Sua mamma ha sempre creduto, partecipando ai funerali di don Bosco, di essersi portata a casa una benedizione particolare, che le ha permesso di donare tre dei suoi cinque figli al Signore: una figlia tra le suore della Carità di Santa Antida, un figlio sacerdote diocesano e lui, Oreste, proprio tra i figli di don Bosco. A farlo innamorare dei Salesiani, però, hanno contribuito non poco anche le Figlie di Maria Ausiliatrice, presenti a Diano d’Alba, che sono le sue prime maestre, e il suo parroco, che ha una sconfinata simpatia per don Bosco e per i suoi figli. Il buon Dio, che non fa mai dei suoi santi frutti isolati e solitari, ma li forma sempre a grappolo, lo fa incontrare a Valdocco con il successore di don Bosco don Filippo Rinaldi (ora beato), in seconda ginnasio gli manda come supplente don Stefano Ferrando che accende in lui il desiderio di essere missionario in India, dove arriva nel 1923 a poco più di 17 anni e qui gli mette accanto per un certo periodo don Costantino Vendrame, due salesiani per i quali è in corso il processo di canonizzazione. Ordinato prete nel 1932, inizia subito a muoversi con estrema rapidità tra le tribù himalayane, visitando a più riprese sperduti villaggi e comunità isolate dal resto del mondo, nelle quali l’arrivo di un missionario cattolico è un avvenimento più unico che raro. “Una notte in treno, una giornata di battello sul fiume, un altro giorno su un battello più piccolo, quattro ore di corriera e dodici chilometri a piedi” è, ad esempio, la distanza che lo separa un giorno da un gruppo di fedeli che si propone di visitare. Sembra che proprio nulla riesca a fermarlo, tanta è l’ansia pastorale che si porta dentro e tanto è il desiderio di aiutare come può, specialmente nelle ricorrenti epidemie e nella povertà estrema di molti villaggi. Per essere veramente d’aiuto a quelle popolazioni si adatta ad imparare la loro lingua, collezionandone addirittura una ventina che padroneggia con disinvoltura e che fanno di lui un missionario autorevole ed amatissimo, in grado di comunicare e di farsi ascoltare, anche dai non cattolici. Davanti all’urgenza dell’evangelizzazione don Oreste non ha il senso della misura e non si concede tregua; finisce così per chiedere troppo al suo fisico, che deperisce a vista d’occhio. Viene “salvato” in extremis dai superiori, che senza sentir ragioni lo tolgono prepotentemente dalla missione, destinandolo all’insegnamento dei novizi italiani. Un brutto colpo per lui, che si sente invece irresistibilmente attratto dalla vita missionaria e che si adatta al nuovo incarico solo in virtù di santa obbedienza. E nessuno sarà più felice di lui quando vi potrà ritornare, dato che il noviziato da dovuto chiudere i battenti perché dall’Italia non arrivano più novizi a causa della seconda guerra mondiale. Quando lo fanno vescovo, gli altri vengono a saperlo prima di lui, perché la lettera di nomina non gli è mai arrivata: inizia subito un “braccio di ferro” con i superiori per evitare il “pericolo” e si arrende solo dopo quattro mesi di inutili pressioni. Torna così in Italia nel 1951 per la consacrazione episcopale, la prima volta dopo 28 anni dalla sua partenza, ed ha ancora la gioia di trovare mamma in vita e di godersela un po’. Tornato in missione, tira su dal niente la nuova diocesi che gli è stata affidata e poi ne fonda altre due, con l’intelligenza pastorale che ormai ha acquisito e con il suo consueto stile di missionario itinerante, infaticabile e generoso. Malgrado i periodici attacchi di malaria, un’ernia piuttosto grave e i primi sintomi della flebite. Ha la fortuna di avere alle spalle comunità vive e benefattori (in primo luogo quelli di Diano d’Alba) che lo sostengono nelle sue tante realizzazioni e che gli permettono di costruire opere grandiose per la parte più debole e fragile della sua popolazione. Nel 1978, quindi in anticipo rispetto a quello che prescrivono le norme della Chiesa, rinuncia alla diocesi perché si è accorto che i tempi ormai sono ormai maturi per lasciarla in mano al clero indigeno. Aiuta il successore finchè è necessario, poi si ritira in buon ordine, umile e disponibile come sempre, per continuare a servire con il suo ministero sacerdotale la tanto amata Chiesa indiana. Muore il 30 luglio 1998, alla soglia dei 92 anni, spesi tutti per Dio nel nome di don Bosco. Lo scorso 16 febbraio, a Tura, ultima diocesi di residenza di mons. Oreste Marengo, in cui è morto ed è sepolto, si è conclusa l’inchiesta diocesana per la sua canonizzazione, che ora sta proseguendo a Roma il suo iter.
Autore: Gianpiero Pettiti
Note:
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