante allegria di cui era capace; ritornò in Italia in vacanza nel 1963, girando da una parrocchia all’altra per parlare delle sue missioni e per raccogliere aiuti. Ritornò in Sudan nel novembre 1963, ma nel 1964 fu espulso con tutti gli altri missionari; grande fu il suo dolore per aver dovuto lasciare in lacrime la gente che lo supplicava di tornare presto. Dopo alcuni mesi trascorsi in Italia in Case comboniane, fu inviato sempre nel 1964 in Uganda nelle missioni di Nyapea e Pahida; nel 1970 ritornò per l’ultima volta a Lucca trascorrendo un breve periodo di vacanze con il padre e la sorella suora; tutti gli altri fratelli si erano sposati. Nel 1971 ripartì per l’Uganda con l’incarico di una nuova missione, da impiantare ex novo a Kigumba, questo lo rese molto felice, perché era il suo sogno. E in questa missione ebbe come confratello padre Mario Pozza, con il quale dividerà sacrifici e gioie e infine la tragica eroica morte.
La tragedia di Kigumba La giovane missione di Kigumba, ancora in fase di costruzione, era situata quasi al centro dell’Uganda; aveva una semplice casa per i missionari e una chiesetta fatta di paglia e fango. Il lavoro missionario prometteva bene, perché la vasta zona pianeggiante e fertilissima, era densamente abitata e i nativi affluivano alla missione in buon numero; padre Mario Pozza, il Superiore della piccola missione, diventata parrocchia nell’Epifania del 1972, aveva illustrato in quel giorno ai fedeli, il programma di loro missionari, alla luce dei nuovi concetti ribaditi dal Concilio Vaticano II. “Lavoreremo insieme!”, cioè il missionario europeo non doveva essere più il protagonista del tempo passato, bensì l’umile collaboratore del sacerdote indigeno, il fratello, l’amico del popolo, dei catechisti, alle dipendenze del vescovo africano. E dei programmi e dell’attività futura da attuare nel vasto territorio, costellato di cappelle e punti catechistici, si parlava a tavola quel giorno 3 giugno 1972, fra padre Mario Pozza e padre Paolo Ponzi, mentre consumavano il pranzo portato in tavola dalla cuoca del Kenia, Jusina. Quasi al termine del pranzo la cuoca portò un vassoio di frutta, banane e manghi, padre Pozza non vedendo il coltello per sbucciare il mango, chiese al ragazzo che aiutava in cucina di andarlo a prendere. Dopo qualche minuto un acuto grido li fece sobbalzare, ed entrambi corsero nel cortile, dove altri ragazzi giocavano e proprio questi avevano dato l’allarme gridando; era successo che il ragazzo aiuto-cuciniere aveva già buttato gli avanzi del pranzo nel cosiddetto “pozzo dei rifiuti”, profondo buco di sei-sette metri, scavato qualche tempo prima dai missionari per cercare acqua, poi abbandonato perché non ve n’era. Invece di riempirlo di nuovo si pensò di utilizzarlo come scarico dei rifiuti di cucina e una scaletta di bambù era appoggiata all’interno così da permettere di scendere e salire, se fosse caduto qualche oggetto da recuperare. Il ragazzo alla richiesta del coltello, ricordò che forse l’aveva gettato nel pozzo insieme agli avanzi e di corsa scese per cercarlo; rimestando con le mani i rifiuti in fondo al pozzo, fece esalare gas velenosi che lo fecero svenire e rimanere sul fondo in imminente pericolo di vita. I due missionari si affacciarono sul pozzo e lo videro disteso immerso come in un sonno profondo; allora padre Mario Pozza incurante del pericolo, subito si calò nel pozzo, prese il ragazzo e faticosamente prese a risalire la scaletta. In prossimità dell’imboccatura, padre Paolo Ponzi si protese verso il basso, afferrando il ragazzo e tiratolo fuori, lo adagiò sull’erba e quasi subito questi diede segni di vita. Contemporaneamente però un tonfo attirò l’attenzione di padre Ponzi, che affacciatosi sul pozzo vide sul fondo padre Mario che giaceva svenuto dopo aver lasciato la scaletta, colpito dai miasmi. Intuì subito il grave pericolo, ma non c’era tempo da perdere, scese anche lui, raggiunse il confratello e cercò di sollevarlo ma finì per accasciarsi sopra, colpito e stordito anche lui dai gas velenosi. Tutta la comunità insieme al vescovo di Hoima si riunì intorno al pozzo della morte, nel quale era stato proibito di scendere dal Capo villaggio, visto il pericolo per tutti e l’inutilità dell’intervento. Da Kampala accorsero i missionari don Marchetti e fratel Rizzo, avvertiti per telefono dal vescovo. Verso sera arrivarono da Kampala i Vigili del Fuoco, che muniti di maschera poterono estrarre i corpi dei due eroici missionari, ricomposti poi dalle suore comboniane nella saletta della Missione. Il ragazzo si salvò e visse nell’ambito della missione. Il funerale fu celebrato il giorno dopo con la partecipazione del vescovo, dei missionari venuti da ogni parte, dalle suore, da una folla piangente di fedeli, alla presenza di don Aldo Pozza, fratello di don Mario, missionario da poco più di un anno. Furono sepolti nel cimitero di Gulu, in attesa che la chiesa della missione di Kigumba fosse ultimata. Nel 1982 furono traslati nella nuova chiesa, dove tuttora riposano fra la loro gente e su una parete laterale, il comboniano fratel Vittorio Fanti, che aveva decorato la chiesa, affrescò la scena del martirio d’amore di questi due apostoli di Kigumba. In Italia il Presidente della Repubblica, conferì nel 1975 e nel 1977 la medaglia d’oro al valor Civile ai due eroici missionari.
Autore: Antonio Borrelli
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