San Daniele Comboni, fondatore dei Missionari del Cuore di Gesù (Comboniani) e delle Pie Madri della Nigrizia (Comboniane), nel settembre 1864, mentre pregava sulla tomba di san Pietro a Roma, ebbe una meravigliosa intuizione: “Se il clima micidiale non consentiva ai missionari europei una diretta penetrazione in Africa, era assolutamente necessario preparare gli stessi africani, in località dove l’africano vive e non si muta e l’europeo opera e non soccombe”; da ciò scaturì il programma missionario “Salvare l’Africa con l’Africa”. Ci vollero anni per avviare la realizzazione di quest’ideale e nel frattempo altri missionari cadevano vittime del clima, dell’ostilità dei pagani, dei contrasti politici-rivoluzionari, che da un paio di secoli funestavano e funestano l’Africa e i suoi poveri abitanti; lo stesso Daniele Comboni perse la vita a 50 anni, il 10 ottobre 1881, per i disagi e la dura vita sopportata nel Sudan. Ma tanti altri suoi figli e figlie, lo seguirono e lo seguono nelle terre di Missione e in particolare nel Continente Africano. E in Africa un posto privilegiato nell’opera apostolica e nella promozione umana e sociale, da parte dei Comboniani, l’ebbe l’Uganda, il grande Paese dell’Africa Centrale; i primi tre comboniani arrivarono nel 1910, padre Albino Colombaroli, mons. Francesco Saverio Geyer e fratel Augusto Cagol. Bisogna comunque ricordare che furono i “Padri Bianchi” nel 1879, ad arrivare per primi in Uganda, accolti all’inizio benevolmente dal re Mwanga e poi subirono la feroce persecuzione contro i cristiani, fomentata dai musulmani; le vittime più note furono i 22 paggi cattolici, che furono bruciati vivi nel 1886 sul colle di Namugongo; essi furono proclamati santi nel 1964 da papa Paolo VI; i martiri accertati di quel tempo furono 45 fra cattolici e protestanti, tra i quali i suddetti 22 paggi. Dopo i tre padri missionari, a cui si aggiunsero altri comboniani, nel dicembre 1918 giunsero in Uganda le prime cinque suore comboniane; nel 1990 metà della popolazione ugandese era cristiana, l’opera missionaria dei Comboniani e di altre Congregazioni religiose, ha fatto si che nell’ultimo decennio del XX secolo, ci fossero in Uganda ben 14 vescovi e 830 sacerdoti autoctoni e 300 dell’estero; i religiosi sempre ugandesi erano 2800, di cui 2500 suore e 300 fratelli; inoltre 5000 catechisti e nei seminari maggiori e minori 1850 studenti. Una Chiesa quella ugandese, fondata sulla roccia, che le ha permesso di affrontare e superare le difficoltà e le tragedie, che dopo l’indipendenza del 1962, ha visto l’Uganda in preda a guerre con la vicina Tanzania, l’invasione del suo territorio, e l’occupazione l’11 aprile 1979 di Kampala la capitale, con l’aiuto dei partigiani di Obote, avverso al presidente dell’Uganda Amin. In quel funesto 1979, si formò un governo provvisorio in vista di nuove elezioni, ma la situazione era incandescente con vendette e uccisioni, violenze e ruberie tutti i giorni; mancava ogni sicurezza, ma anche i generi di prima necessità e per molti, specie i più deboli, fu la fame e la disperazione. La situazione politica in Uganda rimase ingarbugliata, con il suo strascico di guerre, rivoluzioni, controrivoluzioni, guerriglia e anarchia, con uccisioni e soprusi d’ogni genere per oltre 15 anni, durante i quali le missioni e le opere assistenziali sorte per la popolazione a cura dei missionari, subirono un duro colpo; dei missionari invitati a lasciare l’Uganda, nessuno lasciò il suo posto di lavoro apostolico; i comboniani diedero il loro tributo di sangue e parecchi fra sacerdoti e suore vi lasciarono la vita, consapevoli che “il sangue dei martiri, è seme di nuovi cristiani”. In questa scheda si parla di padre Antonio Fiorante, secondo dei quattro comboniani, che in quel tragico 1979 furono trucidati, pagando con la vita e con il sangue, l’attaccamento alla loro vocazione e l’amore agli africani, essi sono i sacerdoti: Giuseppe Santi († 14 aprile 1979), Silvio Dal Maso e Antonio Fiorante († 3 maggio 1979), Silvio Serri († 11 settembre 1979).
Padre Antonio Fiorante nacque il 15 ottobre 1925 a Civitanova del Sannio (Isernia); a nove anni fu protagonista di un fatto prodigioso, al centro del paese c’era un muraglione di sostegno della piazza, alto una quindicina di metri, giocando spensieratamente con i compagni, Antonio cadde nel vuoto; tutti lo credettero morto, invece il ragazzo riportò solo la frattura di un ginocchio e una leggera ferita alla testa (ma di quella caduta gli rimase il mal di testa che lo tormentò tutta la vita). A 12 anni incontrò un missionario di passaggio nel suo paese e dopo averlo ascoltato per un certo tempo, si convinse di voler diventare comboniano anche lui e con il consenso dei genitori, nel 1937 entrò nel Seminario missionario di Sulmona (L’Aquila). Con il suo carattere, che sin da bambino era forte, irruente, molto sensibile, affrontò il distacco dalla famiglia, tenendo ben presente l’obiettivo da raggiungere, cioè l’Africa. Terminate con soddisfazione le medie, fu trasferito a Brescia per il ginnasio, poi a Firenze per il Noviziato; fu tutto un periodo di studi trascorso negli anni terribili della II Guerra Mondiale, e i novizi che dovevano spesso scappare nei rifugi per le incursioni aeree, crescevano e si formavano in un clima d’insicurezza che li forgiava per i futuri pericoli da affrontare; di carattere aperto e gioviale e dotato di acuta intelligenza, Antonio sapeva comporre poesie e brani nel linguaggio secentesco, che allietavano le feste della comunità. Completò gli studi liceali e teologici a Rebbio (Como), Verona e Venegono Superiore (Varese) e finalmente il 3 giugno 1950 fu consacrato sacerdote nel Duomo di Milano, dal cardinale beato Idelfonso Schuster e cinque giorni dopo celebrò la Prima Messa nel suo paese, Civitanova del Sannio. Trascorse i successivi tre anni nei seminari comboniani di Crema e Brescia con l’incarico di economo, e per sopperire alle necessità e al vitto della sessantina di giovani ginnasiali, percorse continuamente le due diocesi questuando presso i parroci e i fedeli, non mancarono rifiuti e situazioni mortificanti, che il giovane padre Antonio Fiorante, superava col sorriso sulle labbra, ingoiando l’umiliazione che sentiva dentro. Finalmente nel dicembre 1953, arrivò il ‘via’ per l’Africa, con destinazione Bahr al Ghazal (Sudan Meridionale), una terra con paludi, zanzare e malaria, ma anche con un popolo numeroso, che rispondeva generosamente alla chiamata dei missionari. Fu necessario imparare ben quattro lingue locali, così da potersi spostare agevolmente nelle Missioni di Kayango, Gordhüm, Mboro e Mbili, a seconda delle necessità e il 23 gennaio 1954, padre Antonio scriveva nella prima lettera ai familiari, tutto il suo entusiasmo per il lungo viaggio intrapreso per terra, mare, aereo e fluviale lungo il Nilo, che l’aveva condotto alla meta della missione di Mboro, nel centro dell’Africa, dove fu accolto con festa specie dai bambini. Nelle sue lettere ai familiari ed ai confratelli in Italia, padre Fiorante ebbe modo di descrivere la vita del missionario in quelle zone di difficoltà estreme per un europeo, con un sole bruciante, temperatura torrida, un desiderio di bere non facile a soddisfare, la savana con le bestie feroci, primo fra tutti il leone; ma concludeva sempre assicurando che lì era veramente felice. Il 17 aprile 1955 morì a Civitanova sua madre Beatrice e dall’Africa il figlio don Antonio, scrisse ai familiari tutto il suo dolore per la perdita e per la lontananza che gl’impediva di essere presente; in pochi anni a partire dal 1950, gli erano morti tanti familiari e parenti, nonna, zio, mamma, sorella, nipote, un altro zio, scavando un vuoto intorno al suo animo. Ma dopo qualche anno, morì durante un parto anche l’unica sorella rimasta, Nella e poi anche suo padre; don Antonio reagì a tutti questi lutti, che paragonava ad una caduta autunnale di foglie, concentrata in poco tempo, dando il loro nome ai piccoli moretti che battezzava, per perpetuarne il ricordo. Nel 1962 con il cambiamento della politica in Sudan, padre Fiorante fu tra i primi missionari ad essere espulso dal Paese, forse per la sua grande popolarità che aveva acquistato tra la gente, e così il Natale di quell’anno lo trascorse a casa con i familiari rimasti, era il primo da quando aveva 11 anni. Trascorse un anno come ‘propagandista’ a Sulmona e a Crema, e poi visto le sue continue richieste di tornare in Africa, i superiori lo destinarono alla diocesi di Arua in Uganda. Nel 1964 partì per Angal, giungendovi tre settimane dopo Pasqua, dove celebrò una Messa solenne con un coro di 600 ragazzi e ragazze, tutti nerissimi, che professavano con entusiasmo la religione cristiana. Dopo un anno ad Angal, fu incaricato di fondare una nuova missione a Parombo sul Lago Alberto, il lavoro fu durissimo anche perché era solo; faceva il sacerdote fino alle otto del mattino e poi fino a sera era continuamente in giro impegnato nella costruzione della chiesa parrocchiale, della casa canonica e di una decina di cappelle nei dintorni, i cui lavori erano avviati contemporaneamente. Aveva un bel rapporto col suo paese natio, Civitanova del Sannio, i cui concittadini lo sostenevano generosamente nei suoi sforzi missionari e nelle sue lettere ironizzava con loro, di aver pazienza con quel compaesano, che invece di emigrare in America come tanti altri civitanovesi, per fare un po’ di soldi, se n’era andato in Africa a spendere soldi che non aveva, per aiutare gente che forse un domani gli farà la pelle. In suo aiuto per la costruzione della chiesa giunsero a dirigere i lavori i Fratelli Comboniani Andrea Ferrari e Aldo Pedercini, e per la decorazione fratel Fanti. Il suo zelo missionario, non si fermò davanti alle opere portate a termine e perfettamente funzionanti, come le scuole, il dispensario, la casa per i missionari con ampi cortili e orti, la chiesa soprattutto, che aveva permesso di abbandonare il provvisorio capannone, senza porte e finestre, dove scorazzavano lucertole, serpenti, insetti e animali da cortile. Infatti padre Fiorante disse ai fratelli collaboratori che era tempo di guardare più lontano, cioè a Panyimur il paese dei pescatori del lago dove il clima era terribile; anche i pescatori ebbero così la loro chiesa e la casa per il missionario, ma padre Antonio andò oltre, li organizzò in cooperativa e con l’aiuto dei missionari, poterono acquistare barche migliori e un grosso autocarro, per il trasporto del prodotto pescato verso i più lontani mercati di Kampala e dello Zaire. Dopo sei anni trascorsi in Uganda, il 12 luglio 1970, padre Fiorante, ritornò per un periodo di riposo di circa sei mesi a Civitanova, andando a trovare anche le famiglie dei tre fratelli, emigrati in Canada per lavoro. A dicembre 1970 ripartì per l’Uganda ritornando a Parombo, fra la gioia dei tanti cristiani, e qui trascorse altri cinque anni d’intenso e fecondo lavoro apostolico. Nel 1975 ritornò un’altra volta in Italia, con una visita in Canada ai fratelli, in effetti sarà l’ultima volta; al suo ritorno in Uganda, fu destinato non a Parombo ma a Pakwach, sul Nilo, dove intanto l’esistente missione, si era estesa conglobando nuovi villaggi. I missionari non restavano a lungo in questa località, dal clima così difficile per gli europei e quindi dopo un certo periodo si alternavano, per riprendersi dalle fatiche e dalla debilitazione del fisico. Padre Antonio Fiorante non si spaventò e come al solito si impegnò al massimo, istituì i consigli dei laici, diede impulso alla devozione mariana, intensificò la formazione dei catechisti, organizzò l’assistenza dei poveri; suo compagno di missione era padre Silvio Dal Maso, pervenuto a Pakwach per altro percorso missionario. L’armonia e la collaborazione dei due missionari, legati da un unico ideale, anche se totalmente diversi come temperamento, diede ben presto i suoi frutti e la comunità cattolica di Pakwach diventò più fiorente e impegnata. Il 17 febbraio 1979, tutta l’Uganda cattolica celebrò il centenario dell’arrivo del primo missionario, padre Lourdel dei Padri Bianchi; nel contempo ai confini dello Stato scoppiava la guerra con la Tanzania, cambiando totalmente le condizioni di vita, di progresso, di sicurezza del popolo e degli stessi missionari, come già descritto all’inizio di questo testo. Inizialmente, il superiore padre Antonio Fiorante e padre Silvio Dal Maso, erano tranquilli sulla loro sorte, perché il fronte degli scontri era molto lontano, ma in breve tempo la guerra civile si estese fino alla loro zona e il 3 maggio 1979, la morte, assurda per l’odio e la ferocia degli assassini, bussò alla loro porta improvvisa, anche se sempre auspicata da loro, come un desiderato martirio. Suor Paola della comunità delle Suore di Maria Immacolata di Pakwach, raccontò come andarono gli avvenimenti che portarono all’uccisione dei due comboniani. Verso le 16, alcuni soldati si presentarono alla Missione chiedendo della benzina, il superiore disse che non ce n’era più e questi vollero controllare di persona i magazzini, dove trovarono solo un fusto di nafta; verso le 21-21,30, le suore dal loro alloggio poco distante, sentirono abbaiare i cani e della gente che parlava ad alta voce nella casa dei padri comboniani; poi spaventate sentirono alcune persone che cercavano di aprire il lucchetto del loro cancello senza riuscirvi e che poi si allontanarono. Fu solo il mattino successivo alle 7, che la superiora suor Paola e suor Teresa, uscirono e videro la chiesa ancora chiusa. Meravigliate e timorose, si avviarono alla casa dei padri, che aveva la porta esterna spalancata, entrate trovarono padre Fiorante supino a terra nudo, con una corda legata al collo e dei fori d’entrata e uscita di una pallottola dall’orecchio alla tempia opposta, con la faccia bluastra senza tracce di sangue; sulla schiena colpi di scarponi e calci di fucile, l’addome gonfio. Padre Dal Maso era seduto per terra, con la faccia rivolta verso l’alto, coperto solo con una maglietta, i piedi legati con spago. Aveva una ferita d’arma da fuoco, che attraversava il collo da un lato all’altro, aveva perso molto sangue e nella mano sinistra stringeva il rosario. La casa era stata svaligiata e a terra c’erano numerose bottiglie di birra vuote; rivestiti alla meglio i corpi dei padri, suor Paola chiamò alcuni soldati e volontari, che l’aiutarono a caricare le salme poste su due materassi, su una land-rover e dopo aver trovato della benzina, li trasportarono ad Angal dove c’erano ancora i padri e le suore. I corpi deposti davanti all’altare furono ripuliti, fasciate le ferite e rivestiti con abiti religiosi dalle suore Pie Madri della Nigrizia e dopo la cerimonia funebre, celebrata dai comboniani presenti e da mons. Paolo Jalcebo, alla presenza di oltre 500 fedeli locali piangenti, le due bare furono interrate in un’unica fossa. Le due suore ormai sole, restarono ad Angal, lasciando la missione di Pakwach vuota; non ci furono testimoni europei dell’eccidio, ma la loro morte va inserita nel clima di anarchia e odio, che si era scatenato in Uganda e che colpì persone innocenti e impegnate nella promozione umana e sociale del popolo, come i missionari. Il 12 maggio 1979, la terribile notizia giunse a Civitanova, portata da un missionario comboniano di Sulmona, poi vi fu la conferma il 14 maggio, seguita dall’annuncio per radio, televisioni e giornali di tutto il mondo. Civitanova del Sannio, che aveva sempre seguito e sostenuto l’avventura missionaria del suo padre Antonio, rimase scossa e addolorata e a lui (sempre restio alla pubblicità), volle erigere un monumento nel piazzale della scuola intitolata al suo nome. Sulla colonna che sorregge il bronzo, c’è la scritta: “Prima del pane e della medicina, donava il sorriso, l’amicizia, la bontà”.
Autore: Antonio Borrelli
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