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Beato Vittorio Faccin Sacerdote saveriano, martire

Festa: 28 novembre

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Villaverla, Vicenza, 7 gennaio 1934 – Baraka, Rep. Dem. del Congo, 28 novembre 1964

Vittorio Faccin, vicentino d’origine ma cresciuto nella campagna modenese, entrò sedicenne tra i Missionari Saveriani, formandosi prima a Cremona, poi a Desio. Avendo interrotto gli studi troppo presto, accettò di essere fratello laico: nel 1952 emise la prima professione religiosa e, nel giorno dell’Immacolata del 1962, quella perpetua. Dal dicembre del 1959 era in missione nella regione del Kivu, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo: s’impegnò a trasmettere specialmente l’amore tra i fratelli africani, segnati dalla guerra civile. Il mattino del 28 novembre 1964 venne prelevato dal capo ribelle Abedi Masanga col pretesto di aver fornito, via radio, alcune informazioni all’esercito regolare. Nel tentativo di avvisare il confratello padre Luigi Carrara, fece per scendere dalla jeep su cui era stato fatto salire a forza, però Masanga gli sparò all’istante: appena aveva messo un piede sul terreno. Padre Carrara, accorso mentre stava confessando alcune donne, chiese di poter morire accanto a lui. La beatificazione di padre Luigi e fratel Vittorio, ma anche di padre Giovanni Didonè e del sacerdote diocesano Albert Joubert (questi ultimi due uccisi alcune ore dopo di loro a Fizi) è stata celebrata il 18 agosto 2024 a Uvira. I resti mortali di padre Luigi e di fratel Vittorio riposano nella chiesa di Baraka.



Meglio sacrificarsi che sacrificare
«Miei cari genitori, non potete immaginare quale sia la gioia del mio cuore nel trovarmi qui, per poter dare qualche cosa di mio a coloro che non sanno quale sia il dono che il Signore ha fatto a noi nel farci cristiani. A voi che mi avete sempre assistito nei miei anni di formazione e soprattutto per avermi lasciato seguire la mia vocazione, un grazie con tutto il cuore». È questo il primo pensiero che un ragazzo (ma solo per l’anagrafe) di 25 anni manda in Italia, dal Congo dove si trova in missione. Questo ragazzo, la cui esemplare vita non sarà mai raccontata nei libri di scuola, si chiamava Vittorio Faccin. Se non fosse stato assassinato da un insignificante quanto violento capobanda, oggi (nel 2000) avrebbe 66 anni, essendo nato il 7 gennaio 1934. Fratel Vittorio era originario di Villaverla (Vicenza), ma aveva vissuto gli anni della fanciullezza nella campagna modenese dove i genitori, Giuseppe e Giuditta Zanin, si erano trasferiti. Entrato, sedicenne, nella casa saveriana di Cremona, aveva proseguito la formazione a Desio (Milano).
Nel 1952 emette la prima professione religiosa e, nel giorno dell’Immacolata del 1962, quella perpetua. Da oltre tre anni - esattamente dal dicembre del 1959, mese in cui, appunto, scrive il pensiero sopra citato - era già in missione nella diocesi di Uvira (Congo Belga, ora “Repubblica Democratica del Congo”). Avrebbe desiderato diventare prete, ma avendo abbandonato gli studi troppo presto, gli fu consigliato di continuare la vita missionaria come fratello laico.
Accettò, ma gli rimase sempre la nostalgia del sacerdozio. Alla vigilia della professione perpetua, mosso da un’illuminazione che oggi ha il sapore della profezia, si confidò con il Superiore Generale in questi termini: «Nella preghiera, Gesù mi ha fatto comprendere come sia meglio che io venga sacrificato a Lui piuttosto che Lui si immoli nelle mie mani». Aveva compreso il senso più profondo del carisma dei Missionari Saveriani: famiglia missionaria fondata da san Guido Maria Conforti quando ancora era giovane prete con lo scopo unico ed esclusivo dell’annuncio della buona notizia del Vangelo ai non cristiani fuori dal proprio ambiente, cultura e chiesa di origine.
Se fosse possibile porre un prima e un poi nel dono di sé per il Vangelo, affermerei che prima d’essere prete il saveriano è religioso - fa voto di celibato, povertà e obbedienza -, ma prima di essere religioso è un consacrato a Dio per la missione e dalla missione “ad Gentes”. Anche cronologicamente il missionario saveriano prima emette il voto di missione, poi «per vivere ed esprimere più radicalmente la nostra consacrazione alla missione, ci mettiamo alla sequela di Cristo con i voti di castità, povertà e obbedienza». Così recitano le costituzioni dei Missionari Saveriani. Fratel Faccin fu ucciso - più avanti ne spiegheremo circostanze e ragioni - il 28 novembre 1964, nella missione congolese di Baraka (provincia del Kivu, diocesi di Uvira).

Dalle lettere, un diario
Per comodità del lettore racconteremo la sua storia come se egli l’avesse scritta in un diario. È un artificio che, ci auguriamo, ci sarà perdonato,perché ha come unico scopo quello di rendere fluida la lettura. Quanto alle notizie, tutte, sono tratte da lettere inviate dal missionario a parenti e ad amici. Iniziamo, allora a leggere il diario di fratel Faccin, a partire dal giorno del suo arrivo in Congo, lunedì 14 dicembre 1959.
Da qualche settimana sono a Baraka. I confratelli più vicini sono in una missione a 90 chilometri, i più lontani a 360. Ho già fatto conoscenza con i ragazzi delle scuole che mi hanno accolto con grande gioia perché mi attendevano da molto. Tutte le sere converso con loro e ci facciamo delle grandi risate: non possiedo la loro lingua, ma con il francese riusciamo ad intenderci. Qualche giorno fa, assieme al padre Superiore, padre Knittel (un francese che appartiene alla congregazione dei Padri Bianchi), sono andato a visitare un malato. Quando siamo arrivati, però, era già morto. Era un uomo di circa 40 anni che era stato battezzato da un suo compagno due giorni prima. Il funerale è stato celebrato nella Missione. La salma, avvolta in un semplice lenzuolo, è arrivata su un camion. Questa mattina ho diretto i primi lavori per la costruzione di una casetta, nell’area della missione. Il clima non è malvagio. Siamo nel tempo delle piogge e tutte le notti l’acqua scroscia abbondante. Il cibo è povero, ma sufficiente e, soprattutto, sano. Il pesce abbonda: siamo a tre chilometri dal lago Tanganika. Abbiamo latte in polvere e caffè - che qui si produce -, ma poca verdura, che arriva da 300 chilometri di distanza. Alla Missione, non essendoci acqua, non crescono ortaggi. Come carne, quando capita, c’è quella di coniglio, oppure quella di montone che comperiamo dai pastori della montagna. Abbiamo anche nove galline e un gallo, che sarà ben duro da far cuocere! L’acqua che beviamo è quella del Tanganika, naturalmente filtrata. Quella che usiamo per cucinare è presa da un fosso che scende dalle montagne. Quando piove, a guardarla, scappa la voglia di lavarcisi i piedi! Siamo, però, fortunati: la legna non manca e il fuoco sistema tutto. Trovarmi nel cuore dell’Africa, mi sembra un sogno. Il luogo è stupendo. In mezzo a questa natura si vede più manifesta la potenza di Dio.

Manca l’amore
L’Africa ha bisogno d’essere amata. Il popolo qui sta cercando una cosa che fa fatica a trovare e soprattutto a comprendere: l’amore. Credo che non conoscano il verbo “amare” o il sostantivo “amore”. Qui conoscono molto bene la giustizia: occhio per occhio, dente per dente. Il nostro lavoro è impostato in modo tale da far conoscere l’amore e nel saper perdonare: questo è il comandamento di Gesù. Domenica scorsa i ragazzi erano senz’acqua per cucinare, due di loro sono andati a prenderla e al ritorno mi hanno detto: “Leonardo, che non ci ha aiutati, viene a mangiare con noi questa sera?”. Alla mia risposta affermativa, hanno obiettato: “Non ha lavorato, non ne ha diritto”. L’Africa deve essere amata, ma dall’amore di Cristo; deve essere amata non perché ha molto oro o altre ricchezze. Solo in mezzo ai pagani si può comprendere come Dio ci abbia amato facendoci nascere in un Paese cristiano, dove la stessa aria che respiriamo ha lo stesso profumo del cristianesimo; e noi che vivevamo in mezzo, non sapevamo valutarlo fino in fondo, attribuendogli il giusto valore. Dopodomani parto con il mio superiore. Visiterò alcuni villaggi dove incontrerò i ragazzi dell’associazione “Giovinezza saveriana”. Dovrò esprimermi in Kishwahili: non so che cosa salterà fuori! Questo giro non è lungo, poiché il villaggio più lontano è solo a 50 chilometri. Una sola cosa mi preoccupa costantemente: formare dei buoni giovani. Essendo così lontani non posso fare più di tanto e così lascio fare un po’ a san Francesco Saverio e alla Madonna. Dopo Pasqua ho in programma altri due viaggi. Cerco di avvicinare il più possibile i giovani per prepararli alla promessa di fedeltà che devono fare all’Associazione. La scorsa settimana ho visitato una scuola - che sta letteralmente crollando - e che si trova nella penisola del lago Tanganika. Per raggiungerla dalla nostra riva ci sono volute due ore di viaggio su una piccola imbarcazione. Il maestro si è lamentato perché i genitori (pescatori di fede musulmana) non apprezzano il lavoro che egli svolge, con tanto impegno, per educare i loro figli. L’edificio, si fa per dire, è costruito con canne e fango. È talmente mal ridotto che saremo costretti ad abbandonarlo. L’assurdo è che basterebbero pochi giorni di lavoro per costruire una scuola ancor più accogliente e sicura.

La fede, grande dono divino
La sera del Sabato Santo (lo scorso aprile 1960) mentre ero nella nostra chiesa, ho pensato a voi che siete in un Paese cristiano, dove le campane suonano a festa per annunciare la Risurrezione di Cristo. Questo fatto mi ha richiamato il pensiero dei primi cristiani della Roma pagana, che si rifugiavano nelle catacombe per pregare il Signore per la conversione della loro città. Pure qui c’erano pochi cristiani che pregavano il Signore per la conversione dell’Africa; poiché intorno a noi c’è il regno di Satana. Il mese di marzo è stato piuttosto pieno. Abbiamo cominciato le istruzioni per il battesimo: sono più di 80 quelli che saranno battezzati il 5 giugno. Sono tutti adulti, pochi i ragazzi. La maggioranza ha un’età compresa tra i 20 e i 35 anni; e c’è anche un bel gruppetto di anziani. Invito tutti - in particolare voi che mi seguite dall’Italia - a pregare per loro affinché possano essere sempre dei buoni cristiani, soprattutto in questi momenti molto difficili per loro. I congolesi stanno per ottenere l’indipendenza e si trovano come in un crocicchio di tante strade senza sapere quale imboccare. La tribù dei Wabembe, con la quale abbiamo maggiori contatti, fino a qualche anno fa praticava il cannibalismo. L’ultimo caso si è avuto nel 1953. Si capisce anche da questi fatti perché sia difficile evangelizzare. Quando mi sposto per incontrare i fedeli nei villaggi, mentre il Padre li confessa, il mio compito è di istruirli o di interrogarli sul catechismo. Per organizzare le associazioni dei ragazzi faccio camminate lunghissime. Con un pezzo di pane nella borsa per il pranzo, un giorno ho percorso 24 chilometri: 12 per raggiungere il villaggio ed altrettanti per tornare alla missione. La vita non può che essere ridotta all’essenziale. Quando ho fatto il campeggio con i ragazzi, anch’io dormivo sul pavimento di cemento, con una stuoia di 90 centimetri e una coperta. Gli altri, che non avevano spazio sulla stuoia o sotto la coperta, giacevano sul cemento. Dormire così, per loro, è come dormire su un bel materasso di lana soffice. Normalmente dormono sulla terra con la stuoia, anche senza coperta. Solo adesso gli impiegati e i maestri hanno cominciato a comperarsi dei letti, ma sono fatti in un modo che ci si stanca invece di riposare. Infatti sono fatti con quattro stecche messe insieme e senza materasso. Presto riprendo ad insegnare il catechismo ai bambini delle prime tre classi elementari. La sera diciamo il Rosario che si conclude con la Benedizione. Insistiamo molto nell’onorare la Madonna e spieghiamo che Lei, avendo vinto il demonio, vincerà anche le cattiverie del mondo.

Parentesi sugli avvenimenti del Congo
Prima di inoltrarci nel diario di fratel Faccin dobbiamo aprire una parentesi - piuttosto ampia - sulle vicende del Congo. L’esperienza umana e religiosa del missionario saveriano diventerà così più comprensibile. Soprattutto, il lettore avrà elementi di riflessione e di giudizio che gli consentiranno di percepire maestosa la figura di questo giovane traboccante di letizia cristiana e d’amore per i cosiddetti lontani. Quando fratel Vittorio giunge nel Paese africano i colonizzatori vi erano arrivati già da quasi cinque secoli. Infatti i primi portoghesi comparvero in quella regione d’Africa nel 1483 e si preoccuparono anche di evangelizzare le popolazioni, cominciando dalla dinastia regnante che divenne cristiana nel 1491. Sul finire del secolo XVI, quando la tratta degli schiavi diventa una vera e propria industria, il regno del Congo si trasforma in un campo di caccia finalizzata a rifornire quantità sempre più crescenti di uomini per le piantagioni del Brasile. Nel 1660, dopo un inutile tentativo di liberarsi dai portoghesi, il regno del Congo è praticamente distrutto come entità politica e come aggregato sociale. Le vicende del Paese e dell’Africa in genere, nei secoli successivi, in particolare a partire dalla seconda metà del secolo XIX, si identificano sostanzialmente con quelle della colonizzazione europea. Alla fine dell’Ottocento il Congo diventa un territorio coloniale per iniziativa personale del re dei Belgi Leopoldo II, che seppe valersi dell’opera di uno dei più grandi esploratori africani del tempo, Henry Stanley. Al congresso di Berlino del 1884 Leopoldo II veniva riconosciuto sovrano dello Stato indipendente del Congo. Nel 1908 il nuovo Paese diventa colonia belga. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il Congo è al centro delle operazioni anglo-belghe che portano prima alla conquista del Camerun e poi alla difesa della Rhodesia. Dopo la prima guerra mondiale a questo dominio è aggregato, sotto la forma di mandato, il doppio territorio di Ruanda e di Urundi, a Est della linea dei laghi, fra Kivu e Tanganika. Durante la seconda guerra mondiale il territorio congolese, rimasto fedele al Belgio, fu l’unica base della sovranità belga dopo l’occupazione tedesca, e alla vigilia del riconoscimento del gabinetto belga in esilio, fu oggetto di un accordo con l’Inghilterra (febbraio 1941) per la messa in comune dei ricchi giacimenti minerari. Nel 1960, il Congo (nel quale fratel Faccin opera già da un anno) arriva a produrre il 75 per cento dei diamanti industriali del mondo, il 75 per cento del radio, il 60 per cento del cobalto, il 15 per cento dei diamanti per gioielleria, il 15 per cento dello stagno, l’8 per cento del rame, il 3 per cento dello zinco, il 2 per cento dell’oro.
Malgrado questa ricchezza - concentrata soprattutto nella regione del Katanga - l’80 per cento della popolazione (circa 11 milioni di persone), vive in condizioni di estrema povertà. Per avere un parametro di riferimento, oggi la Repubblica Democratica del Congo conta circa 49 milioni di abitanti ed un reddito nazionale lordo, pro capite, di 130 dollari statunitensi, mentre l’Italia, con 57 milioni e mezzo di abitanti, ha un reddito pro capite lordo di 19.880 dollari. Il 1960 è anche l’anno dell’indipendenza del Congo, raggiunta due anni dopo la nascita della Comunità franco-africana del 1958, la quale ha, senza dubbio, contribuito a spianare la strada alle istanze indipendentiste del Paese.

Ci prova anche l’ONU
All’indipendenza, però, il Congo giungerà del tutto impreparato, senza quadri politici, amministrativi, tecnici ed economici; il tessuto connettivo del Paese, infatti, è dato solo dai legami tribali. A base tribale erano i partiti politici, salvo il Movimento nazionale congolese (Mnc), capeggiato da Patrice Emery Lumumba. Pochi giorni dopo l’indipendenza ci sarà una rivolta del raccogliticcio esercito congolese guidato da J-D. Mobutu. Ciò sarà pretesto per un ritorno armato dei Belgi, i quali favoriranno la secessione della ricca regione del Katanga, feudo della compagnia mineraria Union Minie’re, per mantenerne ancora il controllo e sfruttarne le risorse. Poco dopo anche la provincia del Kasai proclamerà la secessione. Al tempo stesso il capo dello stato, Kasavubu, e il presidente del Consiglio, Lumumba verranno a conflitto aperto e il Paese precipiterà nel disordine più completo. Sarà quindi richiesto un intervento delle Nazioni Unite, le quali invieranno un contingente di forze armate, che si rivelerà comunque inadeguato a ristabilire la pace. Un accordo di fatto tra Kasavubu, Mobutu e M. Ciombe, leader del Katanga, porterà all’esautoramento del capo del governo, Lumumba, acceso sostenitore dell’indipendenza e dell’unità del Congo.
Nel febbraio 1961 sarà resa nota la morte di Lumumba, ucciso, a quanto risulta, da uomini di Ciombe. Nell’agosto dello stesso anno si giungerà alla formazione di un governo guidato da C. Adula, sul quale le Nazioni Unite punteranno per ristabilire l’ordine nel Paese. Il segretario generale dell’ONU, D. Hammarskjöld, si recherà personalmente nel Congo, ma il viaggio gli costerà la vita, perduta in un misterioso incidente aereo il 17 novembre del 1961. È dello stesso mese la tragedia di Kindu, provincia del Kivu, dove tredici aviatori italiani in missione per l’ONU saranno massacrati dai ribelli congolesi. Dopo avere scaricato viveri e generi di sussistenza, l’intero equipaggio viene assalito e trucidato all’interno dell’aeroporto. Un monumento, nell’area antistante l’aeroporto Leonardo da Vinci a Roma, ricorda l’episodio e gli sfortunati aviatori. Nonostante le barbare uccisioni l’iniziativa dell’ONU non si arresterà. Anzi, sarà intensificata l’azione diplomatica con il governo illegale di Ciombe, senza raggiungere però risultati apprezzabili. Alla fine la situazione sarà sbloccata dal corpo di spedizione internazionale (Onuc) che porrà termine alla secessione del Katanga occupando, nel gennaio 1963, il capoluogo Elisabethville e l’intera provincia. I diciotto mesi che seguono saranno cruciali per la crisi congolese.
È questo, infatti, il periodo in cui il nuovo primo ministro Adula, che uscirà di scena nel giugno 1964 all’atto del ritiro del contingente ONU, tenta di risolvere i problemi più urgenti: la pacificazione interna, la stabilità del governo, il risanamento economico. Per rilanciare l’economia Adula aprirà trattative per ottenere prestiti e assistenza con la Nigeria, con la Comunità economica europea e con vari Paesi occidentali. Nonostante i suoi sforzi il nuovo primo ministro non riuscirà ad impedire che l’opposizione di ispirazione lumumbista si trasformi in guerriglia endemica in vaste zone nordorientali del Paese. L’attività apostolica di fratel Vittorio Faccin si svolge in questo periodo e in questo contesto. Gli eventi di cui sarà protagonista vanno letti e interpretati sullo sfondo di questo scenario storico locale e internazionale. Nel Congo in cui il giovane missionario saveriano si immerge con tanto entusiasmo (lo leggeremo nelle pagine del suo diario), sono molto vistose le differenze culturali: quasi quattrocento tribù. La gran parte sono di ceppo Bantù. Nei territori affidati ai Missionari saveriani sono numerosi i Banyarwanda tra cui i Banyamulenge divenuti tristemente famosi con la guerra del Congo del 1996 e con l’attuale guerra. Sono rwandesi emigrati in Congo a partire dal secolo scorso. L’organizzazione politica non corrisponde certo ai canoni delle nostre strutture ma non per questo meno omogenea; anzi è rispondente ai bisogni e alla convivenza della tribù. Predomina, invece, l’organizzazione a clan, come pure la discendenza patrilineare, in alcuni casi, con eredità al fratello minore, anziché al figlio del defunto. Molto evolute sono le società segrete, alcune delle quali dedite al culto dei morti. Gli antenati sono ricordati e venerati come coloro che hanno lasciato alle giovani generazioni la scienza del vivere e possono difendere dagli spiriti del male. La credenza in questi spiriti è ragione della paura e insieme delle pratiche magiche diffuse fra la gente. Anche per questo la religione cattolica fatica ad essere annunciata. Malgrado le aree fertili raggiungano il 21 per cento dell’intero territorio, solo l’1 per cento di esso è coltivato. L’agricoltura, primitiva, è rivolta soprattutto a far fronte ai bisogni alimentari locali. I principali prodotti sono: sorgo, miglio, mais, manioca, patate dolci, banane, arachidi, sesamo, riso. Alla donna sono affidati tutti i lavori nei campi, salvo il dissodamento; l’allevamento per ragioni climatico-ambientali, è limitato alla capra e al maiale. Le mandrie di bovini, scarsissime, si trovano, infatti, in poche zone di montagna. Inquadrato il contesto storico e ambientale in cui si muove il giovane religioso saveriano possiamo ora riprendere la lettura del suo diario.

Baraka, 21 gennaio 1961
Qui le cose non vanno troppo bene. Quando alla radio parlano di Kivu, è proprio la nostra zona, quando parlano di Bukavu, è il nostro capoluogo di Provincia. Fino ad oggi non abbiamo patito la fame, ma procurarsi il cibo sta diventando difficile. Latte, farina, tutto costa molto caro. Consumiamo riso con pesce e qualche pezzo di carne con pastasciutta. A proposito di pasta, un giorno il nostro cuoco ha domandato a padre Didonè come è fatta la pianta che fa i maccheroni. Ai nostri mori piace molto il “tumbo tumbo”, le budella degli animali. Ciò che a noi più manca, come al solito, è la verdura. Molti fatti sono accaduti in questo mio primo anno di permanenza in Africa; ben pochi, purtroppo, sono stati positivi per il Congo. Il comunismo dilaga. Sulla sua natura non dobbiamo farci illusioni, a meno che la Provvidenza Divina non ci venga incontro in forma straordinaria. Voi che siete in Italia, pregate per la pace di questo Congo. I soldati girano continuamente e sono il terrore di tutti i civili. Le lettere cominciano ad essere censurate. Fino ad oggi noi missionari siamo stati rispettati. La nostra attività, però, è limitata. Non ci possiamo esporre, per prudenza. Così, io economo e addetto alla cucina, attendo al pollaio. Padre Adriano ripara i motori: quello della camionetta e quello della barca con cui ci spostiamo sul lago. Padre Angelo Costalonga tenta di fare l’ortolano. Questi disordini ci fanno male. Avremmo molto da fare qui per i cristiani, soprattutto per quelli - e non sono pochi - sperduti in mezzo alla campagna senza assistenza religiosa, confortati solo dalla corona e dalla recita del Rosario. Qui a Baraka, l’altra notte, per questioni di terreno, sono scoppiati disordini fra tribù. Due uomini sono stati uccisi a colpi di lancia. È inconcepibile; e pensare che è così bello quando si parla amichevolmente con loro!

La gioia di soffrire per Cristo
Stendo queste righe a Bukavu, dove mi trovo, dopo avere vissuto un’avventura che mi ha consentito di raggiungere un traguardo da altri difficilmente eguagliabile: in una settimana ho passato tutte le prigioni da Fizi a Bukavu (che distano 250 km. l’una dall’altra). Ecco la cronaca dei fatti. Giovedì 2 febbraio 1961, a mezzo giorno, un elicottero delle Nazioni Unite atterra davanti alla finestra della mia camera a Baraka. Ne esce un militare che si dirige subito verso padre Adriano. In inglese gli chiede se vogliamo seguirlo per fuggire dal Congo. Naturalmente la nostra risposta è negativa. Nel frattempo tutti i ragazzi della scuola circondano l’elicottero per osservarlo da vicino. Il militare, preso atto delle nostre ragioni, si congeda e torna a bordo del velivolo, che pochi istanti dopo scompare dal nostro orizzonte. Verso le 15.30 giungono alla Missione un paio di vetture. Da esse scendono alcuni soldati che vengono a chiederci spiegazioni dell’elicottero e della lettera. I ragazzi della scuola avevano riferito a imprecisati informatori che il militare dell’ONU ci aveva lasciato un documento. La nostra casa è ispezionata in ogni angolo. Vengono trovati 160 litri di benzina, che sono immediatamente confiscati (ma la parola corretta è rubati). I soldati ci ordinano di salire su una camionetta. Ci fanno fare un giro per Baraka. Dopo un’ora ci riportano alla Missione. Entro in casa e il mio primo pensiero è di lavarmi. Non faccio in tempo ad uscire dal bagno che vedo un camion arrestarsi davanti alla nostra casa. Questa volta i soldati sono una ventina e piazzano mitragliatrici in vari punti strategici. Mi sto cambiando quando due militari aprono la porta della camera e mi fanno cenno d’uscire. Resisto, spiegando che devo vestirmi; e questo per ben tre volte, finché non mi danno il tempo di completare l’operazione. Rimontiamo, io e gli altri confratelli, sul camion che si dirige dritto verso il carcere. La prigione era larga 5 metri per 10, tutta buia. La luce veniva da quattordici feritoie larghe 7 centimetri per 10. Prima d’entrare dobbiamo subire una meticolosa ispezione personale. Nella prigione c’erano due muretti, alti circa 50 centimetri; sopra abbiamo posto delle tavole ed il letto è risultato subito “confortevole”. In mezzo c’era un corridoio e nel fondo un bidone per i bisogni comuni. Là hanno dormito i tre padri: Knittel (superiore), Adriano e Costalonga. Faceva loro da guanciale una coperta ricevuta dagli altri prigionieri (quattordici, nella circostanza); era evidente che puzzava! Verso le 19 sono venuti a prendermi e mi hanno portato in una cella di 4 metri quadrati, tutta per me. Due tavole, che affiancate non arrivavano a mezzo metro di larghezza, sono state il mio materasso, mentre per guanciale ho usato il casco. Verso le 22 mi hanno fatto rientrare nella stanza con gli altri e hanno messo un altro al mio posto. Si sono però subito pentiti e dopo un paio di minuti ognuno è tornato al suo posto: io nella cella angusta e l’altro nella stanza comune. Nell’occasione mi hanno ritirato il casco; così le mani messe sotto la testa hanno fatto da cuscino per tutta la notte. Nel cuore avevo una grande gioia, perché mi sentivo di far parte (ultimo dell’ultima fila) dei confessori della fede.

L’uomo cattivo
Alle 6 del mattino vengono a prendermi e mi conducono al lago: i miei guardiani mi ordinano di aiutarli a pulire la camionetta. Alcuni ragazzi della scuola, intenti a lavarsi, mi lanciano sguardi inquisitori, molto eloquenti. Non parlano, ma è come se mi chiedessero: “Perché sei prigioniero e, soprattutto, perché ti obbligano a lavare la loro macchina?”. Pulita la camionetta mi riportano alla prigione dove apprendo che i padri sono rientrati alla Missione. Chiedo di seguirli per poter fare la Comunione. Mi rispondono di no “perché sono un uomo cattivo”. Dopo circa un’ora, mi fanno uscire dalla cella e con la camionetta mi riportano alla Missione. Chiedo di mangiare. La prima risposta è un “no” secco; poi, però, un paio di guardie va a preparare un piatto e me lo serve in tavola. Mangio, mi cambio, dò alcune istruzioni ad un collaboratore della Missione, monto in vettura e mi riportano in cella. Verso mezzogiorno con gli altri padri mi ricaricano sulla camionetta: si parte per Uvira, destinazione Bukavu. Verso le 17 arriviamo alla Missione di Uvira, che dista una quarantina di metri dalla prigione. Ci danno il permesso di mangiare nella nostra casa, ma la notte dobbiamo passarla in carcere. Alle 20.30 entriamo in cella: è larga 1 metro e 45 centimetri ed è lunga 4 metri; non ha la finestra e non c’è neppure un bidone per eventuali bisogni fisiologici. Le guardie hanno compassione e ci lasciano la porta aperta. Quella notte, per tutti,ci sono stati messi a disposizione una lamiera come materasso, una stuoia e una coperta. Luogo e oggetti erano pieni d’insetti tanto che al mattino io sono uscito con mani, piedi e un occhio gonfi. Il mattino seguente ci autorizzano ad entrare nella nostra casa per consumare un po’ di cibo. Lì celebriamo la Messa e ho la possibilità di fare la Comunione. Alle 10.30, dopo un’ora di permesso, rientriamo in cella. Ci restiamo fino a mezzogiorno, ora in cui ci fanno risalire sulla camionetta con destinazione Bukavu. Nel capoluogo di provincia arriviamo attorno alle 6 del pomeriggio, dopo un viaggio pieno di sgradevoli episodi su cui non mi trattengo. A Bukavu il commissario ci conduce a parlare con il grande capo Kashamura, che non c’è. Allora ci portano dritto in prigione dove rimaniamo due giorni: da sabato a lunedì 6 febbraio. La prigione era un paradiso. Abbiamo trovato due materassi, senza lenzuola o coperta; ma verso le 22.30 un soldato dell’ONU ci ha portato da mangiare e due coperte per ciascuno. Lì abbiamo trovato guardie cristiane, d’animo buono. La domenica abbiamo fatto conoscenza con i prigionieri - una decina in tutto - delle celle vicine. Erano persone altolocate: direttori ecc...In questi giorni le persone per bene sono dentro e i delinquenti fuori! Il nostro caso è stato portato al Consiglio provinciale e deciso dal gran capo Kashamura. A trattare con noi è sempre venuto il ministro degli Interni. Lunedì, alle 9.30, la sua vettura è venuta a prelevarci dalla prigione e ci haportato nel suo ufficio. Dopo mezz’ora ci ha lasciati liberi di andare alla missione di Bukavu, meno padre Adriano, espulso dal Paese perché persona indesiderata. Padre Knittel resterà a Bukavu per qualche giorno e poi rientrerà in Europa per un periodo di riposo. Padre Costalonga ed io, per il momento siamo autorizzati a restare ad Uvira, in attesa che ci venga concesso un documento di libera circolazione. Per il momento, quindi, la Missione di Baraka resta chiusa, in attesa di tempi migliori. Addio a tanto lavoro fatto e a tante speranze! Dopo tante peripezie, però, noi non siamo stati picchiati come altri nostri confratelli.

Una cisterna per la missione
Baraka, 3 settembre 1961. Qui per il momento tutto è calmo. Anche i soldati non danno più noia. Il 23 agosto sono arrivati altri tre padri e un fratello. Il Vescovo ha deciso di fondare una seconda missione a Fizi, che dista circa 40 chilometri da Baraka. A noi resterà la parte del lago e a Fizi la parte della montagna. Padre Didonè che era qui a Baraka, ora si trova a Fizi per fondare la nuova Missione. Così Baraka sarà divisa in due e noi potremo intensificare il lavoro nell’area a noi più prossima. I confratelli di Fizi assisteranno i fedeli dei villaggi di montagna, mentre noi provvederemo a quelli che vivono lungo la costa del lago Tanganika, dove risiedono diversi protestanti e molti musulmani. A Katanga, villaggio a 12 chilometri da Baraka, stiamo costruendo una chiesetta di 6 metri per quindici. Stiamo usando mattoni cotti al sole e se i risparmi dei cristiani saranno sufficienti, la chiesetta verrà ricoperta con delle lamiere, altrimenti useremo delle erbe. In questo secondo caso, Gesù sarà il povero in mezzo ai poveri. Quando arriverà la camionetta (già ordinata: ma ancora non pagata) potremo andare là più spesso a celebrare la S. Messa. Intanto, qui a Baraka, sono dieci giorni che cavo pietre dal cortile davanti al refettorio per poter fare una cisterna che possa raccogliere una abbondante quantità d’acqua piovana. Ho un solo aiutante, un operaio ventenne che si professa protestante. Dice che vuole farsi cattolico,perché i protestanti, qui in Congo, proibiscono di fumare e lui fuma. Una volta c’era sempre un uomo che pensava a portare la legna e l’acqua ai padri, ma da quando il Congo ha raggiunto l’indipendenza non c’è più nessuno disposto a fare questo servizio, retribuito, s’intende. Io mi sono stancato di scendere al lago due volte alla settimana (nella stagione secca) per fare rifornimenti d’acqua. Dove sto scavando è tutta roccia che si spacca a pezzi. Quando si cammina per strada non si sente più gridare “P.n.p” (Partito nazionale del progresso), che i lumumbisti avevano soprannominato “Partito dei Paesi neri”. Era una grande offesa che rivolgevano ai bianchi e ai neri amici dei bianchi. Qualche mese fa quando volevano espellermi dal Paese, dopo la settimana di carcere, accanto al mio nome avevano posto la sigla “P.n.p”. Anche gli scout e i giovani saveriani (“xaveri”) sono stati minacciati più volte di finire in prigione se proseguivano nelle loro attività. Il mese scorso i soldati volevano imprigionare il loro capo perché vestiva l’uniforme kaki. Ho dovuto incontrare il vice amministratore della Provincia per sistemare la cosa. Mi ha domandato se non poteva cambiare l’uniforme. Gli ho risposto che non ero autorizzato, ma che poteva mettersi in contatto con il segretario generale dell’organizzazione a Bukavu o a Leopoldville. Ha avuto da ridire anche sui colori della bandiera, che sono bianco, giallo e rosso. A suo giudizio richiamano quelli della bandiera belga. A Baraka, comunque, tutto è calmo e noi possiamo continuare il nostro lavoro. Ogni tanto, quando passano i soldati, c’è un po’ d’agitazione. Ciò dipende dal fatto che Baraka confina con il Katanga (regione congolese controllata da Tchombe) e con il Burundi, Paese sotto la protezione belga.

Nostra Signora del Tanganika
Marzo 1962. So che in questo tempo di disordine il pensiero dei miei cari e dei confratelli che stanno in Italia è sovente a Baraka, in modo particolare per le notizie diramate dalla radio e dai giornali sulla morte di 22 missionari europei. Sono stati uccisi perché avevano la pelle bianca. In tutta la zona del Manyema è sempre stato così, anche al tempo della schiavitù. Se ci sono dei disordini è sempre dove si trovano dei Baluba o dei Bakusu. Le città di queste tribù sono Kindu, Kasongo e Kongolo. Kindu dista 1000 chilometri da Baraka, Kasongo 500, e Kongolo oltre 400. Qui è tutto calmo e il nostro lavoro è ripreso. La vettura che attendevamo è arrivata; questo ci permetterà maggiori e più rapidi spostamenti. Da quando abbiamo cominciato a celebrare la Messa vicino al Centro commerciale, molta gente si è avvicinata. Abbiamo trovato così il coraggio di chiedere un pezzo di terreno su cui costruire una casa per i Padri e una chiesa. Non sappiamo se riusciremo a superare le difficoltà che si presentano. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio; ciò che non riuscirà a noi lo farà il Buon Gesù. I confratelli che hanno avviato la Missione a Fizi sono soddisfatti, anche se vivono nella più grande povertà. In questi giorni di Quaresima facciamo il pellegrinaggio mariano e in ogni villaggio in cui esiste una scuola mettiamo una piccola statua della Madonna. A metà maggio ci saranno le Prime comunioni e i battesimi degli adulti con la conclusione del pellegrinaggio e la benedizione di una statua, alta due metri, che sono riuscito a prelevare da Uvira. Sarà collocata nel luogo dove dovrebbe sorgere la casa dei Padri. L’edificio in cui abitiamo attualmente diventerà la sede del collegio, inaugurato dal Ministro dell’Istruzione il 21 febbraio scorso. Il collegio è stato intitolato a Nostra Signora del Tanganika. Attualmente i ragazzi iscritti sono una quarantina. Il giorno dell’inaugurazione i nostri scolari hanno fatto una bella figura nel saggio ginnico.

I coccodrilli
In questi ultimi tempi, girando per i villaggi, ho potuto verificare qual è la situazione del Kivu. Nella nostra area è tutto calmo. Gli europei cominciano a rientrare. I soldati sono gentili e anche la popolazione è rispettosa. Negli uffici si parla con molta cordialità e tutti si preoccupano di venire incontro alle nostre esigenze. Se si aspetta qualche minuto c’è subito chi domanda di che cosa abbiamo bisogno. Per strada salutano. I magazzini cominciano ad essere riforniti, la benzina si trova senza difficoltà. Solo verso l’interno (Kasongo, Kabale) la situazione permane instabile. Là mancano benzina, nafta, acqua, luce; macchine e camion sono fermi ai bordi delle strade. I Padri, prima di rientrare nelle Missioni di quelle zone, attendono che ci siano maggiori garanzie di sicurezza. Il Signore ha voluto provare loro e noi: ha provato loro per far capire che hanno ancora bisogno dei bianchi; ha provato noi perché ci impegniamo con più amore (aldilà del profitto) ad aiutarli nello sviluppo, creando così uno spirito di famiglia e di cristiana carità. Se ci amiamo anche Lui ci amerà. Intanto anche i coccodrilli hanno incominciato a farsi vedere dopo anni che non si vedevano più. Come primo avviso si sono mangiati un uomo a 5 chilometri da dove vado sempre a nuotare io; dopo tre giorni a 7 chilometri verso Sud, hanno preso una donna, di cui si è trovato lo scheletro dopo tre giorni. Dopo questi fatti, tutti vanno a nuotare vicino al mercato dove c’è molta gente. I coccodrilli seguono gli uomini e si sono spostati verso il centro. Ieri sono andato a nuotare insieme a tre ragazzi: non ci si fida più ad andare da soli. Mi trovavo ad una decina di metri dalla riva, quando i ragazzi hanno cominciato a gridare: “Frera, kuna mamba, mamba, mamba...”. (“Fratello, c’è il coccodrillo!”). Mi sono mancate le forze. Il coccodrillo o un grosso pesce era a pochi metri da me... Anche in bocca ad un coccodrillo è una morte di carità: sfamare una bestia! Tra non molto ci sarà la processione delle Palme. Qui le palme non mancano. Prevediamo di dover dire la Messa all’aperto perché non abbiamo una chiesa degna di tale nome: i cristiani che vi parteciperanno saranno molti. Per la Settimana Santa e la Pasqua si faranno tutte le cerimonie: credo che questa sia la prima volta in tredici anni di storia della Missione di Baraka. Le stazioni della Via Crucis il Venerdì Santo saranno commentate da alcuni fedeli: ognuno di questi porterà la croce sulle spalle, come Gesù. Mercoledì partirò per Uvira per il ritiro spirituale del mese, poi mi trasferirò ad Usumbura dove acquisterò le divise per i ragazzi, scout e xaveri. Dopo Pasqua dovranno fare l’esame e la promessa per essere ammessi tra gli scout e l’associazione dei Giovani saveriani. Le difficoltà non mancano: calare il Vangelo nelle coscienze non è facile. Sono comunque persuaso che è valsa la pena di lasciare l’Italia per venire qui ad arricchire i fratelli neri della Grazia di Dio. Noi missionari siamo esigenti, qualche volta, forse, anche troppo. A ben pensarci non so quale italiano sarebbe disposto a rinunciare a tutto: vizi, abitudini, costumi, perfino alla propria religione, a non ascoltare i consigli dei propri genitori per seguire la fede di uno straniero, che per loro, non ha quasi mai amato gli uomini di pelle nera. Sento indispensabile la preghiera, di tutti i credenti del mondo, perché in questo tempo di risurrezione, la Mamma celeste interceda presso suo Figlio risorto affinché anche a Baraka, vi sia la vera risurrezione di Cristo Gesù.

Tutto e sempre, per la missione
Murhesa, settembre 1962. Mi trovo qui a Murhesa nel grande seminario di teologia a fare l’economo. Il padre superiore è partito per il Belgio, per un intervento chirurgico che, grazie a Dio, è riuscito. La sua convalescenza durerà un paio di mesi. Il Padre economo fa da superiore e io lo aiuto. L’8 dicembre farò la professione perpetua. Qui non ci sarà modo di solennizzarla come a Parma, ma la sostanza è la stessa. Questa professione è la mia consacrazione al Signore per tutti i giorni che mi restano ancora da vivere. Miei cari, pensate a questo passo ormai vicino, è una cosa seria. Solo Colui che mi ha chiamato a seguirlo, può darmi la grazia di seguirlo fino in fondo. A Baraka, intanto, sono arrivati quattro fratelli religiosi rwandesi per gestire le scuole del Collegio. Il prossimo mese dovremmo iniziare i lavori per la costruzione della chiesa. Il nostro vescovo è partito oggi per partecipare al Concilio Ecumenico Vaticano II. Questo mese ho scritto al Padre generale alcuni pensieri che riassumo brevemente. Dopo lunga riflessione e preghiera - gli ho confidato - ho deciso di fare la mia domanda per essere ammesso alla professione perpetua, sicuro che questa è la volontà di Dio, al quale ho consacrato la mia vita. Desidero che venga presto questo giorno per offrirmi a Gesù quale vittima di salvezza per le anime. Totalmente e irrevocabilmente di Dio per la missione, direbbe il nostro Fondatore, Mons. Guido Maria Conforti. Nella preghiera Gesù mi ha fatto capire che è meglio che sia io sacrificato a Lui, che Lui immolarsi nelle mie mani. Mai come oggi ho potuto capire la frase di Gesù: “Chi ha posto mano all’aratro, non si volga più indietro”.

Una casa per le suore
Kiringye, novembre 1962. Dopo tanti progetti e nomine sono stato mandato qui a Kiringye, in pianura. Anche se non c’è il lago Tanganika è una delle zone più belle della diocesi. Che cosa faccio qui? È semplice: sto costruendo una casa per le suore. Ho più di 30 operai che mi aiutano, ma qualche volta è difficile farli lavorare, anche se fra loro c’è qualcuno che si impegna ed è responsabile. È in auge anche qui, come in molte parti del mondo il proverbio che consiglia: “Non fare oggi tu quello che un altro può fare domani”. La maggior parte degli operai si dichiara protestante. Dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio sono sul trattore per trasportare pietre, sassi, mattoni, sabbia, terra. Alcuni giorni arrivo a fare undici viaggi. Per fortuna il fiume non è distante. La terra serve per fare il fango (“poto-poto”, in Kishwaili), che viene usato al posto della calce o del cemento, per la costruzione dei muri con i mattoni. I congolesi lo chiamano “il cemento del Signore” (“ciment ya Mungu”). Quando ho detto che costruivo con il “poto-poto”, uno degli ultimi missionari arrivati dall’Italia mi ha lanciato un’occhiata di commiserazione quasi fossi stato uno squilibrato. Per diverse settimane la pioggia ha rallentato i lavori che comunque ormai volgono al termine. Entro febbraio, comunque, le religiose potranno occupare la casa e questo ha fatto ricredere il mio confratello sulla tenuta del “poto-poto”. L’11 ottobre, giorno dell’apertura del Concilio, abbiamo seguito, via radio, i vari momenti della cerimonia: la S. Messa, il canto del “Veni Creator”, le litanie di tutti i Santi. La stessa voce del Papa si sentiva molto chiara. Ci siamo commossi nell’udire le parole di Giovanni XXIII ad una distanza di oltre 8.000 chilometri. Alle 10 del mattino dello stesso giorno, anche noi, assieme alle campane di tutte le cattedrali del mondo, abbiamo fatto rintoccare la nostra, sostenuta da due robusti pali che fungono da campanile. Felici auguri di un santo Natale a voi che siete in Italia e grazie per tutti gli aiuti che mandate in Missione (compresi gli indumenti, nuovi e vecchi).

L’ “ebrezza” del naufragio
Baraka, giugno 1963. Da poco più di quattro mesi sono di nuovo a Baraka con un compito preciso: assistere ai lavori di costruzione della chiesa e della casa dei padri. In pratica il vescovo mi ha nominato capomastro. Il mio ultimo atto a Kiringye, il 23 febbraio scorso, è stata la consegna delle chiavi della casa in cui hanno preso alloggio le suore. In questi mesi ho fatto spesso la spola tra Baraka e Uvira per procurarmi il materiale necessario alle costruzioni edilizie. Negli ultimi tempi il lago Tanganika è salito di un paio di metri e ha mangiato buona parte della strada lungo la costa tra Uvira e Baraka, perciò l’unica via di comunicazione è il lago. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, durante uno di questi spostamenti, ho provato l’ “ebbrezza” del naufragio. Verso le 15 di martedì 18 mi sono imbarcato ad Uvira (per raggiungere Baraka), proprio nel momento in cui le onde del lago cominciavano ad incresparsi. Finché c’è stata luce abbiamo potuto navigare, ma quando è scesa l’oscurità, neppure con il faro riuscivamo a vedere le onde. All’improvviso siamo stati colti da piogge battenti dai quattro punti cardinali. La barca ha cominciato a non tenere più: beccheggiava e rullava; e il timoniere ha perso l’equilibrio. Per fortuna eravamo vicini alla riva. Il capitano (e proprietario del natante) ha preso il timone e in dieci minuti ci ha portato tra le erbe (matete), che sono simili a canne di bambù acquatiche. Verso le nove della sera abbiamo tentato di riprendere la navigazione, ma il temporale ce lo ha impedito. Così abbiamo trascorso la notte in mezzo al lago, riparati da un tetto di lamiera, mentre l’acqua entrava da ogni parte. Bagnati fino al midollo siamo arrivati al pontile di Baraka il giorno dopo,mercoledì, attorno a mezzogiorno. In condizioni normali la navigazione non sarebbe durata più di quattro ore. Se siamo salvi dobbiamo ringraziare la Madonna e l’Angelo Custode. Per quanto riguarda la chiesa di Baraka - che, in base al progetto, sarà lunga 32 metri, larga 14 e alta 6, al centro e 5 ai lati - il 23 maggio scorso, ne abbiamo benedetto la prima pietra. Nelle scorse settimane, sempre in qualità di capomastro, ho pure provveduto a completare la casa di alcuni maestri che insegnano in un villaggio di montagna. Per due giorni abbiamo dovuto lavorare per aprire un varco alla camionetta, carica di materiale, la quale doveva avanzare su un terreno accidentato e coperto da una fitta vegetazione. Abbiamo fatto il possibile, ma ci siamo dovuti arrendere ad una distanza di circa 30 minuti a piedi dal villaggio. Da quel luogo, infatti, la natura del terreno non consentiva proprio più di procedere con la jeep. Di là, quindi, gli operai partivano chi con una tavola, chi con due lamiere (manjanje), chi con altro sulla testa e portavano il tutto fino all’erigenda casa nei pressi della scuola. Ogni giorno si dovevano fare almeno cinque viaggi, le donne d’ogni età portavano sulla schiena, nei loro cesti, un sacco di cemento di 50 chilogrammi e ogni sacco era retribuito con 700 grammi di sale. Povere donne! Per avere il sale si contendevano i sacchi. In Congo gli uomini non lavorano tanto, ma le donne fanno delle vere vitacce.

Fra timore e speranze
Baraka, 25 dicembre 1963. Oggi è il santo Natale. Come è bella la festa della nascita di Gesù. Anche qui i cristiani sono venuti un po’ da tutte le parti: c’è chi ha percorso 100 chilometri per passare questa importante giornata assieme ai cristiani di Baraka, i quali per l’occasione offrono sempre da mangiare agli ospiti. In questi ultimi giorni il lavoro è stato molto, ma nel vedere i cristiani che venivano da tanto lontano non si è pensato alla stanchezza. Abbiamo fatto anche il presepio: qualche statua e qualche montagna. Una cosa molto semplice perché mancava anche la grotta: abbiamo messo Gesù in una insenatura di una vallata. Il 4 di questo mese ho fatto un viaggio fino ad Albertville, con la barca a motore recentemente acquistata. Sono stati tre giorni di andata e tre di ritorno, sempre in barca: acqua, acqua, acqua. Abbiamo sempre costeggiato. Baraka-Albertville sono 34 ore di navigazione senza sosta. Come viaggio è stato magnifico, grazie al bel tempo. Lungo quelle coste è tutto montagna e foreste; e, di tanto in tanto, qualche capanna, che ha per strada l’acqua del Tanganika e per vettura, la piroga. La gente che abita lungo le coste è semplice e basta poco per renderla contenta. A noi religiosi fa male vederla così dispersa in luoghi dove non c’è mezzo d’insegnare loro ad amare di più Gesù. Ci sono anche dei cristiani, ma poche volte hanno modo d’incontrare un Padre e di sentire la Parola di Dio. Certo che il Signore userà per loro un’altra misura rispetto alla nostra. Ultimamente ho ricevuto 15 tonnellate di cemento (300 sacchi), per la costruzione della chiesa. Con questo materiale spero proprio di arrivare a buon punto.
Uvira, 7 maggio 1964. Mi trovo qui di passaggio: erano già cinque mesi che non venivo nella città sede vescovile. Qui ho trovato l’occorrente per il prossimo mese. Forse in Italia giungono, via radio, notizie di questi luoghi e dei disordini provocati dal Movimento dei giovani mulelisti. Non ci si deve impressionare poiché hanno promesso che ai Padri delle Missioni e ai bianchi non faranno niente. Stanno lavorando per instaurare un vero sistema comunista. Quello che impressiona è quando si ubriacano perché perdono la ragione. I Padri della Missione di Mulenge, centro dei rivoluzionari, sono scappati l’altra notte. Hanno percorso i 100 chilometri a piedi attraverso montagne. I due Padri che sono andati alla ricerca dei fuggiaschi sono stati bloccati dal Movimento e da due giorni non si hanno più notizie di loro. Non si è preoccupati delle percosse che possono essere state inflitte loro, ma del fatto che non hanno provviste di cibo con loro. Si nutrono speranze che siano stati riportati alla Missione di Mulenge, perché i rivoluzionari non vogliono che i padri lascino la Missione vuota. Che parenti e amici a casa, in Italia, si ricordino, nelle loro preghiere, di noi che viviamo con il cuore sospeso in questo tempo di crisi. Da noi a Baraka, è tutto calmo, anche se ci aspettiamo, da un momento all’altro, l’arrivo dei rivoluzionari. Speriamo che riescano a smorzare in fretta i disordini. A me sembra che sia tutta questione d’invidia e di potere. I Mulelisti non sono arrabbiati contro di noi; sappiamo, però, che cosa ci aspetta una volta che raggiungessero il potere: fare le valige e partire. La loro ignoranza è tale da renderli paurosi; hanno sempre paura d’essere imbrogliati. Anche la gente più semplice e buona ci casca dentro innocentemente. I lavori della chiesa proseguono lentamente. Se al Buon Dio piacerà, verrà il giorno in cui sarà finita. La città di Usumbura ha cambiato nome, ora si chiama Bujumbura. Mi auguro che per tutte le notizie che giungono in Italia via radio o per posta i nostri cari non piangano; confido solo che ci ricordino nelle preghiere, affinché Dio sia glorificato e dia a noi la forza di testimoniare la sua gloria. Il Padre Superiore, in attesa degli avvenimenti, si ritirerà nel vicino Burundi per 15 giorni. Si ha buona speranza che tutto si risolva in bene, ma abbiamo molti interrogativi in proposito.


Tempi di alta tensione
A questo punto il diario di fratel Faccin si fa più fitto. Riporta una serie di lettere incalzanti - tutte indirizzate ai famigliari - le quali documentano una situazione ogni giorno sempre più difficile per i Missionari Saveriani.
Baraka, 10 giugno 1964.
Carissimi, spero che questa mia vi arrivi. I “bravi” sono arrivati; noi non siamo stati toccati. Hanno preso, però, tutto: dalle macchine, compresa la bici (ora restituita), alla barca. Hanno promesso che ci verrà restituita ogni cosa. In questi giorni ci mandano delle guardie notturne per la nostra protezione. È un segno di delicatezza. Una cosa è chiara: tra di loro si sgozzano come capre. La tensione è sempre alta. Pregate affinché il nome di Gesù sia glorificato e la Mamma celeste ci protegga.
Baraka, 19 giugno 1964.
Carissimi, qui si vive. Da qualche giorno hanno terminato di sgozzare, ma continuano dalle parti di Albertville e di Bukavu. Mentre vi scrivo fuori dalla porta ci sono undici guardie che conversano fra di loro. Sono tutti bravi ragazzi: peccato che siano ingannati dalla dottrina cinese. Sono rimasto solo con il Padre Sartorio. Mai come in questi giorni ci siamo sentiti soli. Ciò che ci fa pensare di più è che non si vede una via di scampo per un futuro prossimo miglioramento. Pregate per noi e per questi poveri cristiani che si perdono per essere ingannati.
Baraka, 30 giugno 1964.
Carissimi, i nostri guardiani sono sempre fedeli, varia il numero: sette, sei, cinque, tre. (...) L’atmosfera è sempre tesa. Per il momento non sembra che ci sia molto pericolo per noi. Una cosa è certa: che è molto difficile conoscere le loro intenzioni.
Il grande capo è passato da Baraka la scorsa settimana e nel discorso ha detto che tutti i missionari possono restare al loro posto per il bene delle scuole ad una condizione: che non si mettano nei loro affari interni. Non si sa che cosa intendano con questa frase dato che il V e il VII comandamento sono completamente sconosciuti a loro. La chiesa non è finita, ma è comunque accogliente e idonea al raccoglimento e ad una certa devozione. (...) All’inizio del mese anche l’acqua è arrivata alla Missione attraverso una tubazione di 2.300 metri. È un lavoro che mi è costato sudori e critiche, ma, una volta terminato, tutti si sono complimentati. (...) Ieri abbiamo cominciato a fare dei grossi mattoni cotti al sole per la costruzione di una piccola casa (la casetta piccolina in Canadà) vicino alla chiesa in riva al lago Tanganika. (...) Pregate per i nostri cristiani che sono provati fortemente nella loro fede a causa di certe pratiche pagane.

Sete di libertà
Baraka, 5 agosto 1964
Carissimi, qui siamo calmi, io continuo la costruzione della casa cominciata 15 giorni fa e fatta con mattoni crudi. (...) I rivoluzionari continuano a guadagnare terreno: quando finirà ? La nostra vita è nelle mani della Mamma celeste. Pregate per noi e per i nostri cristiani che sono in una dura prova. A voi tutti il mio abbraccio a Gesù e Maria.
Baraka, 22 novembre 1964.
Carissimi, abbiamo sete di libertà, ma questa quando sarà ? (...) Io sono assieme al Padre Luigi. Tutti i miei compagni, uno alla volta, sono partiti e sembra che siano in Italia. La Mamma celeste che fino ad oggi ci ha assistiti in una forma miracolosa continuerà ad assisterci. Sono certo che usciremo salvi. Le vostre preghiere sono bene accette in Cielo. Continuate a pregare per questa povera gente. Versate le vostre lacrime ai piedi della Mamma celeste, madre degli Apostoli. Pregate. Un abbraccio a tutti: babbo, mamma, fratelli, sorella, nipoti, cognati. Vostro in Gesù e Maria.


Non lascio solo mio fratello
Dopo questa lettera, il silenzio: diario e corrispondenza tacciono. Arriverà la cruda notizia della morte. I particolari si conosceranno solo molti mesi più tardi, grazie al rinvenimento della salma, nel gennaio 1966, ad opera di padre Palmiro Cima. Gli ultimi attimi di vita del giovane missionario sono stati ricostruiti sulla base di testimonianze rese da alcuni abitanti del luogo. Sono circa le nove del mattino del 28 novembre quando, con un forte stridore di freni, una jeep guidata da un capo guerrigliero, tal Abedì Masanga, si arresta davanti alla casetta dei Padri, a fianco della chiesa. Fratel Faccin, già al lavoro da due ore, è nella sua stanza, ancora senza vetri e senza pavimento, quando ode il vociare confuso e sguaiato di alcuni Simba avanti all’uscio. Convinto di riuscire ad allontanarli, come aveva fatto altre volte in passato, egli esce.
Masanga se ne sta in disparte accanto alla vettura, mentre sette o otto Simba lo circondano. In modo pretestuoso il capo guerrigliero gli contesta l’uso della “fonì”, la fantomatica radio con cui i Missionari informerebbero le truppe regolari sugli spostamenti dei rivoluzionari. Fratel Faccin lo lascia sfogare presumendo che la sceneggiata si sarebbe conclusa, come le precedenti, con una richiesta di denaro. Questa volta, invece, Masanga non si placa; anzi, con un’ira mai mostrata in precedenza, ingiunge al religioso di salire con lui sulla jeep. Fratel Faccin ubbidisce pensando fra sé e sé che, dovendo passare davanti alla chiesa, avrebbe potuto avvertire padre Luigi Carrara di ciò che stava accadendo. Il conducente avvia la jeep e Masanga segue a piedi con gli altri guerriglieri. Giunti davanti alla chiesa fratel Faccin cerca di guadagnare tempo e comincia a tergiversare. I guerriglieri scendono dalla vettura lasciandolo solo. Il capo guerrigliero dice che proseguirà con lui fino alla Missione di Fizi.
Fratel Faccin comprende allora che l’irreparabile sta per accadere. «Non posso lasciare solo padre Carrara a Baraka» risponde, mentre tenta di aprire la porta per scendere. Sono le sue ultime parole. Ha già messo il piede destro sul terreno quando Masanga gli punta la pistola al petto e lascia partire tre colpi in rapida successione. Fratel Faccin cade riverso sul sedile, rantolando. Masanga si accanisce nuovamente sull’indifeso missionario e gli scarica addosso altri colpi, convulsamente. Poi ordina ai suoi uomini di trascinare sul terreno il corpo della vittima e comanda al conducente di rimettere in marcia la vettura.
Padre Carrara, intento a confessare alcune anziane, ha visto e sentito tutto. Si avvia verso il capo guerrigliero con addosso la stola violacea in uso per le confessioni. «Ti porto a Fizi per ucciderti con gli altri Padri», gli grida colmo d’ira, Masanga. «Se mi vuoi uccidere, preferisco morire qui accanto al mio Fratello», gli risponde sereno il missionario che s’inginocchia accanto al cadavere di fratel Faccin. Altra esplosione di colpi a bruciapelo e il secondo omicidio è compiuto. Perché tanta ferocia contro uomini inermi? Per non perdere il controllo dei seguaci da parte di un capetto della rivoluzione tanto rozzo quanto sprovveduto. Tre giorni prima, infatti, nel corso di una fallita imboscata a forze regolari spalleggiate da mercenari di grande esperienza militare, il gruppo di Masanga aveva perso settecento Simba su mille. Dovendo giustificare il clamoroso insuccesso, il capetto rivoluzionario non aveva saputo trovare miglior giustificazione che accusare di spionaggio (attraverso la famosa quanto inesistente “fonì”) i missionari saveriani. È una storia vecchia quanto l’umanità : uccidendo il capro espiatorio si placano gli animi e ogni cosa torna al suo posto. Ha scritto il cardinale Ersilio Tonini che “i missionari sono folli perché c’è dentro di essi la follia dell’amore di Dio. Quella follia che ha portato il Padre a mandare il Figlio per prendere in prestito delle mani da lasciare inchiodare, un capo da lasciare penetrare dalle spine e delle ossa da lasciar triturare”. Fratel Faccin è uno di quei folli che ha avuto il petto e le ossa triturate.


Autore:
Alberto Comuzzi


Fonte:
Santa Sede

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Aggiunto/modificato il 2024-08-16

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