La vocazione più bella e grande
«Ognuno di noi sia intimamente persuaso che la vocazione alla quale siamo stati chiamati, non potrebbe essere più nobile e grande, come quella che ci avvicina a Cristo autore e consumatore della nostra fede ed agli Apostoli che, abbandonando ogni cosa, si diedero intieramente senza alcuna riserva alla sequela di Lui, e che noi dobbiamo considerare come i nostri migliori maestri. Il Signore non poteva essere più buono con noi. La vita apostolica infatti, congiunta alla professione dei voti religiosi, costituisce per sé quanto di più perfetto secondo il Vangelo, si possa concepire». Questo brano della Lettera Testamento del fondatore dei Saveriani, san Guido Maria Conforti (1865-1931), è la sintesi mirabile della più eccellente delle vocazioni: quella missionaria.
Per rispondere appieno a questa vocazione - fortemente connotata d’amore verso il Salvatore e verso il prossimo bisognoso di salvezza - ha dato la vita Giovanni Didonè, uno dei più illustri figli spirituali di Conforti. Nelle pagine che seguono tracceremo il profilo biografico di questo generoso religioso, ucciso da un insignificante ribelle, il 28 novembre 1964 nella missione di Fizi (Repubblica Democratica del Congo), con un altro religioso, l’abbé Albert Joubert.
Giovanni Didonè, quarto di undici figli, nasce il 18 marzo 1930 a Cusinati di Rosà (Vicenza). Nel 1941 la famiglia si è trasferita a Cà Onorai di Cittadella (Padova). Con il latte materno sugge i valori - profondamente cristiani - di quelle famiglie patriarcali che con il lavoro hanno reso fertile la campagna veneta. In quell’ambiente di fede tanto semplice quanto robusta sono germogliate migliaia di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa. Nella famiglia Didonè, quattro figlie su cinque si faranno suore e tre figli su sei entreranno in un istituto religioso. Tecla diventerà figlia spirituale di san Camillo; Annamaria, figlia spirituale di san Giuseppe, Palma, vestirà l’abito delle Dorotee di Vicenza e Amabile, quello delle Missionarie di Maria. Tra i figli Didonè, oltre a Giovanni, si farà saveriano Camillo, mentre Severino sceglie di farsi religioso nell’Opera di Don Orione.
Le testimonianze di alcuni famigliari hanno consentito di ricostruire la fanciullezza e l’adolescenza di padre Giovanni. In particolare, grazie ad esse, è stato possibile avere un’immagine, molto attendibile, dei primi anni di vita trascorsi dal religioso nella vecchia casa di Cà Onorai. Le sue giornate, in quella fattoria della campagna veneta, erano scandite da momenti ben definiti: al mattino, a scuola come tutti gli altri ragazzi; nel pomeriggio, dopo i compiti, quattro salti in cortile assieme ai fratelli, alle sorelle e a qualche compagno. In casa Didonè si viveva con semplicità e con parsimonia, anche se il necessario non è mai mancato. Una vita patriarcale dove c’erano grande considerazione per i genitori e affetto tra i fratelli. Papà Angelo e mamma Maria sapevano farsi rispettare e non avevano bisogno di alzare la voce per ottenere obbedienza.
Vivere è bello
Avevano un grande ascendente sui figli, soprattutto in forza del loro esempio, sia per quanto riguardava i doveri religiosi, sia per quelli familiari. In casa Didonè si pregava con fede, anche se il lavoro febbrile, specialmente in certi periodi dell’anno, non lasciava un attimo di respiro. Era proprio in quei frangenti che si pregava con maggior devozione Dio, perché benedicesse le campagne e proteggesse i raccolti. La domenica, poi, tutti andavano a Messa, in orari diversi.
Mamma Maria andava sempre alla prima Messa per essere a disposizione del marito e dei figli, che si alzavano più tardi. Durante la settimana, mentre i ragazzi erano a scuola, il papà lavorava nei campi. In qualche occasione egli chiamava ad aiutarlo anche i figli che, crescendo, erano in grado di maneggiare gli arnesi di lavoro. La famiglia era numerosa e per sostenerla occorreva grande senso di responsabilità. A quell’epoca non c’erano tutte quelle preziose macchine che oggi rendono meno faticoso il lavoro agricolo: mietitrebbia, falciatrice automatica, seminatrice, ecc.
Allora, con il solo aiuto delle mani, si falciava, si seminava e si mieteva. Quante volte al mattino papà Angelo era già nel campo quando i piccoli si alzavano e quante volte, alla sera, quando rientrava dal campo, li trovava già a letto addormentati. In quella casa si viveva sul serio il motto di san Benedetto ora et labora. Sul binomio “prega e lavora” si fondavano la pace e la serenità della famiglia Didonè. I genitori erano persone di grande buon senso.
Non avevano alle spalle studi teologici, ma vivevano da buoni e ferventi cristiani. Erano favorevoli all’istruzione catechistica dei propri figli. Consideravano la conoscenza e la pratica della religione cattolica un elemento utile per la buona riuscita nella vita. La loro visione del mondo può sembrare anacronistica alle tante coppie di giovani genitori che, per i propri figli, esigono oggi, non un approfondimento della fede cattolica, ma al più uno studio comparato delle diverse religioni. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che abbiamo una percentuale altissima di ragazzi italiani in “crisi d’identità” che, tradotto in parole semplici, significa giovani spostati incapaci di dare un senso alla propria esistenza e, in non pochi casi, disposti persino ad autodistruggerla. Esattamente l’opposto di Giovanni, una persona entusiasta della vita e, ancor più, della sua scelta di seguire Cristo. Vivere è bello, vivere dietro a Cristo ancora più bello! Non c’è lettera o biglietto a fratelli, sorelle, genitori e amici nei quali egli non parli, con trasporto, della sua vocazione. Suor Tecla, sorella maggiore di padre Giovanni, ha lasciato un ampio scritto con numerosi particolari che tracciano molto bene la figura del fratello. «Era assiduo al catechismo e vi prestava molta attenzione», si legge nella testimonianza della religiosa, «perché quando tornava a casa ripeteva per bene la lezione imparata e raccontava volentieri soprattutto i fatti del Vangelo e della Bibbia. Leggeva spesso il Nuovo Testamento che portava quasi sempre con sé. A undici anni si consacrò alla Madonna. Questa sua devozione a Maria crebbe di giorno in giorno, fino a quando, a 22 anni, nella notte del Natale 1952, si legò a lei nello spirito del santo Grignion de Monfort». Suor Tecla aggiunge poi la descrizione di un episodio singolare che merita d’essere citato. «Un giorno, dopo pranzo, mentre i nostri cari erano a riposare», racconta la religiosa, «noi due ci intrattenevamo parlando delle nostre piccole cose quotidiane. Ad un certo punto il discorso cadde sul tema delle missioni... della necessità dei missionari... della bellezza di dare la vita per la salvezza dei nostri fratelli lontani. In quel momento Giovanni, tutto rosso in viso, come se fosse stato sopra pensiero, molto serio, mi disse: “Preghiamo, preghiamo molto e facciamo qualche fioretto”. Questo fatto avvenne nell’estate del 1941, durante la guerra. Poco tempo dopo Giovanni svelò ai nostri genitori il proposito di farsi sacerdote missionario».
Ho deciso: mi faccio missionario
Il papà di Giovanni non aveva preclusioni sulla scelta del figlio di farsi prete, purché si facesse secolare, cioè un sacerdote impegnato in una parrocchia della diocesi. L’idea di un figlio missionario, invece, gli creava forti apprensioni. Fu per questa ragione che Giovanni entrò nel seminario di Padova; la famiglia risiedeva in un paese della diocesi patavina. Il futuro missionario dovrà attendere l’età di 20 anni per ottenere l’assenso, sofferto, del papà sulla sua scelta. L’episodio è stato ricostruito così dal fratello Severino, all’epoca studente di seconda media nel seminario minore, mentre Giovanni frequentava il ginnasio. «Un pomeriggio di luglio del 1950, durante una breve vacanza in famiglia, eravamo tutti a riposare», ricorda il fratello. «Giovanni ed io dormivamo nella stessa stanza. Verso le 15 Giovanni all’udire il rumore della porta della stanza del papà, balza dal letto e scende in fretta le scale. Fra i due c’è uno scambio di poche parole e subito entrambi s’incamminano verso la nostra stanza.
Mentre entrano, faccio per uscire, ma Giovanni con un cenno della mano mi invita a restare e con voce tremante sussurra: “Stai qui, ti voglio presente”. A queste parole mi ridesto improvvisamente dalla sonnolenza e mi siedo nell’angolo più remoto della stanza. Trascorrono alcuni momenti di profondo silenzio. Il papà, visto che mio fratello non si decide a parlare: “Non mi hai chiamato? Che cosa vuoi allora?”, gli chiede con voce incerta. “Vedi, papà”, incomincia con voce tremante Giovanni, “so di recarti un grande dispiacere, tuttavia ho deciso: devo farmi missionario. Anche se tu ti opponessi, non faresti che ritardare la mia decisione di qualche mese. Infatti, fra qualche mese compio 21 anni. Tuttavia, anche se ti costa, desidero avere il tuo consenso e la tua benedizione. In questi anni ti ho assecondato, frequentando il seminario diocesano, ora non posso più aspettare”. Dagli occhi del papà scesero due lacrimoni grossi grossi; era la prima volta che vedevo il papà piangere. Seguirono alcuni istanti di profondo silenzio, poi con la voce rotta dal pianto il papà concluse: “Mi ero illuso di averti distolto da quella idea. Comunque segui pure la tua strada”; e uscì. Questo fatto mi sembra il punto chiave di tutta la vita di padre Giovanni. Si spiega così il suo carattere docile, buono e, nello stesso tempo, indomito, coraggioso, spinto a grandi ideali».
Mai abituarsi ad essere prete
La biografia di Giovanni Didonè ci dice che egli, dopo un anno d’intensa preparazione, emette la professione religiosa nella congregazione saveriana, il 12 ottobre 1951, in San Pietro in Vincoli, allora sede del Noviziato. Subito dopo, per iniziare gli studi liceali, si trasferisce con i compagni a Desio, grosso centro alle porte di Milano, nella maestosa villa Tittoni, adattata a sede del liceo. Agli inizi del 1958 ritroviamo Giovanni a Piacenza, nella casa saveriana di santa Chiara, sullo stradone Farnese. Lì i saveriani hanno trasferito, dal 1949, la sede degli studi di teologia, che in origine era presso la casa madre di Parma. Il 20 settembre dello stesso anno, presenti i genitori e i fratelli, Giovanni Didonè riceve il diaconato dalle mani di monsignor Battaglierin. Il 9 novembre è ordinato prete. Qualche giorno dopo scrive alla sorella: «Ciò che provo al mattino salendo l’altare non te lo posso dire, non riesco a descriverlo. Prega perché non mi abitui mai a celebrare la santa Messa, non mi abitui mai ad essere prete. Mai mi sono convinto, come in questi giorni, che solo per l’infinita bontà e misericordia di Dio oggi sono quello che sono. E se sono quello che sono è per Maria, a Lei ogni onore e gloria».
Un po’ marinaio, un po’ alpinista
Padre Didonè parte per la missione il 3 dicembre 1959, festa di san Francesco Saverio, patrono dell’Istituto Saveriano. Una coincidenza - letta con la conoscenza dei fatti che abbiamo noi oggi - carica di significati per quella che sarà la sua opera apostolica.
Per avere un’idea della vastità del luogo in cui il giovane missionario è chiamato a vivere il suo ministero occorre sapere che, dopo avere percorso - in circa un mese - 400 chilometri gliene restavano altri 1.200 per completare il “giro” della parrocchia. Padre Didonè, in cinque anni d’attività all’interno della diocesi di Uvira (provincia congolese del Kivu) verrà assegnato a diverse missioni: Uvira, Baraka, Fizi, Kiliba. Si tratta di luoghi non distanti dal confine con il Burundi e sulla sponda occidentale del lago Tanganika.
Il territorio della diocesi comprendeva zone pianeggianti, montuose (alcune vette raggiungono i 3.000 metri d’altezza) e rivierasche, quelle, appunto, affacciate sul Tanganika. L’area di Baraka - una delle prime affidate a padre Didonè, ad un altro saveriano e a due Padri Bianchi, d’origini francesi -, è una specie di quadrato dove i lati (di circa 100 chilometri ciascuno) corrono, tre lungo la terra e il quarto, lungo la costa occidentale del Tanganika.
Per raggiungere i villaggi della missione occorre essere un po’ marinaio, per navigare lungo il lago, e un po’ alpinista, per inerpicarsi su sentieri aspri fino a 2.500 metri di quota. Annota in una lettera padre Giovanni: «Ciò che mi parla dell’Africa è soprattutto la vastità, l’immensità di questi luoghi. La lingua non si presenta difficile. Ha qualche parola veneta. Per esempio: “mayai”, che non significa maiali, ma uova, si pronuncia come si legge. Chi parla il veneto non fa fatica a pronunciare questi vocaboli; la loro comprensione verrà con il tempo. A parte i “mayai” resta la preoccupazione di apprendere bene la lingua locale - il Kishwahili - senza la quale si è come morti e non si può comunicare agli altri ciò che si è ricevuto. Spero, tra qualche mese, di essere in grado di pronunciare i primi discorsi e, soprattutto, di poter cominciare a confessare. La flora è lussureggiante: fiori moltissimi e di colori vivacissimi. Impera la banana.
Ho visto che coltivano anche mais, la manioca, i fagioli e perfino la zucca. Vi è la coltivazione del caffé, del cotone e della canna da zucchero. Sembra che i neri di qui siano ricchi, in confronto ad altri, ma gli europei fanno sempre la parte del leone». Nelle zone pianeggianti del Kivu il clima è favorevole agli europei: il termometro, di giorno, non sale oltre i 28 gradi all’ombra e, di notte, si mantiene attorno ai 25-26 gradi. Per quanto riguarda il cibo, almeno fino alla vigilia della rivoluzione del 1964, i missionari non avranno quasi mai problemi: tutti i giorni potranno contare su carne e pesce di buona qualità. Sulla loro mensa appariranno anche fagiolini, insalata, porri, cipolle rosse, sedano, finocchi e altre specie di legumi, grazie ad un italiano che aveva introdotto la coltivazione di ortaggi e residente in zona fino al 1960, anno dell’indipendenza dal Belgio.
Bello, quando non piove!
Nella missione di Baraka sono presenti, tra le altre etnie, i Banyarwanda, rwandesi rifugiati in Congo e insediati sulle montagne intorno ad Uvira. Allevatori di bestiame. Fra loro vi sono persone di alta statura che colpiscono la fantasia degli europei. Ironicamente P. Giovanni parlerà di “scala” per poterli battezzare! Diversi gruppi vivono in villaggi a 2.500 metri d’altezza, sulle montagne che fiancheggiano il lago Tanganika. Padre Didonè, periodicamente, si reca lassù per evangelizzare. Da una delle sue lettere cogliamo uno spaccato della sua esperienza in mezzo ai “giganti”. È un testo, carico d’umanità, da cui traspare la pienezza di un’anima che vibra alla luce divina. «È stato un mese di villeggiatura”, scrive padre Giovanni. «Durante la giornata due maglie erano poche, durante la notte non bastavano tre coperte. Per dieci notti ho dormito in un “trinomio”, o meglio, nel mio “trinomio”, costruito proprio per me. È composto così: canne di bambù, liane e sterco di vacca. Se ti provi ad immaginare tale trinomio il risultato è una splendida capanna rotonda di tre metri e mezzo di diametro. Come si stava? Benissimo! Con un piccolo accorgimento: non bisognava essere a letto quando pioveva. Per fortuna lassù pioveva tutti i giorni dalle 13 alle 16 circa e allora il mio impermeabile proteggeva per bene il lettino dall’acqua grondante da tutti i fori del tetto. A venti metri dalla mia capanna iniziava la grande foresta vergine. Si può bene immaginare che impressione facesse, specialmente sull’imbrunire, a chi non ha mai visto foreste del genere in vita sua. Con queste immagini mi mettevo a letto e per di più giungevano al mio orecchio dei suoni stranissimi, che sembravano, a me inesperto, urla di leoni, di tigri o di altre bestie feroci. Non facevo in tempo ad addormentarmi che subito sognavo leoni, tigri, animali di ogni sorta. Passai la prima notte, in quel villaggio di Banyarwanda, agitato e senza chiudere occhio. La mattina, dopo quell’indimenticabile prima notte, per tempo perlustrai la capanna e i suoi dintorni. Mi inoltrai un pochino nella foresta e vidi una mandria di mucche. Di tigri e di leoni nemmeno l’ombra! Temo che dovrò tornare in Italia senza vederne nemmeno una. Le altre nove notti ho dormito veramente bene. In quell’occasione sono stati amministrati novanta battesimi di adulti. Li ha amministrati il mio superiore che è alto un metro e ottantacinque centimetri e quindi non fa molta fatica a “lavare” quelle teste. A me è toccato battezzare una quarantina di bambini dai due ai sei anni, lavoro proporzionato alla mia statura, ma la prossima volta possederò pure una scala!... Naturalmente contiamo degli apostati. L’etica della vita matrimoniale è la più minacciata. Tendono ad una poligamia moderata, che è, però, pur sempre, poligamia. V’è tuttavia un numero considerevole di cristiani che si mantiene coerente e fervoroso e fa anche grandi sacrifici per vivere nella dignità di figlio di Dio. È posta in costoro la speranza della Chiesa».
Ci salverà la bella Signora
Dalle montagne alla pianura: quando il vescovo, monsignor Danilo Catarzi, decide di fondare una missione a Kiliba, località lungo la strada che collega Uvira a Usumbura, capitale del Burundi, padre Giovanni è tra i primi religiosi ad esservi inviato. La missione di Kiliba era nata per assistere spiritualmente le migliaia di persone attratte nel luogo dall’apertura del grande zuccherificio Sucraf.
In pochissimo tempo, attorno allo stabilimento, era sorto un grande villaggio abitato dalle maestranze e dalle loro famiglie. Era una specie di alveare attorno al quale ronzavano migliaia di persone, che cercavano di sbarcare il lunario come potevano. Da qui la fondazione della missione con scuole e dispensario.
Ecco come spiega il suo nuovo incarico padre Giovanni: «Ho lasciato la missione di Baraka, che dista 110 chilometri, per venire qui a Kiliba, luogo meno poetico, ma dove c’è un lavoro immenso da svolgere. La missione è stata aperta da un Padre Bianco e da un religioso Saveriano. Ora il Padre Bianco è stato chiamato altrove ed io sono venuto a sostituirlo. In più c’è con noi un altro padre Saveriano, venuto di recente dall’Italia. Abbiamo anche qui una zona montagnosa, ma non come a Baraka. Gli abitanti sono oltre 35.000 e sono molto meno dispersi sul territorio rispetto a quelli di Baraka. Anche se si trova nel Congo, il centro di Kiliba è molto legato ad Usumbura, perché questa città non è molto distante e perché gli occidentali che lavorano come tecnici nello zuccherificio Sucraf, sono molto legati agli europei di Usumbura. Purtroppo, però, i prezzi sono saliti. Inoltre, tra i commercianti e i dipendenti occidentali dello Sucraf regna una certa apprensione. Dopo l’indipendenza del Paese qui sono nati tre diversi governi, ognuno con la pretesa d’essere legittimo; ed è difficile sapere come andrà a finire. Speriamo solo che il comunismo (d’importazione) non abbia il sopravvento, altrimenti se non ci taglieranno la testa prima, noi missionari saremo costretti a rientrare in Italia. Ma la bella Signora, che è la Regina del Congo, ci salverà dal diavolo rosso. Con il mio confratello, padre Viotti, mi trovo benissimo: è pieno di santo zelo; è un’anima di fuoco. Paragonandomi a lui posso solo vantarmi di dargli della polvere da mangiare quando andiamo in bicicletta. Con noi v’è pure un terzo confratello, padre Alvisi, che è appena arrivato e non conosce ancora la lingua e non può quindi sostenerci appieno nell’attività apostolica. Il lavoro è intenso, ma meraviglioso: catecumeni, confessioni, malati, Legio Mariae, ragazzi dell’associazione “Gioventù saveriana” (Xaveri), oltre alle visite nei villaggi. Mi sento molto bene e non avrei mai creduto di avere tanta energia e resistenza nei miei spostamenti e nella mia attività. Nel mese di ottobre, qui a Kiliba, abbiamo tenuto la “peregrinatio Mariae”. Siamo arrivati alla fine molto stanchi, ma che belle consolazioni! Quanta gente intorno alla statua della Madonna! Cattolici e protestanti, animisti e musulmani. Anche qui la Mamma del cielo sa farsi amare. Quante confessioni e quante comunioni! Ora stiamo preparando un centinaio e più di catecumeni al battesimo e molti ragazzi alla Cresima e alla prima Comunione».
Diamanti e miseria
La realtà in cui si è calato padre Didonè è molto complessa. Il Congo, come tutto il Continente nero, è in ebollizione da decenni e segnato da secoli di sofferenza; di sicuro, da quando i primi colonizzatori europei hanno cominciato ad avere contatti con gli indigeni. Quando il missionario saveriano approda nel tumultuoso Paese africano, il cristianesimo, almeno in alcuni territori, è stato annunciato da quasi cinque secoli. Infatti, nel 1483, quando i primi portoghesi comparvero in quella regione d’Africa si preoccuparono innanzi tutto di evangelizzare le popolazioni, cominciando dalla dinastia regnante che divenne cristiana nel 1491.
Sul finire del secolo XVI, quando la tratta degli schiavi diventa una vera e propria industria (e i portoghesi riforniscono quantità sempre più crescenti di uomini per le piantagioni del Brasile), il regno del Congo si trasforma in un campo di selvaggia caccia nella quale si combattono ferocemente tutte le tribù. Nel 1660, dopo un inutile tentativo di cacciare i portoghesi, il regno del Congo è praticamente distrutto come entità politica e come aggregato sociale.
Le vicende del Paese e dell’Africa in genere, nei secoli successivi, in particolare a partire dalla seconda metà del secolo XIX, si identificano sostanzialmente con quelle della colonizzazione europea. Alla fine dell’Ottocento il Congo diventa un territorio coloniale per iniziativa personale del re dei Belgi Leopoldo II, che seppe valersi dell’opera di uno dei più grandi esploratori africani del tempo, Henry Stanley. Al congresso di Berlino del 1884 Leopoldo II veniva riconosciuto sovrano dello Stato indipendente del Congo.
Nel 1908 il nuovo Paese diventa colonia belga. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il Congo diventa il centro delle operazioni anglo-belghe che portano prima alla conquista del Camerun e poi alla difesa della Rhodesia. Dopo la prima guerra mondiale a questo dominio è aggregato, sotto la forma di mandato, il doppio territorio di Rwanda e di Urundi, a Est della linea dei laghi, fra Kivu e Tanganika. Durante la seconda guerra mondiale il territorio congolese, rimasto fedele al Belgio, fu l’unica base della sovranità belga dopo l’occupazione tedesca, e alla vigilia del riconoscimento del gabinetto belga in esilio, fu oggetto di un accordo con l’Inghilterra (febbraio 1941) per la messa in comune dei ricchi giacimenti minerari.
Nel 1960 il Congo arriverà a produrre il 75 per cento dei diamanti industriali del mondo, il 75 per cento del radio, il 60 per cento del cobalto, il 15 per cento dei diamanti per gioielleria, il 15 per cento dello stagno, l’8 per cento del rame, il 3 per cento dello zinco, il 2 per cento dell’oro. Malgrado questa ricchezza - concentrata soprattutto nella regione del Katanga - l’80 per cento della popolazione (circa 11 milioni di persone), viveva in condizioni di estrema povertà. Per avere un parametro di riferimento, oggi la Repubblica Democratica del Congo conta circa 49 milioni di abitanti ed un reddito nazionale lordo, pro capite, di 130 dollari statunitensi, mentre l’Italia, con 57 milioni e mezzo di abitanti, ha un reddito pro capite lordo di 19.880 dollari. Il 1960 sarà anche l’anno dell’indipendenza del Congo, raggiunta due anni dopo la nascita della Comunità franco-africana del 1958, la quale favorì le istanze indipendentiste del Paese.
Incidente misterioso, massacro palese
All’indipendenza, però, il Congo giungeva del tutto impreparato, senza quadri politici, amministrativi, tecnici ed economici; il tessuto connettivo del Paese era dato solo dai legami tribali. A base tribale, infatti, erano i partiti politici, salvo il Movimento nazionale congolese (Mnc), capeggiato da Patrice Emery Lumumba. Pochi giorni dopo l’indipendenza ci fu una rivolta del raccogliticcio esercito congolese guidato da J-D. Mobutu. Ciò fu pretesto per un ritorno armato dei Belgi, i quali favorirono la secessione della ricca regione del Katanga, feudo della compagnia mineraria Union Minière, per mantenerne ancora il controllo e sfruttarne le risorse. Poco dopo anche la provincia del Kasai proclamava la secessione. Al tempo stesso il capo dello stato, Kasavubu, e il presidente del Consiglio, Lumumba venivano a conflitto aperto e il Paese precipitava nel disordine più completo. Fu quindi richiesto un intervento delle Nazioni Unite, le quali inviarono un contingente di forze armate, che si rivelò comunque inadeguato a ristabilire la pace. Un accordo di fatto tra Kasavubu, Mobutu e M. Ciombe, leader del Katanga, portò all’esautoramento del capo del governo, Lumumba, acceso sostenitore dell’indipendenza e dell’unità del Congo.
Nel febbraio 1961 fu resa nota la morte di Lumumba, ucciso, a quanto risulta, da uomini di Ciombe. Nell’agosto dello stesso anno si giunse alla formazione di un governo guidato da C. Adula, sul quale le Nazioni Unite puntarono per ristabilire l’ordine nel Paese. Il segretario generale dell’ONU, D. Hammarskjöld, si recò personalmente nel Congo, ma il viaggio gli costò la vita, perduta in un misterioso incidente aereo il 17 novembre del 1961.
È dello stesso mese la tragedia di Kindu, provincia del Kivu, dove tredici aviatori italiani in missione per l’ONU furono massacrati dai ribelli congolesi. Dopo avere scaricato viveri e generi di sussistenza, l’intero equipaggio fu assalito e trucidato all’interno dell’aeroporto. Un monumento, nell’area antistante l’aeroporto Leonardo da Vinci a Roma, ricorda l’episodio e gli sfortunati aviatori. Nonostante le barbare uccisioni l’iniziativa dell’ONU non si arrestò. Anzi, fu intensificata l’azione diplomatica con il governo illegale di Ciombe, senza raggiungere però risultati apprezzabili.
Alla fine la situazione fu sbloccata dal corpo di spedizione internazionale (Onuc) che pose termine alla secessione del Katanga occupando, nel gennaio 1963, il capoluogo Elisabethville e l’intera provincia. I diciotto mesi che seguono sono cruciali per la crisi congolese. È questo, infatti, il periodo in cui il nuovo primo ministro Adula, che uscirà di scena nel giugno 1964 all’atto del ritiro del contingente ONU, tenta di risolvere i problemi più urgenti: la pacificazione interna, la stabilità del governo, il risanamento economico. Per rilanciare l’economia Adula apre trattative per ottenere prestiti e assistenza con la Nigeria, con la Comunità economica europea e con vari Paesi occidentali. Nonostante i suoi sforzi il nuovo primo ministro non riesce ad impedire che l’opposizione di ispirazione lumumbista si trasformi in guerriglia endemica in vaste zone nordorientali del Paese.
Kindu, presagio di altre tragedie
L’attività apostolica di padre Giovanni Didonè si svolge in questo periodo e in questo contesto. Gli eventi di cui sarà protagonista vanno letti e interpretati sullo sfondo di questo scenario storico locale e internazionale. Nel Congo in cui il padre saveriano si immerge con tanto entusiasmo (lo abbiamo in parte già visto), sono molto vistose le differenze culturali: quasi quattrocento tribù. La gran parte sono di ceppo Bantù. L’organizzazione politica sembra rudimentale agli occhi dell’europeo, corrisponde però alla corretta convivenza sociale delle tribù. Predomina l’organizzazione a clan, come pure - in alcune culture - la discendenza patrilineare, con eredità al fratello minore, anziché al figlio del defunto. Molto evolute sono le società segrete, alcune delle quali dedite al culto dei morti. Diffuso e di grande valore per la vita del gruppo familiare è il ricordo degli antenati, come coloro che hanno lasciato alle nuove generazioni la scienza del vivere e insieme, dall’oltretomba possono difendere dagli spiriti del male. Già, la credenza negli spiriti del male determina in tutti il senso di una grande paura che spiega la diffusione di pratiche magiche. Anche per questo la religione cattolica fatica ad essere annunciata.
Malgrado le aree fertili raggiungano il 21 per cento dell’intero territorio, solo l’1 per cento di esso è coltivato. L’agricoltura, primitiva, è rivolta soprattutto a far fronte ai bisogni alimentari locali. I principali prodotti sono: sorgo, miglio, mais, manioca, patate dolci, banane, arachidi, sesamo, riso. Alla donna sono affidati tutti i lavori nei campi, salvo il dissodamento; l’allevamento per ragioni climatico-ambientali, è limitato alla capra e al maiale. Le mandrie di bovini si trovano, infatti, in poche zone di montagna. Tracce di vita vissuta del popolo congolese ci sono già state descritte da padre Giovanni. Il missionario saveriano, al di là delle pur necessarie conoscenze antropologiche, sociologiche e storiche, opera in un contesto molto reale che è quello di gente di basso livello di scolarizzazione anche se in una cultura ancestrale suggestiva e ricca di valori antropologici e sociali.
Se con le persone umili è facile l’intesa, con i capi e i capetti, per di più poco istruiti, diventa complicata e, in qualche caso, persino pericolosa, la più banale comunicazione. Il Congo che conosce padre Didonè (la provincia del Kivu) non è quella cartolina oleografica e rassicurante in cui campeggia la bonaria figura del missionario in veste bianca e casco coloniale, attorniato da un nugolo di festanti bambini dalla pelle lucida e nerissima con occhi dolci e penetranti. Il Congo di padre Didonè è un Paese in cui covano risentimenti tribali e in cui la pelle bianca è sinonimo di oppressione.
Uno dei tanti problemi che affronta il missionario saveriano è quasi irrisolvibile: si tratta di far superare i desideri di vendetta tra clan indigeni e, nel contempo, far cadere i giudizi negativi dei congolesi nei confronti dei bianchi. Il fatto è che le vendette si fondano su ataviche rivalità e l’astio verso i bianchi su reali ingiustizie subite nel passato. E non solo! Nonostante il contesto difficile padre Didonè non si perde d’animo. Non è stato egli preparato per annunciare il Vangelo, proprio là dove non è mai arrivato? Allora, avanti a seminare la Parola di Dio, soprattutto con la testimonianza operosa.
Una Pasqua d’oro
Nella tarda primavera del 1962 padre Didonè è a Fizi con un compito preciso: costruire una chiesa per la sua comunità. Il vescovo monsignor Danilo Catarzi lo sostiene con affetto e con aiuti concreti. Quasi tutto il materiale per la chiesa - lamiere, stipiti per porte e finestre e persino varie suppellettili - viene da Uvira, la città dove risiede il vescovo. L’11 febbraio 1963 la chiesa è consacrata. È un edificio (di 18 metri per 8), povero, ma decoroso, in grado di ospitare 500 persone. Padre Didonè non aveva voluto una struttura imponente dal momento che i fedeli della sua missione vivevano in modeste capanne di fango e paglia. Aveva desiderato, però, mettere a disposizione della sua gente un luogo per il culto che non avesse nulla da invidiare a quelli di cui usufruivano i cristiani di altre missioni.
I riti della Settimana Santa del 1963 rappresentano per l’intraprendente missionario uno dei momenti più entusiasmanti del suo apostolato. In una lettera di quell’anno, datata 28 aprile e indirizzata ai famigliari, scrive: «Ho passato una Pasqua d’oro, meravigliosa. Non credo che ci sia stato un prete più stanco di me in quella notte santa di Risurrezione e credo pure che non ce ne sia stato uno più felice. Per tre settimane ho preparato una settantina di catecumeni al Battesimo, con due lezioni al giorno; nella notte del Sabato Santo ben ottantasei nuovi fedeli hanno ricevuto il Battesimo. Che spettacolo vedere la nostra chiesetta, che ancora sa di calce fresca, illuminata a giorno con lampadine da 100 volt l’una! La chiesina era zeppa di gente. I battezzandi, disposti su dieci file, attendevano ansiosi il Battesimo. Era veramente bello e commovente vedere la loro fede. Foste stati presenti anche voi! Ho incominciato alle 10 di sera: benedizione del fuoco, del cero pasquale, canto dell’Exultet, litanie dei Santi, quindi benedizione dell’acqua battesimale e battesimi solenni. Si arriva giusto a mezzanotte. Benedizione di due matrimoni e canto della Messa di Risurrezione. All’una e mezza sembra tutto finito, ma non è così. I nuovi cristiani approfittano della luna piena per iniziare, nel grande piazzale della missione, tutta una festa di canti, di danze, accompagnate dal rullo di decine di tamburi. Il mattino di Pasqua la chiesa si riempie ancora due volte di cristiani. Il Lunedì di Pasqua il vescovo, per la prima volta, arriva a Fizi in aereo, pilotato da fratel Pirani. Anche questo fatto entusiasma i nostri cristiani, che vedono il loro pastore arrivare sulle ali del vento...». Sono disarmanti, per non dire sconcertanti, il candore e la forza spirituale espressi in questa lettera di padre Didonè. Il missionario saveriano non ignora la situazione d’instabilità politica e sociale in cui, comunque, è costretto ad operare; ciò nonostante i suoi pensieri, incentrati sulla fede, sull’opera evangelizzatrice, seminano fiducia e mostrano speranza per il futuro. Padre Didonè è compreso - è divorato - dalla sua missione. Non è uno sprovveduto o un temerario, è un cristiano vero. Sempre da Fizi, scrive infatti alla sorella, suor Amabile: «Con la presenza di alcune religiose, qui le cose andrebbero meglio. Sembra comunque che tutto non vada poi così storto. Politicamente tutto è a terra, non c’è niente che marci. Possiamo dire che non c’è alcuna autorità e nello stesso tempo possiamo dire che ce ne sono troppe. Tutti vogliono comandare. I soldati - ringraziamo il Signore - cominciano ad essere più disciplinati e stare al loro posto e questo ci rende più tranquilli e ci fa ben sperare. Da parte della popolazione c’è chi ci vede di malocchio, ma costoro parlano male di noi quando sono ubriachi! Nei momenti di lucidità certe cose non le dicono, anche per prudenza umana. La maggior parte della gente ci vuole bene, soprattutto perché vede che vogliamo bene ai loro bambini. La cristianità si sta riprendendo. Non tutti ancora vengono alla Messa o si accostano ai sacramenti, ma si nota una ripresa, con rabbia dei protestanti e di chi non ci vuol vedere».
Missione, testimonianza e martirio
Per capire il messaggio che la vicenda umana di padre Didonè ci ha lasciato (messaggio comune a tutti i martiri della fede) dobbiamo qui aprire una parentesi, relativamente ampia, sul significato di martirio. Il lettore non ce ne voglia, ma, se non si spendono due parole per approfondire questo argomento, diventa pressoché impossibile comprendere perché ancora oggi vi siano persone disposte (come Didonè) a dare la vita per seguire Cristo. Facciamo questo excursus in compagnia del teologo Bruno Maggioni, da cui prendiamo alcune penetranti riflessioni. Tenendo costantemente il pensiero rivolto alla morte violenta di padre Didonè- sui particolari ci soffermeremo più avanti - ci riesce allora più facile capire perché il martirio si inserisca con naturalezza nell’esistenza cristiana. Eccezionale può apparire la forma in cui il martirio avviene, ma non la sua sostanza insita in chi sceglie di seguire Gesù. Certo non ogni vita cristiana si conclude, di fatto, con il martirio, ma ogni autentico seguace di Cristo ne contempla la possibilità.
Il martirio è una richiesta che Dio fa ad alcuni. La disponibilità a testimoniare fino alle ultime conseguenze, però, fa parte del bagaglio personale di ogni discepolo. Vivere la sequela di Cristo comporta, in ogni caso, il rinnegamento di sè, l’accettazione della croce e il capovolgimento dei valori terreni: non l’ansia di conservarsi, ma la scelta di donarsi. «La beatitudine della persecuzione», ricorda Bruno Maggioni, «è la sola ripetuta due volte, e già questo ne dice l’importanza (Mt 5,10-12)». La stessa parola testimonianza, del resto, implica una direzione missionaria: la testimonianza avviene sempre non soltanto davanti a qualcuno, ma in direzione di qualcuno. Ai suoi discepoli missionari, Gesù dice: «In testimonianza verso di loro e verso i pagani».
Il terreno privilegiato della testimonianza e del martirio è la missione, il proiettarsi della Chiesa all’esterno. Proprio ciò che ha fatto padre Giovanni Didonè. I missionari, da sempre, sanno di essere la fanteria della Chiesa. Anzi, il loro ruolo è quello che negli eserciti svolgono gli esploratori, ai quali - sempre in testa a qualsiasi reparto -spetta di saggiare la consistenza del piombo nemico. Ecco perché il “corpo” dei missionari conta così tanti caduti e così tante medaglie d’oro (leggi “santi”, nella dimensione della fede). Padre Didonè (come gli altri religiosi morti durante le ricorrenti ondate rivoluzionarie in Congo e nelle altre regioni dell’Africa e del mondo) non era un esaltato, un passionario votato all’eroismo. Era un prete cattolico che aveva risposto, con grande convinzione e determinazione, alla chiamata di Dio. Gli studi teologici gli erano serviti per rafforzare, sul piano intellettuale, ciò che il cuore gli aveva già suggerito: seguire Dio, senza condizioni. A Parma nessuno gli aveva nascosto le difficoltà dell’apostolato cui si sarebbe dedicato.
I superiori, nelle lezioni di storia della Chiesa e in quelle, più circostanziate, sulle origini dell’Istituto cui apparteneva, gli avevano raccontato dei tanti preti e missionari uccisi per annunciare il Verbo. Padre Didonè era consapevole del legame che esiste tra la missione e il martirio. «Quest’ultimo è il segno dell’efficacia della missione, non semplicemente della sua verità, né soltanto della santità del missionario», le parole sono ancora di Bruno Maggioni che prosegue: «È perché “non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava”, che decisero di lapidare il diacono Stefano (At 6,10). Ed è perché compiva “molti segni” che Caifa prese la decisione di condannare Gesù (Gv 11,47). Ciò che spinge allo scontro decisivo non è, dunque, una missione fallita, ma riuscita; non la sua debolezza, ma la sua forza; non parole prive di verità e di convincimento, ma parole convincenti. Il martirio è il destino della verità, non della menzogna; della mitezza, non della violenza».
Gli altri aspetti di padre Didonè, che si colgono dai suoi scritti già citati, sono la pacatezza che egli mostra nel giudicare gli eventi e la serenità interiore che guida le sue scelte. Le categorie della psicanalisi e della psicologia, probabilmente, definirebbero padre Didonè «un soggetto realizzato e ben integrato». Più semplicemente noi crediamo che, dentro la dimensione della fede cristiana, egli è un uomo colmo di Spirito Santo. A questa conclusione ci porta lo stesso missionario il quale, pochi mesi prima della morte, scrive testualmente: «Speravo avere vostre notizie (il testo è indirizzato ai famigliari), ma niente. Si vede che qualcuno si è messo le vostre lettere in tasca e non le trova più. Pazienza! Riguardo a quello che dicono i giornali e la radio su Uvira, in questi giorni, è molto esagerato. Anche qui ci sono delle manifestazioni,ma finora a Fizi, c’è calma e speriamo duri a lungo... Vi abbraccio tutti e accompagnatemi con la preghiera». Padre Didonè tranquillizza tutti, infonde fiducia, ma in cuor suo sa che la situazione, proprio per i missionari, non è affatto serena, anzi è inquietante.
Dove trova allora tanto coraggio? Nello Spirito Santo che si assume il compito di preservare il discepolo dallo scandalo nel momento in cui la sua fede è pericolosamente messa alla prova.
Lo Spirito - spiega la teologia - crea nell’animo del discepolo perseguitato l’intima sicurezza che il Crocifisso è il vincitore. Non necessariamente lo sottrae al turbamento e alla paura, ma gli dona una serenità che rimane salda anche nel turbamento. Per tutto questo si comprende che il martirio è un dono dello Spirito, quello stesso Spirito di cui era colmo il missionario saveriano. La Chiesa annuncia la morte del Signore con la verità e la concretezza delle sue opere. La Chiesa, però, deve anche essere visibile; e il martirio è la memoria più visibile del Crocifisso, la forma più vicina possibile dell’evento storico di Gesù. È alla luce di questi pensieri che possiamo ora comprendere gli atti finali compiuti da padre Didonè davanti ai suoi assassini. La ricostruzione delle ultime ore di vita del missionario saveriano si deve a padre Palmiro Cima che, tornato nei luoghi dell’eccidio nel gennaio 1966, potè raccogliere informazioni da testimoni oculari.
Fedeltà fino alla morte
Il 28 novembre 1964 un capo periferico della guerriglia, tal Abedì Masanga, autoproclamatosi colonnello, uccide nella missione di Baraka padre Luigi Carrara e fratel Vittorio Faccin. Lo stesso giorno il sanguinario rivoluzionario risale a Fizi. Percorre 29 chilometri di strada sinuosa e tormentata, lungo la quale egli ha il tempo di rinfocolare nell’animo l’odio contro i padri della missione di Fizi. Si dirige dapprima alla casa che serve da quartier generale al generale Shabani, comandante in capo di tutte le forze dell’Armata popolare di liberazione dell’Est. Masanga informa il generale sull’eccidio che ha compiuto a Baraka e gli manifesta l’intenzione di completare l’opera con l’uccisione anche dei religiosi che risiedono a Fizi. Shabani si mostra contrariato per l’assassinio dei padri di Baraka e mette in guardia Masanga dal ripetere un simile gesto a Fizi. Qualcuno ha raccolto le battute dell’acceso diverbio tra i capi dei ribelli. «Se uccidi i padri che vantaggio ne ricavi?», chiede il generale a Masanga.
E questi, di rimando: «Ormai che sono morti quelli di Baraka, perché devono restare vivi quelli di Fizi?». È la logica della violenza che regge un rozzo capetto della rivoluzione. La decisione, comunque, è presa. Sono circa le sei del pomeriggio quando la jeep di Masanga con il sedile anteriore intriso del sangue di fratel Faccin, si arresta davanti alla grande statua dell’Immacolata che domina l’entrata della missione di Fizi, a pochi passi dalla chiesa. Masanga scende dalla vettura e chiama ad alta voce padre Didonè. Il missionario non ha neppure il tempo di uscire che un proiettile lo colpisce in fronte. Cade senza un lamento.
L’abbé Albert Joubert, che seguiva padre Didonè, ha appena il tempo di afferrare la tragicità dell'evento. È subito colpito dalla stessa arma micidiale e cade morto a due metri da padre Didonè, a pochi passi dalla casa dei religiosi.
Masanga, accertata la morte dei due religiosi, riguadagna la strada da cui era arrivato. Perché tanta ferocia contro uomini inermi? Per non perdere il controllo dei seguaci da parte di un capetto della rivoluzione tanto rozzo quanto sprovveduto.
Tre giorni prima, infatti, nel corso di una fallita imboscata a forze regolari spalleggiate da mercenari di grande esperienza militare, il gruppo di Masanga aveva perso settecento Simba su mille. Simba, i leoni, così si era autodefinito quel gruppo di ribelli. Dovendo giustificare il clamoroso insuccesso, il capetto rivoluzionario non aveva saputo trovare miglior giustificazione che accusare di spionaggio (attraverso la famosa quanto inesistente “fonì”, la ricetrasmittente) i missionari saveriani. È una storia vecchia quanto l’umanità: uccidendo il capro espiatorio si placano gli animi e ogni cosa torna al suo posto. Ma c’è una risposta più vera, più profonda: oltre la materialità storica della cronaca scopriamo un atto di fede e di fedeltà, la fedeltà di un missionario alla sua vocazione, la fedeltà di un consacrato a Dio per la missione al suo Signore, la fedeltà di un presbitero alla sua gente. Padre Giovanni Didonè muore dunque, nel turbine di una guerriglia, quale vittima innocente dell’odio razziale disseminato contro i bianchi da una propaganda estremista. Il suo sangue, però, non è sparso invano.
È grazie al suo sacrificio e a quello di numerosi altri missionari se oggi, infatti, il cristianesimo - attraverso il cosiddetto processo d’inculturazione - è vivo in tanti Paesi dell’Africa. Alcuni mesi dopo la morte del p. Giovanni, il suo confratello, ora defunto, p. Victor Ghirardi, trovò questo suo significativo autografo indirizzato ad un catechista:
Ecco alcuni stralci, tradotti dal kishwahili:
Fizi 9/11/64
Caro Maestro Raphael, Ti saluto.
Grazie per la tua lettera e per il lavoro che svolgi. Ora a Roma, con il Concilio, hanno dato il permesso ai vescovi delle missioni di mettere a fianco a Padri i Diaconi, cioè: il Vescovo può scegliere catechisti che hanno dato prova di vita onesta, di fedeltà e di zelo, e di dar loro il grande permesso di battezzare come i Padri e di distribuire la comunione ai cristiani. Questi diaconi possono essere anche sposati, e il loro potere è un po’ inferiore a quello dei Padri. Abbiate ancora un po’ di pazienza e tra un po’ avrete un Diacono e se sarò ancora nelle difficoltà come ai tempi dell’Indipendenza, e come lo sono pure adesso, non avrete più ragione di preoccuparvi. Pregate Dio e la Vergine Maria, nostra madre, affinché abbiamo un po’ di pace, e che ci vada tutto bene. Ti scrivo queste cose per darti un po’ di speranza per i tempi che stanno per venire.
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Noi Padri siamo qui a Fizi, molto lontani dai nostri paesi, però Dio è dappertutto e ci vede. Restiamo forti! Non pensiate che i Padri ritornino a casa loro, sappiate che essi piuttosto di abbandonarvi preferiscono morire. Non date retta alle menzogne. Noi siamo stati inviati per restare qui nella missione di Fizi. Non sono ancora venuto da voi perché non posso, e voi lo sapete bene, però mi vedrete, non so quando, ma mi vedrete.
Autore: Alberto Comuzzi
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