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Padre Valeriano Cobbe Missionario saveriano

Festa: Testimoni

Camisano vicentino, Vicenza, 14 gennaio 1932 – Jessore, Bangladesh, 14 ottobre 1974


La guerra e il seminario
Sangue ed acqua dal costato di Cristo in croce. Sangue ed acqua ha donato al Bangladesh il missionario saveriano Valeriano Cobbe, ucciso il 14 ottobre 1974 da una banda di ladri, dopo dodici anni di servizio ai poveri. L'acqua dei pozzi scavati per vincere la sete degli uomini e della terra. Il suo stesso sangue.
Nasce il 14 gennaio 1932 a Camisano Vicentino (Vicenza - Italia), Veneto, figlio di Antonio e Teresa, fratello di Severina, Maria, Francesco, Giovanni e Gaetano. Famiglia numerosa e povera. Il papa' fa il cocchiere per certi signori del posto, ma ha gia' provato altri mestieri, come il tipografo e il muratore, poi c'e' stata la guerra di Libia. Quando i figli diventano troppi la famiglia si sposta un po' fuori citta', ai Pomari, in campagna, tra il Brenta e il Tesina, e li' restera' per trentacinque anni. Lunghe giornate di lavoro per mamma e papa'. E quella frotta di bambini da crescere. Con amore si', ma anche con severita': in casa ci sono delle bacchette che, a volte, servono ai genitori per far rigar dritto i figli. Che debbono contribuire anche loro ai bisogni della famiglia. Valeriano, fratelli e sorelle intrecciano cesti di vimini, spigolano il grano, raccolgono le patate, aiutano nei campi, vanno in cerca di rane. Lui e' un tipo deciso, grintoso, robusto, sempre di corsa, ma pure generoso e sensibile. Non ci sono tante notizie sulle sue imprese scolastiche. La domenica, messa, catechismo e oratorio.
Tra i suoi ricordi d'infanzia c'e' la guerra, il secondo conflitto mondiale, i rastrellamenti di fascisti e tedeschi, gli sbandati da proteggere, le rappresaglie, gli aerei e la contraerea. Un giorno d'inverno Valeriano vede morire un compagno di giochi, colpito da una granata. Non dimentichera' la neve arrossata dal suo sangue. E' il 1943 e Valeriano Cobbe, undicenne, decide di andare in seminario. Percio' ogni mattina, in bicicletta, va a Lerino, alla scuola parrocchiale di don Giuseppe Stella. Ci sono i bombardamenti, piu' volte gli aerei gli passano sulla testa, ma lui va, con "assiduita' e impegno", ricordera' il suo maestro. Un giorno a Camisano arriva un missionario. Predica, domanda preghiere, vocazioni, soldi. E Valeriano Cobbe accetta la sfida. Diventera' missionario saveriano, la congregazione fondata a Parma dal vescovo Guido Maria Conforti, futuro beato. Il 12 settembre 1950 - diciottenne - pronuncia i voti di poverta', castita', obbedienza e missione. Due anni dopo, con altri quattro studenti, parte da Livorno sulla nave Maria Cristina. Destinazione gli Stati Uniti. I Saveriani vogliono aprirvi una casa, hanno il sostegno dell'arcivescovo di Boston, cardinale Richard Cushing. In quello stesso 1952 i figli del Conforti iniziano la missione nel Pakistan Orientale.

Voglia di missione
2 febbraio 1957: Valeriano Cobbe e' ordinato prete. Lo nominano vicerettore ed economo della casa di Petersham, sempre negli Stati Uniti. Aiuta anche i parroci vicini. Ma ha voglia di missione. Cosi' scrive al superiore generale padre Giovanni Castelli, il 2 ottobre 1957: "Ho sentito che avremo presto una nuova missione nel Congo Belga. Se lei non sapesse chi mandare, le faccio presente che io ho una testa abbastanza dura per resistere al sole africano; ho dei bei muscoli e dei buoni denti per potere camminare e masticare la carne cruda, scottata nell'acqua; ma soprattutto sento un desiderio indistruggibile di voler spendermi per coloro che non conoscono ancora il Vangelo, soprattutto per i piu' poveri, i piu' ignoranti, per coloro che per essere conquistati esigono il sacrificio lento e duro della mia vita".
Niente Congo Belga, il contadino testardo deve ancora attendere. Cinque anni dopo, il 3 ottobre 1962, trentenne, sale su un aereo che lo porta in missione. Ma non in Africa. La sua destinazione e' la sperduta Khulna, nel Pakistan Orientale, il lontano, misterioso e affascinante Bengala. Si trova immerso nella miseria piu' nera. Scrive subito al Superiore generale: "E' quasi scoraggiante vedere tanta gente piena di fame e miseria a cui non si puo' neppure pensare di parlare di religione, perche' il loro problema e' quello di cercarsi un po' di cibo. Khulna poi e' stata dichiarata anche dal governo la zona piu' depressa di tutto il Pakistan. E' consolante pero' trovarsi qui con gli altri confratelli.
A volte la fatica li rende un tantino insofferenti, ma lavorano cosi' tanto e con cosi' grande sacrificio che augurerei a tutti i padri di potere venire in missione per partecipare aquello che chiamerei eroismo dei nostri confratelli. Qui si deve accettare anche il sacrificio di vedere la gente morire di fame, perche' non si e' in grado di dare loro il pezzo di pane di cui hanno bisogno. In altre parole il sacrificio diventa naturale, necessario per tutti. La ringrazio di avermi mandato qui e spero di starci almeno quarantaquattro anni come una suora che ho incontrato a Jessore non molto fa". Non ci stara' tanto a lungo, ma eguagliera' l'eroismo che ammira nei confratelli. Fino al martirio.

Mettere insieme le forze
Studio della lingua, poi, un anno dopo, lo mandano a Baniarchok, villaggio di pescatori, insieme a padre Antonio Alberton, uno dei pionieri della missione pakistana. Si mette al lavoro con entusiasmo. Ma non e' facile. E lui scrive a don Giuseppe Stella, il suo antico maestro di Lerino, il 27 ottobre 1963: "Qui abbiamo circa 1.500 cristiani e ce ne potrebbero essere tanti altri se si potesse preparare qualche catechista ed aprire qualche altra scuoletta o una chiesetta. La nostra scuoletta che va fino alla terza elementare e' tutta a nostre spese.
Quando siamo andati dal Vicario Generale per chiedere qualche aiuto egli ci ha risposto: Se non potete tenerla aperta non vi rimane altro che chiuderla, la diocesi non puo' assolutamente aiutarvi. Invece di chiudere, io vorrei portarla subito fino alla quinta elementare. Possiamo avere poche speranze di educare i vecchi, ma i giovani ed i ragazzi sono le speranze della Chiesa di domani, ed e' una cosa impensabile non fare di tutto per educarli cristianamente. Naturalmente le famiglie di questi ragazzi non possono dare niente. Le do un esempio.
Qui a due passi c'e' una famiglia che sono andato a trovare ieri. Sono in nove persone, otto figliuoli e la madre. Il loro babbo mori' due anni fa. Faceva il pescatore. Il piu' grande dei figli ha quindici anni e va a pescare. La principale entrata della famiglia sono dieci rupie al mese, cioe' circa 800 lire. Ed ecco cio' che capita quasi ogni giorno. Uno dei figli va al mercato e compera due chili di farina bianca che costa meno del riso ma non piace molto ai bengalesi. La mamma la impasta con l'acqua e poi spalma questa specie di colla su una piastra arroventata. Questo e' il pasto di tutta la giornata per la famiglia. Se il parroco non venisse incontro con altre dieci rupie al mese sarebbe la disperazione. Attorno a noi c'e' gente ancora piu' miserabile. Come si puo' chiedere loro un contributo perche' mandino a scuola i ragazzi?
Per il momento facciamo scuola in chiesa, ma speriamo presto, con qualche mezzo di fortuna, di costruire due o tre stanzette di paglia perche' il fare scuola nella chiesa non sembra davvero l'ideale. Qui io sto molto bene e mi trovo proprio nel mio campo. Ho gia' iniziato una visita metodica alle famiglie. Voglio conoscerle bene e soprattutto spero, con la grazia del Signore, di aiutarle spiritualmente. Ma come posso dimenticare le condizioni materiali in cui vivono? Per questo vorrei unire i nostri cristiani in cooperativa, mettere insieme le loro forze, insegnare loro a pensare anche per il futuro. Tutte cose non facili per gente che e' vissuta per millenni sotto padroni che hanno dato si' e no il necessario per vivere. I nostri cristiani sono quasi tutti convertiti dall'induismo. Questa zona a prevalenza indu' offre un campo di lavoro piu' facile che non in altre zone della diocesi. Ci sembra che la Parola di Dio trovi maggiore accoglienza tra gli indu' che non tra i musulmani".
Scuola, visita alle famiglie, cooperativa: un bel piano pastorale per il giovane missionario dalle spalle robuste e dal cuore generoso. Ma, certo, la croce e' pesante, come testimonia un'altra lettera di padre Valeriano, del 23 novembre 1963, al parroco di Camisano Vicentino: "Qui in Pakistan si soffre molto e si soffre volentieri. Si soffre per vedere la gente povera, senza mangiare, nuda, ineducata, sporca. Si soffre nel vedere come questa gente sia ancora cosi' lontana dal sentire il bisogno di trovare la via piu' sicura per raggiungere Dio. Si soffre soprattutto perche' essi cercano le nostre ricchezze materiali (che non abbiamo) e neppure sospettano o desiderano le immense ricchezze spirituali che potrebbero ottenere a mezzo nostro. Si soffre volentieri perche' e' facile patire la fame con chi gia' la patisce ed e' pure facile spartire il cibo con gente che non ha nulla di che mangiare. Ma - conclude - non avverra' mai che io mi scoraggero': ci vorrebbe altro! Moriro' piuttosto mille volte sulla breccia".

Per gli altri tutto il santo giorno!
"Caro Valeriano, ti vogliono a Khulna come amministratore". Dopo un solo anno a Baniarchok, padre Cobbe deve lasciare sogni, progetti e fatiche per obbedire ai superiori. "Mi pare una fuga in Egitto", commenta. Dalla barca sul fiume benedice la suagente. E va, senza storie. Anche se l'attende un lavoro d'ufficio in vescovado. "Cobbe, cosa fai qui a Khulna?", gli domanda qualche confratello malizioso. Fare l'amministratore diocesano e' certo incarico di prestigio, ma in quelle terre di missione c'e' bisogno di gente da prima linea, non di imboscati. Lui si sente utile anche li', tanto che scrive al superiore generale il 2 aprile 1964: "Mi sono subito messo al lavoro. Mi alzo alle 5,30 e vado a letto verso mezzanotte. La parte interessante di questo ufficio e' che spendo tutto il santo giorno per gli altri. Soltanto la sera, cioe' il tempo della preghiera, per me. Di solito le cose che faccio sono piccole ed insignificanti: imbucare lettere, prendermi cura del frigorifero a petrolio e della jeep, preparare le camere per i confratelli di passaggio, essere pronto ad accettare le loro osservazioni, i desideri e gli ordini del vescovo. Compero per i confratelli cemento, ferro ed altre cose. Mi prendo cura delle loro spedizioni e delle loro carte. Il caldo asfissiante impedisce, pero', di lavorare quanto si vorrebbe. Certi pomeriggi casco proprio dal sonno e dalla stanchezza. Tutte cose che faccio molto volentieri soprattutto per salvarmi l'anima ed anche perche' mi pare di essere fino a questo momento di qualche aiuto ai confratelli. Di quando in quando faccio dei lavori per loro e mi preoccupo di essere ospitale al massimo".
In quell'aprile del '64 padre Valeriano Cobbe vede con i suoi occhi, per la prima volta, la devastazione e la disperazione lasciate da un ciclone che colpisce parte della missione: "Alcuni villaggi sono letteralmente spariti dalla carta geografica e si deve pensare a migliaia di morti. La forza del vento era cosi' violenta che si trovarono dei morti appesi ai rami degli alberi contro cui erano stati scaraventati". A dicembre di quello stesso anno partecipa con alcuni confratelli al Congresso Eucaristico internazionale di Bombay. Ospite d'onore papa Paolo VI Montini. Tra la folla c'e' anche una piccola suora con il sari bianco bordato di blu, attorniata dalle sue figlie spirituali. E' madre Teresa di Calcutta, che gia' compie miracoli di carita' in quell'immensa citta' traboccante miseria.

A riposo, ma non troppo!”
Due anni dopo, alla fine del 1966, padre Valeriano chiede al Superiore generale di poter tornare tra la povera gente: "Qui io lavoro troppo e non credo che ce la faro' a tirare avanti in questo lavoro per molto tempo". Prima una pausa in Italia. Con l'aereo sorvola Goa, dov'e' sepolto san Francesco Saverio, evangelizzatore delle Indie, cui s'e' ispirato il fondatore dei Saveriani monsignor Conforti.
Si domanda: "Cos'avrebbe fatto lui, al mio posto, in cinque anni!". La vacanza italiana non e' di tutto riposo. Padre Valeriano corre qua e la' a parlare della missione, a suscitare solidarieta', a incontrare benefattori. Quando parte per la terza volta da casa, salutando i genitori, i fratelli - la sorella Maria e' diventata lei pure suora missionaria - sente piu' lancinante il dolore del distacco. Come se intuisse di avere ancora poco tempo. Scrivera' da Jessore l'11 novembre 1967: "Sento un dovere tutto particolare di ringraziarvi, papa' e mamma, per tutto cio' che avete fatto durante i tre mesi trascorsi a casa. Sono stati tra i piu' belli della mia vita e li ricordero' sempre anche con nostalgia. RingraziateGaetano, Giovanna e la Lina per il fraterno e gentilissimo aiuto che mi hanno dato in moltissime occasioni. Ricordo in modo particolare le passeggiate, l'auto, i doni, i viaggi che ho fatto, i pranzetti e i brindisi, ma soprattutto la vostra pazienza e comprensione. Non vi ho forse mai dato esempi di virtu' eroica, ma spero avrete capito che il sacerdote e' umano ed ha le debolezze degli uomini. Del resto, si diventa migliori solo a condizione di sforzarci ogni giorno di imitare il Signore come ci viene descritto dai Vangeli e dalla Chiesa".

Attento a dove metti i piedi
"Non occorre che tu apra le valigie. Abbiamo pensato di mandarti a Shimulia con padre Veronesi". Il vescovo monsignor Battaglierin lo accoglie cosi' al suo ritorno in Pakistan. E padre Cobbe, trentacinque anni, riparte, ricomincia. Shimulia non e' un posto facile, c'e' tanta miseria. Ma c'e' anche un gigante buono dalla barba profetica ormai grigia, il saveriano di Rovereto padre Mario Veronesi, cinquantacinque anni, scavato nelle rocce del suo Trentino. E a Shimulia un giorno arriva un missionario su una Laverda 200.
Padre Valeriano Cobbe e' pronto per la nuova sfida della fede e dell'amore. Quanto sia difficile e dura la vita da quelle parti lo tocca subito con mano. Ma non perde certo l'allegria, tanto che il rapporto che manda agli amici il 15 dicembre 1967 ha anche qualche nota spiritosa: "La mia casa e' una reggia: una chiesa vecchia di piu' di cento anni fatta con calce e mattoni cotti sul posto con la legna. Ho un armadio di legno, un tavolo fatto con due casse venute dall'America e un letto di tavole. Condivido la stanza con alcuni topi, molti insettie qualche serpe che passa quasi tutto il tempo sotto il pavimento. Di giorno ho la luce del sole e di sera quella di una lampada a petrolio. Il primo consiglio che i cristiani mi hanno dato e' stato quello di guardare sempre dove metto i piedi sia la sera che quando mi alzo da letto. Qui la nostra comunita' e' molto buona e pia: ha una fede semplice ed ama professarla con devozione. Cio' che fa spegnere il sorriso sulla bocca e' la loro grande miseria materiale".
Gia', la miseria, la fame, l'ignoranza, le devastazioni naturali. Padre Cobbe forse si sente impotente davanti a tante difficolta'. Ma un po' la fede, un po' l'amore, un po' la fantasia, oltre all'aiuto, al consiglio, alla guida di padre Veronesi, gli danno il coraggio, anzi l'audacia di affrontare i problemi e di non arrendersi mai, qualunque sia la difficolta'. Bisogna strappare alla terra piu' frutto, per far lavorare e mangiare quella povera gente. Ci vogliono dei pozzi. E lui li fara'. Chiede aiuto a un amico: "Ti mando queste righe per disperazione - scrive il 24 settembre 1968 - mi sono messo in testa di trovare una via di uscita per la nostra parrocchia di Shimulia che si trova in uno stato impossibile a descriversi e forse ho trovato questa via con l'aiuto di alcune buone persone. Con l'offerta di quindici milioni sto realizzando un piano di irrigazione mai visto qui e mai concepito in quest'area. Ho gia' un pozzo completo ma non riesco a trovare la somma necessaria per il secondo pozzo. Mani tese di Parma mi ha promesso i motori di tutti e due i pozzi. Sono gia' riuscito a comperare una pompa, ma non trovo i benefattori per la seconda. Costa un milione e ottocentomila lire. E' una pompa a turbina speciale che potra' dare acqua a cinquecento campi. Sono disperato ed un disperato chiede a volte cose impossibili, ma ho pensato di battere alla tua porta sperando di non ricevere un rifiuto. E' dura per noi trovare benefattori e mandare avanti le nostre opere, ma ti assicuro che e' molto piu' duro vedere la gente morire di fame, dopo averla vista cedere un po' per volta e rinunciare alla lotta e perdere tutta la dignita' umana e cristiana che aveva".

Il Sessantotto in Bengala”
Cosi', un giorno del '68, mentre nel ricco Occidente i giovani scendono sulle piazze a reclamare attenzione, diritti, liberta' fino all'eccesso, in uno sperduto villaggio bengalese il saveriano padre Mario Veronesi, solennemente vestito con cotta e stola, benedice il primo pozzo della zona. Benedice il cippo che porta scritto Isshorer dan, dono di Dio. Benedice l'acqua che sale da duecento metri sotto terra. Benedice la speranza di quei poveri che fanno festa e quella del suo confratello padre Valeriano Cobbe, ideatore, promotore e realizzatore di quella piccola, straordinaria opera, piu' rivoluzionaria di tutte le imprese dei sessantottini d'Occidente.
Ma ecco un'alluvione mettere in ginocchio due terzi del Pakistan Orientale. Un brutto colpo per Shimulia e per padre Cobbe, che scrive alla rivista missionaria della sua diocesi, Vicenza: "La maggioranza prende queste cose con molta rassegnazione cristiana e cio' e' dimostrato dal fatto che quasi tutti vengonoalla Messa ogni mattina e cantano e pregano con fervore. Oltre che sperare nella Provvidenza i contadini sperano molto nel piano di irrigazione che si sta realizzando. Si fanno degli incontri quasi ogni sera e si discute sul metodo e sul lavoro che si deve fare".
Lui pero' ha bisogno di riposo: l'alluvione, i pozzi, il ministero lo hanno prostrato e deve fermarsi quasi un mese all'ospedale di Jessore. Ma la gente muore di fame. Le sue giornate sono lunghe: messa, catechismo a scuola, visita ai malati. Una pausa, poi il lavoro nei campi. La sera preghiera comunitaria in chiesa o rosario nelle famiglie, riunioni. Infine un po' di lettura, qualche conto, le lettere da scrivere. A volte va a letto alle due del mattino per alzarsi poco dopo. Dimagrisce ed e' a rischio malattie, nella stagione delle piogge va a piedi scalzi nell'acqua e nel fango. Ma nelle lettere da Shimulia ci sono sempre notizie di cose fatte e da fare: "Ieri sono andato fuori nei villaggi a distribuire le palme. Ho fatto una trentina di miglia attraverso i campi. Sanno le preghiere, si sono fatti anche la chiesetta, ma non hanno ancora ricevuto il battesimo. Non ho mai visto in vita mia una miseria cosi' squallida. Nei bambini e nei vecchi si contavano le ossa. Eppure questa gente non mi ha neppure chiesto se davo loro aiuto, ma solo quando riceveranno il battesimo. Sembra una cosa incredibile per questo paese, ma la fede fa i miracoli e forse questa gente capisce il valore della sofferenza. In una situazione cosi' disperata si deve dire che anche materialmente il loro futuro e' nelle mani del Signore" (8 aprile 1968).
Ha soltanto trentasei anni ma in un'altra lettera del '68 ammette: "A volte sento proprio il bisogno di andare sul monte a pregare come il Signore, e dimenticare tutto e tutti. Ma purtroppo ogni mattina quando mi sveglio la realta' delle cose mi viene buttata davanti agli occhi da situazioni cosi' pietose da far sanguinare il cuore. Prima di me, molti confratelli non hanno resistito e se ne sono andati: forse una ventina di padri in quindici anni". Ma lui non molla. E' stanco, pero' si fida di Dio.

Lo chiamano padre
Altra pausa di riposo forzato nel 1969: troppe fatiche. Scrive ai fratelli: "Vi dico la verita' che faccio ben poco conto della mia vita fino a tanto che vedo che posso aiutare questa gente a costo di diventare vecchio e ammalato anzitempo". E a un amico confida che la sua scelta e' una sola: morire con i suoi poveri o vivere una vita decente con loro.
Piano piano il suo lavoro da' frutti. Grazie ai pozzi i raccolti sono abbondanti. Tanto che vengono dai villaggi vicini a domandare il cibo. Lui aiuta tutti: "Avro' distribuito 200 quintali di riso. Che cosa potevo fare?". Gia', cos'altro poteva fare Valeriano Cobbe davanti a tanta miseria? Ma lamenta: "Se la nostra gente in Italia potesse capire quanto bene si puo' fare con un po' di sacrificio, penso che troverei i mezzi per installare un centinaio di pozzi, non due o tre. La fame e' una cosa terribile e orribile: rende l'uomo cosi' piccolo, cattivo, invidioso che non ne puoi avere l'idea, dato che in Italia credo che nessuno patisca veramente la fame".
E non si limita a sfamare, a predicare, a dar lavoro e costruire scuole e pozzi. Diventa un punto di riferimento per tutti i problemi della comunita', una specie di giudice, come racconta lui stesso in una lettera del 22 settembre 1969: "Quando un uomo e' sorpreso a rubare oppure una donna va a fare l'amore con altri che non sia il proprio marito, vengono sempre da me per mettere a posto le cose. La penitenza per una donna che fa la matta e' il taglio dei capelli e per l'uomo bastonate e castigo in denaro a favore della cooperativa. Per un ladro, bastonate e l'espulsione dalla comunita'".
Padre Cobbe insegna ai suoi poveri che non si vive di regali ma di lavoro. E da' l'esempio. Scrive il confratello padre Silvano Garello nella biografia Il pozzo profondo: "I suoi poveri erano diventati contadini che avevano imparato i segreti della coltivazione del riso e del frumento, dopo avertrascorso nottate intere ad ascoltare le istruzioni degli esperti. Egli stesso andava nei campi non per provare l'emozione di guazzare nel fango, come nel tempo della sua fanciullezza ai Pomari, ma per essere vicino alla fatica della sua gente. Il sahib era sceso dal piedestallo. Ora anche gli indu' e i musulmani lo chiamavano father, padre. Una pacifica rivoluzione era dunque in atto". Commenta padre Valeriano: "Come per incanto, musulmani, cristiani ed indu' lavoravano sugli stessi campi. Un altro fenomeno e' quello di vedere le donne cristiane lavorare nei campi: e' la prima volta nella storia di questo Paese".
Piccoli, grandi miracoli quotidiani. Ma niente retorica, niente pietismi, niente paternalismi. Valeriano Cobbe e' stato educato dai suoi con severita', punizioni corporali comprese. E non permette ai suoi poveri di sgarrare troppo. Tanto che confessera': "La madre superiora e padre Mario si lamentano un po' quando mi arrabbio; ma oltre alla scopa qui spesso non c'e' altra soluzione. Pochi mesi fa ho dato due schiaffoni ad una giovane sposa che non voleva stare con suo marito. Da allora in poi vivono beatamente in pace e non danno fastidio a nessuno". E ai genitori, preoccupati per la rigidita' del suo carattere, scrivera' il 17 gennaio 1970: "Carissimi papa' e mamma, pregate per me. Vi ricordo ogni mattina nella messa. Vi devo tutto, anche la costanza di andare avanti con determinazione nel mio lavoro. Ho sempre saputo aver fiducia nel lavoro, nella Provvidenza ed anche ispirare ottimismo e fiducia negli altri, e sono sempre stato premiato. Ho imparato perfino ad arrabbiarmi un po' di meno".

Ancora cicloni, ancora guerre
La notte del 13 novembre 1970 uno dei piu' spaventosi cicloni della sua storia colpisce il Pakistan Orientale: mezzo milione di morti, cancellati i raccolti e il bestiame. Una tragedia biblica che commuove il mondo. Il Papa Paolo VI, in viaggio verso le Filippine, sosta a portare aiuto e conforto. Il capo della Chiesa cattolica, per la prima volta in un Paese musulmano, pronuncia parole affettuose: "Sono venuto tra voi come un amico, tra amici, come un fratello tra fratelli. Sono venuto a dirvi quanto io partecipi alle vostre sofferenze in questa occasione, quanto sia profonda la mia simpatia per le famiglie colpite e quanto vorrei confortarvi con la mia fraterna amicizia. La mia partecipazione viene dal profondo del cuore, perche' io credo veramente che siamo tutti figli di un'unica famiglia umana". Sono gli stessi sentimenti di padre Valeriano Cobbe e degli altri missionari, il loro pane quotidiano. Il successore di Pietro, il fragile, indomito bresciano Giovanni Battista Montini, li proclama ufficialmente al mondo: siamo tutti fratelli, comportiamoci di conseguenza.
Ma non e' finita. Ci sono da tempo, sullo sfondo, contrasti politici tra i due Pakistan, Occidentale e Orientale. Alle elezioni del 6 dicembre 1970, la resa dei conti. Si eleggono i 313 membri dell'unico Parlamento. Lo sceicco Muijbur Rahman, capo dell'Awami League del Pakistan Orientale, ottiene la maggioranza e chiede al Presidente della Repubblica di guidare il nuovo governo. Di fronte al rifiuto, incita la popolazione alla disobbedienza civile. Il governo centrale manda i soldati, e scorre il sangue. La guerra durera' per tutto il 1971. Alla fine il Pakistan Orientale diventera' uno stato autonomo, il Bangladesh. Ma quell'odio si porta via anche padre Mario Veronesi, ucciso dai soldati a Jessore il 4 aprile 1971, domenica delle Palme. Colpito al petto da una pallottola, cade a terra, le braccia spalancate, come in croce.
Padre Cobbe, che ha vissuto con lui per piu' di quattro anni, scrivera' al superiore generale: "A forza di piangere mi sono preso un'infezione agli occhi, ma andiamo avanti lo stesso con il raccoltoe la Settimana Santa. Padre Mario era il migliore di noi per la sua statura spirituale e la sua carita'". Adesso e' solo. Oltre ai soliti problemi, ci sono quelli nuovi, creati dalla guerra. Un testimone oculare, padre Ceci, con lui in quei mesi, racconta: "La situazione di Shimulia era tra le piu' difficili. I 1500 cristiani erano in dubbio se scappare o rifugiarsi in India. Padre Cobbe disse loro di restare. Comincio' cosi' la piu' pericolosa spola che io abbia mai visto. Non c'era quasi notte che non dovesse accogliere in casa i guerriglieri, e giorno che non andasse a parlare con qualche ufficiale pakistano per dimostrare che il villaggio cristiano era senza colpe. Quando da una parte o dall'altra una truppa arrivava si trovava sempre di fronte un uomo bianco, alto, disarmato, che li avvisava di cambiare strada, perche' il villaggio cristiano non c'entrava e li' non c'erano ne' guerriglieri ne' soldati. La scuola funzionava regolarmente (unica forse nel Paese), i pozzi continuavano a dare acqua. Purtroppo i soldati regolari sapevano tutto e diventavano nervosi di giorno in giorno. Due volte lo scontro avvenne nel mezzo del villaggio ed i soldati lasciarono li' due morti. Partirono accusando la missione di connivenza e, al ritorno, uccisero il domestico del padre per vendetta. Dopo qualche giorno di scoraggiamento, padre Cobbe ricomincio' la spola sempre piu' intricata e pericolosa, ma la sua calma e prudenza erano sparite. Sembrava che i suoi nervi fossero tutti allo scoperto. Arrivavano notizie di villaggi vicini distrutti e di rappresaglie continue con centinaia di morti. Credo che padre Cobbe si sia trovato in pericolo decine di volte, senza immaginarselo. Alcuni soldati, offesi dalla sua reazione, lo aspettavano sulla strada dove la sua jeep passava in continuita'".

“Beato il ventre che ti ha portato” (Lc 11,27)
Troppa tensione, troppa fatica, troppo dolore: nell'ottobre del '71 i superiori richiamano padre Cobbe in Italia per un periodo di riposo. Ci stara' sette mesi, per l'ultima volta. Ma in quanto a riposarsi, non se ne parla. Bussa a mille porte: non puo' tornare a Shimulia a mani vuote. A luglio del 1972 e' di nuovo la'. E qualche mese dopo informa i genitori: "Non e' facile pensare a quasi quindicimila persone e trovare il denaro e le risorse per mandare avanti un mucchio di cose. Tra muratore, prete, coltivatore, rappresentante di mille membri della cooperativa, direttore della scuola e della pastorale, non so davvero a volte da dove cominciare. Sono sicuro che tu mamma preghi per me perche' possa fare del bene a tutti. In questo distretto tanta gente ormai mi conosce bene e tutti pensano che devo aver avuto dei buoni e bravi genitori per potere aver fatto tante cose per la povera gente: e sono migliaia di persone, musulmani, cristiani, indu', che vi lodano".

Raggi di speranza e di gioia
C'e' tanto da fare, come sempre e padre Cobbe ne da' conto nelle sue numerose lettere a familiari e benefattori: "Vendendo riso e facendo qualche prestito sono riuscito a dare lavoro a circa un migliaio di braccianti al giorno"; "Ho in mano tre costruzioni: una maternita', un centro femminile di cucito ed un dispensario. Sto seguendo il lavoro della costruzione della casa per le suore"; "Abbiamo avuto un bellissimo raccolto per cui tutti sono contenti. I contadini si sono organizzati da soli questa volta e sono riusciti a fare un deposito di riso di cinque milioni. Con questo deposito manderemo avanti il programma di irrigazione. C'e' un senso di grande speranza e di gioia su tutti i volti; tuttavia abbiamo avuto il primo morto a causa dei briganti: e' stato ammazzato un cristiano a coltellate perche' aveva cercato di impedire che gli svaligiassero la capanna. I nostri trattori e trattorini funzionano bene. I ragazzi vengono a scuola col vestito dell'anno scorso e sono scalzi. Mi costano circa trecentomila lire al mese. Tutta l'impresa qui mi viene a costare piu' o meno un milione alla settimana e finora mi e' andata bene, perche' ci sono tante buone persone al mondo".
Ma in Italia arrivano anche notizie preoccupanti sulla sua salute: "Mi sono ammalato, il cuore mi ha dato un po' di fastidio, ma ora dopo le cure ed il riposo mi sento meglio e posso lavorare quasi come prima", manda a dire ai genitori il 7 dicembre 1973. Eppure scava pozzi, costruisce una scuola, delle capanne per le famiglie povere che chiama "Villaggio Papa Giovanni", la casa per le suore, il centro di cucito e il consultorio. Un inviato dell'organizzazione di volontariato Mani tese, il dottor Aldo Bernabei, testimonia: "A Shimulia, un villaggio pochi anni fa semideserto, per iniziativa del padre Cobbe e' sorta una cooperativa che riunisce a tutt'oggi duecentoquindici contadini che gestiscono un'estensione di terreno irrigato di circa settantadue ettari, in cui e' possibile effettuare tre raccolti l'anno, invece di un solo raccolto stentato come avveniva in precedenza. I pozzi finora aperti e funzionanti sono quattro: ognuno di essi consente l'irrigazione di circa diciotto ettari di terreno coltivato a riso. Con la prossima apertura dei tre nuovi pozzi finanziati da Mani tese (i primi quattro furono finanziati dalla Misereor) l'estensione del terreno irrigato salira' a circa un centinaio di ettari. Certamente si deve ancora fare molto. L'azione del padre Cobbe e' certamente positiva e proficua. L'unico punto debole, se si puo' chiamare tale, e' la parte preponderante tenuta dallo stesso padre Cobbe in tale azione. Questo infatti puo' far temere un rallentamento delle attivita' qualora il padre non possa, per qualsiasi motivo, seguire personalmente i progetti intrapresi. A mio parere il progetto in corso a Shimulia dovrebbe essere seguito da vicino e sostenuto in ogni modo".

Sognando cinquecento pozzi
Gia', i soldi arrivano, ma bisogna sollecitarli e poi farne buon uso. Ha creato un gruppo di collaboratori, pero' il lavoro resta tanto, troppo. E Valeriano Cobbe lo affronta con grinta, non tira in ballo la salute, non scansa i problemi. Continua a chiedere aiuto: "Non c'e' piu' cemento sul mercato e non si trova nafta per i motori... Siamo senza i motori e le pompe e non so come farli arrivare dalla Germania... Per il gruppo delle vedove e delle ragazze stiamo formando tre cooperative, una per il cucito, una per l'artigianato ed una per la tessitura... Il valore della stoffa e' cresciuto di venti volte rispetto a prima della guerra e molte persone non possono venire in chiesa perche' non hanno nulla da mettersi addosso". Tutto lo riguarda, nulla gli e' estraneo. "Nessuno smuovera' il Bengala", si diceva. Non e' vero, padre Valeriano Cobbe c'e' riuscito. Vincendo anche la rassegnazione, il fatalismo, la disperazione di gente abituata da sempre a subire. E pensa in grande, sogna cinquecento pozzi,acqua, verde, riso e frumento per tutti.
Per farcela lavora instancabilmente e fa lavorare uomini, donne, giovani. Ha fretta, quasi presentisse il poco tempo che gli resta. Dira' uno dei suoi poveri: "Abbiamo ricevuto molto da tutti, ma lui solo ci ha insegnato a lavorare". E un altro aggiunge: "Per ottenere quello che ha realizzato padre Cobbe ha incontrato difficolta' che avrebbero scoraggiato anche il piu' entusiasta: la ritrosia dei contadini, il dubbio e la titubanza dei collaboratori e soprattutto l'odio di chi vive sullo sfruttamento dei poveri. Sono queste le categorie di persone che hanno provato la combattivita' di padre Cobbe e la pesantezza delle sue mani".
"Mi hanno portato al limite dell'esaurimento", confessa una volta. Ma continua. Vuole il progresso, la dignita' e l'unita' di quel popolo: "Nel progetto agricolo tutti sono invitati: musulmani, indu' e cristiani. E' un'occasione per rompere le barriere secolari che li dividono. Per me sono tutti uguali. Tutti sono miei parrocchiani indistintamente". Non esita a combattere in prima persona contro i prepotenti. L'ingiustizia lo indigna ed e' pronto a levar le mani in difesa dei suoi poveri. Si fa dei nemici e un giorno confida a un amico: "Mi vogliono morto".
Ma continua. E non trascura le messe, il catechismo, i sacramenti, il consiglio pastorale, la parte spirituale del suo ministero. Dice un confratello: "Penso che, specie negli ultimi tempi, due cose lo struggessero maggiormente, la cura dello spirito ed una maggiore democrazia. Purtroppo la situazione economica della zona era cosi' disastrosa che ha sempre dovuto dedicare maggior tempo all'attivita' pratica. Sono certo che attendeva con ansia il momento in cui ci fosse meno fame per seguire un corso di azione diverso".

L’eloquenza del fatto
Suor Rosaria, che gli e' accanto, riassume cosi' la sua filosofia: "L'ho sempre sentito predicare la carita', l'amore verso il prossimo. Ultimamente diceva: Noi parliamo poco, ma lavoriamo molto. Il prossimo guarda i nostri fatti, non i detti. Guai se io andassi a vedere cosa mangiano i bambini, quanto riso consumano e dicessi loro: questo ve lo do io. I superiori non devono essere oppressori, ma fratelli, con i fratelli non si creano due gruppi. Quelli che non vogliono lavorare sono dei parassiti, sono di danno alla societa', alla comunita' e tanto piu' alle loro famiglie. Queste persone siano maledette e vadano sotto terra. Chi ruba non pensi di diventare ricco. No, con la roba degli altri ci impoveriamo anche di piu'. Il ladro non deve essere perdonato. Perdonandolo cooperiamo insieme, lo incoraggiamo a fare peggio. Deve essere punito".
Annunciare - direbbe il fondatore dei missionari saveriani, beato Guido Maria Conforti - Cristo e la fraternita' universale con "l'eloquenza del fatto". L'ultimo giorno di padre Valeriano Cobbe e' il 14 ottobre 1974. Ha 42 anni, 12 di missione. Quella sera passa a trovare le suore. Prima di andarsene dice a suor Rosaria: "Se per caso morissi, seppellitemi accanto al padre Mario". Poi si avvia verso casa. Nel buio lo attendono i ladri. Gli sparano. Un colpo solo, come padre Mario Veronesi. Lo derubano, svaligiano il suo alloggio e scompaiono. Secondo la sua ultima volonta' viene sepolto accanto a padre Mario. I due parroci di Shimulia riposano li', in attesa della risurrezione. Padre Cobbe ha combattuto la buona battaglia e ha conservato la fede. Chissa' quanto bene avrebbe ancora fatto. Ma forse doveva accadere: dopo aver fatto sgorgare l'acqua ha dato il suo stesso sangue per i suoi fratelli. Come Cristo in croce.

Un testamento spirituale
Di lui ci resta un ultimo scritto, pubblicato un mese dopo la morte su Fede e Civilta', la rivista dei Saveriani. Un documento straordinario, una sorta di testamento spirituale che dev'essere conosciuto. Eccolo.
"Nel 1967, quando il Vescovo mi mando' come assistente in parrocchia a Shimulia, distretto di Jessore, Bangladesh, ebbi l'impressione di essere caduto in un paese di morti. La gente che incontravo era affamata, ammalata, ignorante, chiusa in un ghetto che li aveva resi paria, fuori casta agli occhi dei paesi musulmani che li circondavano da secoli.
Qualsiasi buon musulmano pensava che se esisteva un paradiso certamente non sarebbe stato per questa comunita' cristiana e infatti nessuno di loro neppure piu' pregava perche' i cristiani si convertissero al musulmanesimo, dato che erano troppo bassi per essere degni di tale grazia. Tutt'al piu' dicevano qualche preghiera perche' si convertisse il padre, il quale sembrava piu' onesto e piu' buono di loro.
Se un cristiano andava a lavorare per un musulmano, il musulmano gli avrebbe dato, a mezzogiorno, da mangiare su di una foglia di banana, mai su un piatto, perche' poi, dopo che egli aveva mangiato, avrebbe gettato via anche il piatto, dato che il cristiano era immondo.
Un musulmano non avrebbe mai accettato neppure un bicchiere d'acqua da bere e al nome di Shimulia sputava per terra, quasi per togliersi di bocca il fetore che tale nomedava nel pronunciarlo.
Il primo giorno che andai a scuola, a insegnare catechismo, due o tre ragazzi caddero svenuti; non sapevo il perche', ma scoprii ben presto che erano due giorni che non mangiavano.
Fui indeciso per tre giorni se stare in un posto simile oppure scappare, alla fine pero', con l'aiuto di padre Mario Veronesi, decisi di stare e di vedere se non ci fosse una via per aiutare questa comunita': la gente era buona, religiosa, timorata di Dio, forse si poteva fare qualche cosa.
Come prima cosa, chiesi ai cristiani di formare una cooperativa di risparmio. Quando tutti furono d'accordo, cominciammo a obbligare tutti a depositare ogni settimana qualche centesimo.
I cristiani avevano della terra, ma mi accorsi subito che, data la loro miseria, avevano dovuto ipotecare tutta la loro terra, a prezzi irrisori. Pagai subito il riscatto della terra e proposi agli amici in Italia di dare delle offerte per un piano di irrigazione. Nel piano di irrigazione venivano inclusi musulmani e indu'.
Nel 1968 le prime due pompe erano pronte, ma non erano ancora pronti i contadini sia per il dissidio religioso che esisteva fra di loro e sia anche perche' non avevano mai fatto raccolti con l'irrigazione, ne' avevano mai usato i concimi chimici.
A questo punto un bravo agronomo, mister David J. Stockley, un ministro della setta battista, venne in nostro aiuto. Veniva a Shimulia una volta al mese e stava con noi una settimana ad educare la gente. I pozzi andavano bene: ogni pozzo e' a canne di venti centimetri che scendono a duecento e venti metri sotto terra. Buttano novanta litri di acqua al secondo. Il signor Stockley insegno' anche alle donne a lavorare e guadagnarsi qualche cosa nei campi: cio' non era mai avvenuto.


Insieme, musulmani, indù e cristiani
I musulmani piu' ricchi dei paesi vicini in principio avevano cercato di ostacolare l'irrigazione. Passavano la voce che con l'irrigazione i campi si sarebbero rovinati e non avrebbero piu' dato raccolto. Poi cercavano di impedire ai piu' poveri tra loro di venire a lavorare sui campi dei cristiani.
Tutte queste difficolta' vennero superate in un anno quando si vide che, con l'irrigazione, i campi davano tre raccolti all'anno. La situazione cambio' di piu', quando anche la scuola comincio' a funzionare fino alla terza media.
La comunita' non solo comincio' a sperare nel futuro, ma si creo' una cooperativa fatta da membri di diversi villaggi e diversa fede. Una volta alla settimana, gente di tre professioni religiose, musulmani, cristiani e indu', si radunavano insieme per risolvere le loro difficolta' finanziarie. Nel 1969, con l'aiuto dell'Italia, altri due pozzi erano pronti e da quel tempo la comunita' cristiana non ebbe piu' difficolta' per sopravvivere.
Lo stato di ghetto della comunita' stessa venne superato e oggi i cristiani sono rispettati come tutti gli altri.
Anzi, ora dicono che i cristiani sono stati veramente benedetti da Allah. Durante la guerra civile fu l'irrigazione a salvare dalla fame la comunita' e cosi' dopo la guerra fu ancora l'irrigazione a salvare questa gente. Alcuni dicono che sia la benedizione e il sacrificio di padre Mario Veronesi. Molti cristiani, quando vanno a Jessore, tornano con una manata di terra presa dalla tomba di padre Mario e la custodiscono come una reliquia.
Puo' darsi che alcuni dei nostri amici d'Italia si siano fatti un'impressione errata delle nostre attivita'. Questo nostro continuo chiedere denaro puo' far pensare che la nostra opera sia puramente filantropica e che abbiamo perso di vista il motivo profondo per cui siamo qui. Ma non e' cosi': alla base rimane sempre e solo il fatto che siamo qui a propagare il messaggio evangelico, per creare l'uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturita' del Cristo, come si esprime san Paolo.
Il contributo che il missionario da' allo sviluppo dei popoli e' un'esigenza che scaturisce dallo stesso Vangelo.
Gesu' parlava alla gente, ma quando avevano fame ne aveva compassione e dava loro da mangiare, anche se doveva ricorrere ai miracoli. Quando vedeva un ammalato che implorava, lo guariva nell'anima e nel corpo, anche se spesso doveva ricorrere alla sua divina onnipotenza.
La Chiesa ha sempre continuato l'opera di Gesu', dando vita a opere di assistenza per i malati, a scuole per i poveri e promuovendo la cultura fino a edificare le prime universita' di Europa.
Nel medio evo ha dato vita alle prime unioni di lavoratori e artigiani e nei tempi moderni i Papi non hanno fatto che esortare le nazioni a collaborare per uno sviluppo umano e cristiano di tutti i popoli.
Quanto al caso specifico della nostra azione per lo sviluppo nel Bangladesh, ritengo che sia essenziale e indispensabile. La vita ha il sopravvento sulla religione. Questa gente che patisce ogni giorno la fame e vive in una tristezza estrema perche' non puo' trovare lavoro e non sa come sfamare i propri figli, pensa prima alle necessita' primordiali della vita e chiedera' il pezzo di pane o il piatto di riso, e solo dopo ringraziera' Dio. La religione non puo' fiorire sulla miseria e sulla disperazione.
Inoltre, in una societa' sottosviluppata e per di piu' non cristiana, con differenze sociali e di casta molto grandi, si diffonde facilmente la corruzione: una corruzione tremenda che balza agli occhi. Spesso noi siamo gli unici a dare un esempio concreto di una comunita' bene organizzata, che svolge le sue attivita' con disinteresse e con la massima onesta'.


Il viaggio d’oro
Solo per mezzo del lavoro organizzato i musulmani cominciarono a familiarizzare con i cristiani e accettarono di collaborare con loro. I membri della cooperativa sono per meta' cristiani e per meta' musulmani e la stessa proporzione si ha nel lavoro agricolo. Mentre prima il villaggio di Shimulia era disprezzato, ora lo chiamano sonar gram, il villaggio d'oro, e i musulmani non hanno difficolta' a venire qui per le adunanze sociali. Questa gente non era organizzata per mancanza di capitale e per mancanza di leadership. In principio ho dovuto dare l'uno e l'altra. Ho dato il capitale e, durante il giorno, scendevo nei campi con loro a piantare il riso, mentre alla sera facevo gli incontri. La cooperativa ed il lavoro in comune e' stato un grande vantaggio. Ad un certo momento tutta la comunita' e' impegnata. Qui e' la comunita' che conta, non il singolo individuo. Cosi', per la comunita' cristiana, il messaggio evangelico e il lavoro sociale sono diventati la stessa cosa; ma anche viceversa: il lavoro sociale e i doveri cristiani sono diventati due cose inscindibili e la cooperativa, che fa andare avanti il lavoro dei campi, controlla anche i buoni costumi del paese. Per i musulmani la nostra influenza e' indiretta, nel senso che diamo loro l'esempio di una vita laboriosa ed onesta.
Il missionario dovrebbe essere educato allo spirito di iniziativa ma nello stesso tempo al lavoro in collaborazione: saper organizzare egli stesso una qualsiasi opera sociale, ma saper anche farsi aiutare e saper formare i dirigenti. Quello, pero', che egli non deve mai dimenticare e' di essere un guru, cioe' un maestro spirituale, un sacerdote.Solo per questo titolo siamo accettati, rispettati e amati. Nel contesto sociale dobbiamo essere per i poveri, ed aiutarli, ma non entrare, in nessun caso, nelle loro competizioni politiche, nemmeno per sostenere candidati che potrebbero esserci favorevoli. Puo' darsi che qualcuno venga a chiedere il nostro appoggio, durante le elezioni: non dobbiamo mai comprometterci, e del resto neanche loro se l'aspettano; dobbiamo rispettare tutte le autorita' e tutti i partiti, ma restare al di sopra delle loro lotte e ambizioni per rimanere sempre all'altezza della nostra missione.
La strada e' stata aperta. Ci sono difficolta' immense da superare, ma la gente ha riacquistato la fiducia in se stessa, la speranza e il coraggio. Le loro conquiste sono state il frutto della carita' ricevuta dai cristiani d'Europa. Come ai tempi di san Paolo, le collette raccolte in Italia hanno dato la vita e la speranza alla gente del Bangladesh".


Martire della giustizia
Questo e' padre Valeriano Cobbe. Questo e' il suo modo di fare il missionario. Questa e' stata la sua vita e cosi' si spiega la sua morte. Chi voglia realizzare cio' che lui presenta in questa sorta di magna charta deve mettere in conto anche il martirio. La croce, il sangue. Lo storico Andrea Riccardi ha pubblicato di recente presso Mondadori il libro-martirologio del Novecento dal titolo Il secolo del martirio. C'e' una pagina anche su padre Cobbe, citato tra i martiri della giustizia. Eccola.
"Il saveriano padre Valeriano Cobbe e' morto per la giustizia in Asia. Era cresciuto accanto a un grande missionario, Mario Veronesi. Viveva in Pakistan Orientale (poi divenuto Bangladesh) dal 1962, dove lavorava con i catechisti, i responsabili delle varie comunita' di villaggio, i maestri, suscitando ovunque grande entusiasmo. La sua attivita' sociale era connessa all'annuncio del Vangelo.
Padre Cobbe aveva organizzato gli abitanti del villaggio in una cooperativa agricola con duecento contadini.
Con gli aiuti dall'estero, riscatto' i terreni che le famiglie davano in pegno agli usurai. Favori' la coltivazione del riso, facendo scavare pozzi, forniti di pompe a motore, per irrigare un'estensione di ottanta ettari, con tre raccolti l'anno. Era qualcosa di nuovo in quelle campagne.
Attorno alla missione si sviluppo' un tessuto di vita, di lavoro, ma anche di solidarieta', che incideva sulla qualita' della produzione e dell'organizzazione sociale.
Il villaggio fini' per essere chiamato il villaggio d'oro, per la sua prosperita'. Padre Cobbe si occupo' anche dell'istruzione, costruendo un grande fabbricato per la scuola. Acquisto' infine un appezzamento di terreno alla periferia, che divise in piccoli lotti per una quarantina di famiglie nullatenenti, dove c'erano una capanna e un piccolo orto per ogni nucleo familiare.
Questa attivita' non fu gradita a chi viveva sfruttando la miseria e lo stato servile della gente. Il lavoro e l'amicizia con i fuori casta causarono al padre forti opposizioni.
La sera del 14 ottobre 1974, forse presentendo qualcosa, disse alle suore della missione: Se mi uccidono, seppellitemi accanto a padre Veronesi. Mentre si recava verso la residenza, alcuni sicari lo assassinarono con un colpo al cuore.
Scrisse un suo confratello: Padre Cobbe ha voluto giocare d'azzardo con la storia e la societa' locale in nome dei valori umani e cristiani, ma la storia e la societa' hanno punito lui, bandiera degli oppressi levata troppo in alto".


Autore:
Renzo Agasso


Fonte:
Santa Sede

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Aggiunto/modificato il 2007-08-17

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