Pietrarubbia, Pesaro-Urbino, 4 febbraio 1874 - Macerata, 17 marzo 1960
Pietro Riminucci (Serafino da Pietrarubbia), servo di Dio. Nacque a Pietrarubbia (Pesaro) il 4 febbraio 1874 da Antonio e da Rosa Ubaldi, coniugi poveri ma onesti. Suo padre andava girando ad aggiustare pentole e piatti chiedendo l'elemosina. Di questa missione il figlio ne farà un apostolato. Fin dalla sua prima fanciullezza, per sollevare le ristrettezze della famiglia, prima andò a servizio come garzone ad un contadino, poi al convento dei cappuccini di Montefiore Conca come domestico. Quivi sbocciò la sua vocazione religiosa. Vestí l'abito dei cappuccini il 9 maggio 1898.
Emessi i voti religiosi, fu destinato al convento di Jesi, dove visse per ben 54 anni, occupato nei servizi piú umili, primo fra tutti quello di questuante, percorrendo sempre a piedi nudi con la bisaccia sulle spalle la Valle dell'Esino. Sempre paziente e gioviale, si trovava tanto volentieri tra gli umili e i poveri. Riparava cocci casalinghi e confezionava corone per i benefattori. Sofferente di asma bronchiale, che lo aveva tormentato per 40 anni, fu ricoverato nell'infermeria del convento di Macerata, dove trascorse gli ultimi tre anni della vita, nella preghiera e nella sopportazione del male, edificando tutti i visitatori. Morí il 17 marzo 1960. La sua causa di beatificazione ebbe inizio nel 1975: ottenuto poi il nulla osta della S. Congregazione per le Cause dei Santi il 24 febbraio 1979, nella curia di Jesi fu costruito negli anni 1980-82 il processo cognizionale sulle virtú in specie. La Positio super virtutibus venne consegnata il 29 maggio 1993. Riconosciuta l'eroicità delle virtù, è stato dichiarato venerabile il 15 marzo 2008.
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Chieder l’elemosina, in casa Riminucci, è una ben triste “tradizione di famiglia”. Papà, che ufficialmente passa di casa in casa ad aggiustare pentole e piatti, molte volte è costretto dalla necessità a tendere la mano per togliere la fame ai sei figli. Così, il quarto figlio, che di nome fa Pietro, appena ne è in grado va a fare il garzone di campagna e poi il domestico dai frati, per togliere a papà il peso di una bocca da sfamare e, se possibile, aiutare a sfamare i più piccoli. Nasce a Pietrarubbia (Pesaro) il 4 febbraio 1874 e trova la vocazione di cappuccino proprio facendo il domestico nel convento di Montefiore Conca. Nel 1898 entra così tra i cappuccini con il nome di Fra Serafino, beninteso come fratello laico, perché non ha studiato e forse non ne avrebbe neanche la capacità. Assegnato al convento di Jesi, vi resterà per più di 50 anni, cioè praticamente tutta la sua vita attiva, svolgendo i lavori più umili, quelli che ha imparato fin da bambino. Eccelle soprattutto nella questua, che come detto è “tradizione” di famiglia: a piedi nudi, con il bello ed il brutto tempo, percorre la Valle dell’Esino, domandando l’elemosina. Ovviamente non più per sé, ma per il convento e per i “fratini”, cioè i novizi e i postulanti, che nel convento di Jesi sono abbastanza numerosi. Gli capita anche di dover fare il portinaio del convento e in questo ruolo gli è più agevole fare la carità ai poveri di passaggio, allungare qualche fetta di pane o qualche frutto ai bambini, non prima comunque di aver detto loro qualche buona esortazione o averli invitati a passare in chiesa a salutare Gesù. Apostolato spicciolo, come si può vedere, quasi banale, che tuttavia i beneficati di allora ancora ricordano per l’inalterabile sorriso buono con cui Fra Serafino accompagna il suo gesto di carità. “Era di poche parole, ma di grande esempio", dicono i testimoni, e forse è il miglior elogio non solo per un frate portinaio, ma per ogni buon cristiano. Paziente, gioviale e sorridente è anche lo stile abituale con cui svolge il suo lavoro di questuante: lo chiamano affettuosamente “Serafinello”, come uno di casa, perché tale si presenta di uscio in uscio. I bambini lo aspettano, ad una data ora e in un determinato posto, per accompagnarlo festosamente in convento, come in corteo o come in trionfo, durante il quale il fraticello approfitta dell’occasione per distribuire parole buone, esortazioni o immaginette, sempre e comunque un messaggio di cielo distribuito nel modo a lui più congeniale e forse l’unico a lui possibile: con il sorriso sulle labbra e con la gioia del cuore. Qualcuno sussurra (e a tempo debito lo deporrà anche sotto giuramento) che al passaggio di Fra Serafino si verifichino cose prodigiose: anche qui, beninteso, non si pensi a miracoli strepitosi o ad azioni taumaturgiche “alla Padre Pio”, tanto per intenderci. Si tratta, molto più semplicemente, di eventi,magari anche inspiegabili, ma sempre “alla sua portata”, perfettamente in linea con il suo stile dimesso. Perché ”aggiustare i cuori”, in ogni caso, è la sua unica specialità, con la parola giusta sussurrata al momento giusto, con delicatezza e anche con pudore, come se non ne fosse capace, mentre invece invariabilmente gli riesce di mettere insieme i cocci di vite disordinate o di coscienze turbate. Esattamente come gli riesce di riparare i cocci dei piatti e delle pentole, l’unica eredità lasciatagli da quello spiantato del suo povero papà; o come gli riesce, con infinita pazienza, di infilzare i grani delle corone del rosario, che confeziona per i benefattori del convento nei momenti di pausa dalla questua o dall’attività conventuale. Sua convivente, inseparabile per 40 lunghi anni, è un’asma bronchiale, che negli ultimi tre anni di vita lo blocca definitivamente a letto con notevoli difficoltà respiratorie. Consuma così le sue ore tra la sofferenza del corpo e il suo silenzioso e intimo colloquio con Dio, morendo il 17 marzo 1960 nell’infermeria del convento di Macerata come il più umile dei frati. Ma dato che la gente non riesce a dimenticare il “frate tanto buono”, nel 1975 si apre la sua causa di beatificazione e nel 2008 è stata riconosciuta l’eroicità delle sue virtù con la proclamazione a venerabile. E non ci sarà davvero da stupirsi se tra breve si arriverà a beatificare il “frate da niente”, che si è fatto santo con “cose da niente” ma che a tanti ha fatto vedere il sorriso di Dio.
Autore: Gianpiero Pettiti
Il Venerabile Fra Serafino da Pietrarubbia, al secolo Pietro Riminucci, Fratello Laico professo dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini delle Marche, era nato a Pietrarubbia (PU) il 4 febbraio 1874 e morto a Macerata, nella casa di Riposo dei frati cappuccini marchigiani, il 17 marzo 1960. La sua causa di beatificazione ebbe inizio nel 1975: ottenuto poi il nulla osta della S. Congregazione per le Cause dei Santi il 24 febbraio 1979, nella curia di Jesi fu costruito negli anni 1980-82 il processo cognizionale sulle virtú in specie. La Positio super virtutibus venne consegnata il 29 maggio 1993.
La notizia che fra Serafino, l’angelo questuante della Vallesina, chiamato dalla gente, con vezzo affettuoso, Serafinello, è stato dichiarato venerabile, è stata accolta dai fedeli che frequentano la chiesa dei Cappuccini di Jesi con tanta gioia.
Chi non ricorda, fra le persone di una certa età, la figura amabile e premurosa di Fra Serafino da Pietrarubbia? Emise i voti il 9 maggio 1898, all’età di 25 anni nel Convento dei Cappuccini di Montefiore Conca (RM) e subito dopo, fu inviato a Jesi, dove visse per ben 54 anni, svolgendo i più umili uffici, primo fra tutti quello di questuante.
Ha percorso, per oltre mezzo secolo, senza gli odierni mezzi di trasporto, tutta la verde valle dell’Esino e le sue strade bianche, bussando di uscio in uscio per chiedere l’elemosina per i frati e i “fratini”.
Umile e povero, si trovava fra gli umili della nostra valle come nell’ambiente più congeniale al suo spirito evangelico e francescano. Si è impegnato per “servire il Signore” con quella “umile risolutezza”, come ricordava papa Giovanni XXIII, di colui che sceglie una strada con tutto il cuore e con tutte le forze e “la abita” fino alla fine.
È stato così per il suo grande impegno. Non sempre, ovviamente, fra Serafino era in giro per la Vallesina. Trascorreva molto tempo nella quiete del convento, consumando le sue ore nel lavoro e nella preghiera.
Due attività gli furono spiritualmente congeniali per l’umiltà e per la pazienza che richiedevano: le arti del portinaio, del coronaio e del ricompositore e aggiustatore degli utensili di coccio rotti.In convento, come portinaio, spesso aveva modo di incontrare bambini, soprattutto di famiglie povere e fra Serafino distribuiva loro qualche fetta di pane o qualche frutto, invitandoli, prima che li consumassero, a passare in Chiesa per un saluto a Gesù.
Anche il sottoscritto ha avuto la grazia di conoscerlo dal 1952. Ricordo che, insieme agli altri bambini del quartiere, quando udivamo il suono delle campane di mezzogiorno ci radunavamo ai piedi della salita del Convento dei frati Cap-puccini e aspettavamo l’arrivo del “fraticello” per fargli festa e ricevere da lui, con gentili parole di garbata esortazione al bene, una carezza e la consegna di alcune immaginette.Sempre all’età di 7-8 anni, quando cercavo dei compagni di gioco, suonavo alla porta del Convento dei frati chiedendo di poter giocare insieme ai fratini del Seminario dei Cappuccini. Spesso però capitava che stavano ancora in classe a studiare, allora ricordo che fra Serafino, in attesa che arrivasse l’ora di ricreazione, mi ospitava nella sua cameretta ed io lo guardavo seduto sul suo letto, mentre faceva le corone del rosario o riparava piatti e vasi rotti.
A quei tempi spesso in famiglia mi capitava di ascoltare discorsi sulla sua capacità di compiere miracoli. C’è molta gente, ormai scomparsa, che al processo diocesano raccontava di avere assistito a prodigi dispensati con umiltà e semplicità dal fraticello questuante.
Certo, possiamo dire tranquillamente che non fece mai niente di straordinario, fu semplicemente un testimone autentico di fede, di speranza, di amore in ogni circostanza, per tutta la vita. Ma cos’altro è la santità se non un esempio luminoso dell’accettazione della propria vita, come dono ricevuto e non di un possesso egoistico?
Autore: Emilio Capogrossi
Fonte:
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www.vocedellavallesina.it
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