Lunghe e difficili furono le ricerche delle testimonianze sulla violenta fine inflitta dai miliziani titini al prete istriano Francesco Bonifacio, soprattutto per la delicata situazione politica in cui venne a trovarsi l’Istria nel secondo dopoguerra. Infatti, già l’11 giugno 1956, dieci anni dopo quella scomparsa, don Narciso Rigonat chiese al vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin, di istruire un processo canonico per esaminare le circostanze di quella fine e verificarne il probabile «caso di martirio in odium fidei». L’11 marzo 1957 il Vescovo, che aveva conosciuto personalmente don Francesco e che tanto aveva sofferto per quella tragedia, aprì un processo informativo, che avrebbe dovuto ascoltare le deposizioni e acquisire i materiali necessari, ma subito incontrò gravi ostacoli da parte del regime iugoslavo e, benché procedesse con assoluta segretezza nella raccolta delle testimonianze, nel 1958 fu costretto a sospendere i lavori.
Negli anni 1972-74 fu avviato, sempre per iniziativa di mons. Santin, un nuovo processo canonico, subito però bloccato dalla Santa Sede per non compromettere i già difficili rapporti tra Vaticano e Repubblica Iugoslava. Il processo fu ripreso nel 1995, per volontà del nuovo vescovo Lorenzo Bellomi, e il nuovo Tribunale diocesano, presieduto da don Ettore Malnati — già segretario di mons. Santin — iniziò l’audizione di 21 testimoni. Il 22 marzo 1998, nella cattedrale di San Giusto a Trieste, il terzo vescovo promotore di questa causa, mons. Eugenio Ravignani, ne concludeva positivamente la fase diocesana e subito inoltrava la documentazione alla Congregazione delle Cause dei Santi.
Così, dopo la verifica romana, lo scorso 4 ottobre l’istriano don Bonifacio — el santin come lo chiamavano in seminario — è diventato anche icona di una riconciliazione ardua ma più forte degli odi etnico-politici e religiosi con la beatificazione presieduta da mons. Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, nella cattedrale di San Giusto a Trieste: quella stessa che nel lontano 1936 lo aveva visto ricevere l’ordinazione sacerdotale. Alla liturgia della beatificazione erano presenti anche i vescovi dell’Istria croata e di quella slovena, cosicché questa beatificazione — come notò mons. Ravignani, ricordando che i luoghi dove il beato crebbe, maturò la vocazione e realizzò il suo ministero, appartengono ora alla Slovenia e alla Croazia — «è un segno di quella riconciliazione che, benché iniziata, è ancora lunga e potrà realizzarsi appieno soltanto in forza della comune fede in Cristo».
Un’anima pura sulla via del sacerdozio
Francesco Giovanni Bonifacio nasce a Pirano d’Istria, allora diocesi di Trieste e Capodistria, il 7 settembre 1912, da Giovanni e Luigia Busdon. Secondogenito di sette tra fratelli e sorelle, cresce tra le mura di una piccola casa in Carrara di Raspo, nel rione Piazza, in una famiglia povera, ma unita e profondamente religiosa. Il padre era fuochista sui vaporetti della Società Istria-Trieste, che collegavano le varie cittadine istriane, mentre la madre badava alla casa, all’educazione dei figli e a far quadrare le magre entrate familiari svolgendo qualche servizio presso famiglie benestanti. Fin dall’infanzia Francesco, grazie alla madre che ogni giorno lo conduceva alla prima messa del mattino, frequentò regolarmente la chiesa di San Francesco e qui fu preparato dai francescani ai sacramenti e istruito nel servizio all’altare come chierichetto.
Di natura mite, la sua fede, tradizionale per la famiglia e la comunità ecclesiale in cui vive, è «personale, radicale, lineare, non bigotta», e lo spinge a frequentare l’oratorio Domenico Savio, detto «i salesiani», e il circolo San Giorgio di Azione Cattolica. In breve, aiutato dall’ambiente, avverte fin da piccolo la vocazione al sacerdozio, tanto che, con la guida del parroco Giorgio Maraspin e l’approvazione dei genitori, nel 1924 entra nel seminario minore interdiocesano di Capodistria e qui porta a termine gli studi ginnasiali e liceali. «Di statura media, gracile e delicato, è tormentato da una incipiente asma bronchiale, che lo affliggerà per tutta la sua breve vita. Con una preparazione scolastica di base debole, non emerge, fra i suoi condiscepoli, per doti intellettuali», ma si distingue per la riservatezza nei rapporti con gli altri seminaristi e per la grande disponibilità nell’aiutarli: doti che gli procurano l’appellativo di el santin.
Alle non spiccate capacità intellettuali supplisce con la pazienza, la tenacia, la forza di volontà, la diligente applicazione agli studi, ma soprattutto col profondo ideale di diventare sacerdote, come traspare dal quaderno dei Santi Esercizi in cui scrive: «Ci vuole santità nel mondo, altrimenti l’umanità andrà sempre peggio. E chi se non (anche!) il sacerdote deve essere santo?». Nel 1931, vigilia di Natale, muore il padre, afflitto da una grave asma bronchiale, e Francesco affronta quel triste evento con la forza della speranza cristiana. La madre, nonostante le preoccupazioni per la situazione economica, vuole che Francesco continui gli studi per diventare sacerdote, e il figlio la ricambia raddoppiando l’impegno nel vivere la sua vocazione. Di fatto, durante le vacanze estive diventa il punto di riferimento degli altri seminaristi e fa in modo che la vita spirituale e i momenti di ricreazione abbiano gli stessi ritmi del seminario. Racconta don Mario Lugnani: «Radunava noi seminaristi più giovani di lui ogni mattina alla S. Messa alle 8 ai Frati. Poi andavamo assieme alla “Madonnetta”, la vicina chiesa della Consolazione, ove facevamo la meditazione assieme e, guidati da lui, facevamo visita al SS.mo, recitavamo il Rosario e ci faceva un po’ di lettura spirituale».
Nel 1932 inizia gli studi teologici presso il seminario centrale di Gorizia, mostrandosi fedele nelle pratiche spirituali e vivendo — nonostante il periodo di accesi nazionalismi — un reale spirito di fraternità con i suoi compagni italiani e slavi. I superiori avvertono in lui non solo umiltà, obbedienza e semplicità, ma anche un grande impegno nella purezza e una fedeltà al dovere «compiuto sempre fino allo scrupolo». Purtroppo, nel 1934, il cammino verso il sacerdozio subisce un rallentamento a causa di una grave forma asmatica, che lo porta in sanatorio. Ma lui scrive alla madre: «Lei sa già che imperscrutabili sono i fini per i quali il Signore permette che accadano i fatti e da noi non si richiede altro che perfetta e piena sottomissione, poiché a niente vale arrabbiarsi o brontolare. Quello che il Signore permette, quello si deve accettare senza investigare il perché, poiché ciò che il Signore permette è sempre per il nostro bene. Se il Signore vuole così, così sia!». Trapela qui la «piccola via» alla santità che Dio gli ispirava, tanto che nel suo Diario leggiamo: «Accanto ai santi straordinari e miracolosi, ornati di grazie speciali che predicano virtù straordinarie e operano grandi miracoli, esistono quelli che essenzialmente corrispondono ai doni del Signore, compiono la sua volontà, praticano una vita spirituale molto semplice e fatta di virtù comuni, fanno straordinariamente bene le cose ordinarie, offrono tutto per la gloria di Dio […] dimostrando che non esiste condizione umana nella quale non si possa aspirare alla santità».
Una volta guarito, trascorre la parte finale del quadriennio teologico a Capodistria, in qualità di prefetto di disciplina, e qui non solo incontra l’ammirazione di tanti giovani che lo vedono come un esempio da seguire, ma riesce pure a compiere gli ultimi passi del cammino spirituale e teologico che lo conduce all’ordinazione sacerdotale il 27 dicembre 1936, nella cattedrale di San Giusto a Trieste.
Un prete «con il Vangelo nel cuore e sulle labbra»
Il 3 gennaio 1937 don Francesco, accolto da una popolazione festante, celebra la sua prima messa nel duomo di San Giorgio a Pirano e rimane nel paese natale fino al 1° aprile, quando il vescovo mons. Margotti lo nomina sussidiario capitolare, vicario corale e cooperatore a Cittanova, centro urbano sulla costa istriana, dov’è parroco don Francesco Chierego. Si trasferisce qui con la madre, il fratello Giovanni e la sorella Romana, dedicandosi soprattutto alla formazione dei ragazzi e dei giovani. Fonda l’Azione Cattolica e, per favorire la formazione dei giovani, affitta una modesta casetta, ricavandone un teatrino con palcoscenico, crea una filodrammatica, indice gare, organizza gite. Il tutto per proporre sempre meglio il Vangelo e svilupparne gli approfondimenti mediante la catechesi.
In breve, come riferiscono due suoi ragazzi, don Bonifacio è un prete «con il Vangelo nel cuore e sulle labbra, un pastore buono, un grande sacerdote dall’insegnamento umile e semplice» che, in quel piccolo borgo marino, «si mescola agli uomini di mare, dice loro una buona parola, si attira la confidenza di tutti e, specialmente in occasione delle grandi festività, il suo confessionale è assediato dai lavoratori della campagna e dai marittimi che mediante il suo ministero si riconciliano con Dio». Visita gli ammalati, gli agricoltori nei campi, la gente che vive nei casolari sparsi in campagna, portando loro conforto e spesso anche un aiuto materiale. Quando nel luglio 1939 il nuovo vescovo mons. Antonio Santin lo trasferì a Villa Gardossi, come cappellano esposto — quindi praticamente autonomo dal parroco di Buie d’Istria, da cui quella curazia dipendeva —, la popolazione di Cittanova soffrì non poco e, al momento della partenza, molti piansero.
Ma don Bonifacio, che fin dal seminario aveva guardato al sacerdozio come a una missione, anche in questa occasione si piega alla volontà di Dio e si dedica con tutte le forze al nuovo incarico. Appena giunto a Villa Gardossi, nel suo Diario commenta: «Bene. Fiat voluntas tua, Domine. La salute? Quando sentirò che lo star qui è pregiudizio per la mia salute lo esporrò umilmente al mio superiore». Effettivamente quel villaggio di 1.300 abitanti è costituito da tante piccole frazioni, casolari o gruppi di case, spesso distanti tra loro, e l’unica strada asfaltata è la statale Trieste-Pola, che nei periodi di pioggia diventa quasi irraggiungibile a causa del fango. Tuttavia, se la morfologia del terreno all’inizio lo preoccupa, in considerazione della sua salute precaria, col tempo diventa un elemento da conoscere a fondo per raggiungere i suoi parrocchiani, che, benché dispersi tra colline e pianure, rimangono sempre fedeli alle tradizioni tramandate per secoli. La canonica, dove vive con la madre, il fratello e la sorella, è «una casa spaziosa di solida pietra, a due piani più la soffitta», fuori dal mondo e senza troppe comodità. Infatti, «non arriva la corrente elettrica e quindi si sfrutta la luce del giorno, ci si corica quando scendono le tenebre e per l’illuminazione si usano lumi a petrolio e candele; non c’è nemmeno l’acqua corrente», ma la si attinge con la brocca da una pozza a cielo aperto, tanto che don Francesco fa coraggio ai familiari, smarriti per quei disagi, «ripetendo che la volontà del vescovo rappresenta la volontà di Dio».
Malgrado tutto, però, la vita scorre con dignitosa semplicità, animata dallo zelo che trapela in don Francesco e contagia familiari e fedeli. A cominciare dai fanciulli che raduna intorno a sé per il catechismo; poi organizza il piccolo clero, insegna religione nella scuola elementare, organizza attività ricreative, la filodrammatica, un piccolo coro liturgico, una biblioteca e, come sempre, l’Azione Cattolica. Scrive nel Diario: «Per conquistare le anime giovanili non occorre chissà che cosa, basta la volontà e il sacrificio disinteressato». E qualche mese dopo aggiunge: «Nessuna meraviglia se la gioventù nella maggioranza dei casi è trascurata […]. E invece bisogna avvicinare tutti, per guadagnare a Cristo più anime che sia possibile».
Tutte le famiglie lo conoscono perché in ciascuna di esse si «intrattiene cordialmente sia per la benedizione delle case, sia in altre circostanze», come per l’insegnamento della dottrina a gruppi «d’estate, alla sera, nei cortili e nelle aie; d’inverno nelle ampie e riscaldate cucine ove raduna tutti i bambini» (16), e con loro anche gli adulti. Numerose sono poi le visite per confortare sofferenti e bisognosi. Don Francesco piace alla gente perché è alla mano, non incute soggezione, e le sue prediche sono disadorne ma efficaci, tanto che — pur non essendo un predicatore brillante — è ascoltato e ricercato per il «candore di quell’anima buona, che traluce dai grandi occhi chiari, colmi di benevolenza».
Nel turbine della guerra
Sebbene in quegli anni l’Italia fosse in guerra affiancando la Germania nazista, la situazione a Villa Gardossi rimase tranquilla fino al 1943, quando, con l’armistizio dell’8 settembre, il piccolo borgo diventò rifugio per i partigiani comunisti in fuga dai tedeschi che, intanto, avevano occupato l’intera Venezia Giulia, denominandola Zona di Operazioni Litorale Adriatico. La popolazione civile, trovandosi improvvisamente stretta tra il movimento di liberazione slavo e i tedeschi con le forze collaborazioniste, non sapeva più che fare. Ma don Bonifacio, per niente intimorito, continuò nella sua opera apostolica. Perciò, malgrado la pericolosa situazione, cerca di aiutare tutti — italiani e slavi, amici e nemici — e dà sepoltura cristiana a quanti, vittime dell’odio e delle vendette, sono morti nei territori circostanti. Quasi clandestinamente va di «casa in casa e nelle famiglie pregando, insegnando e animando i presenti a essere fedeli ai loro princìpi religiosi».
E quando «i giovani devono andare con le bande dei partigiani, altrimenti fanno una brutta fine, o vivere nascosti per mesi per non farsi trovare né dai nazisti né dai partigiani di Tito», egli nasconde molti in canonica e si oppone all’esecuzione di un poveraccio che i titini ritengono erroneamente un confidente dei tedeschi. In una sua memoria del 28 dicembre 1944 leggiamo: «Sono ormai mediatore tra Dio e gli uomini e devo eccellere nella vita, essere il pastore che conosce bene le strade della perfezione. […] Così io devo prendere la croce con Gesù e portarla per il bene di tante anime. Non temerò il sacrificio fino alla morte».
Purtroppo la sofferenza di quella gente e del loro parroco, come quella di tutti gli istriani, non finì con la sconfitta della Germania. Infatti, tutta l’Istria, fino a Trieste, si ritrovò ormai in balìa dei titini, e cominciarono le vendette. È noto che gli iugoslavi erano arrivati nella Venezia Giulia con un progetto nazionalista-ideologico totalitario, mirato a controllare ogni aspetto della realtà locale. Perciò nell’Istria, come a Trieste, i titini puntarono sia a eliminare sic et simpliciter gli italiani, sia a epurare il territorio da quanti potevano ostacolare il nuovo regime. E così, già a partire dal 1943, iniziarono le tragiche repressioni delle foibe, mentre nel periodo 1944-50 circa 250.000 italiani fuggirono dall’Istria. Inoltre furono riservate angherie di ogni tipo, fino al martirio, ai preti e ai religiosi che non vollero abbandonare quelle popolazioni. Nonostante tutto, però, la vita a Villa Gardossi riprese con nuovo vigore, e don Bonifacio «quanto più si vede impedito nell’esercizio del suo ministero e vede le difficoltà create ai suoi fedeli nel professare liberamente la propria fede, tanto più […] si prodiga per andare loro incontro, tenendo, ora in una casa, ora in un’altra, a più famiglie radunate insieme le sue lezioni di catechismo, per mantenere accesa in tutti, grandi e piccoli, la fiaccola della fede e della pietà». Quanto alle riunioni che organizza per i giovani, che il regime vorrebbe dalla sua parte, don Bonifacio è costretto a tenerle in chiesa «con le porte ben aperte, affinché nessuno possa diffondere sospetti paranoici di complotti anticomunisti», mentre le prediche sono controllate dai titini, al punto che qualcuno lo mette in guardia o lo invita a fuggire, poiché negli ultimi tempi le minacce si erano moltiplicate.
L’odio contro la fede e il martirio di quanti resistono
Don Bonifacio, però, che non si era mai occupato di politica, sceglie di restare per difendere la fede della sua gente dall’ateismo, anche se ben consapevole del grave pericolo che corre. Nei Predicabili scrive: «I tempi si fanno gloriosi perché è necessario lottare anche per l’idea, pericolosi perché la morte può essere a ogni pie’ sospinto», e aggiunge: «Chi non ha il coraggio di morire per la propria fede è indegno di professarla». Poi, quando vengono tagliate le funi delle campane, sente il bisogno di rivolgersi al suo vescovo e, giunto a Trieste, racconta a mons. Santin gli impedimenti e le minacce che subisce. Ma quando il Vescovo lo esorta a restare «fedele al suo dovere senza lasciarsi intimorire da nessuno», con grande serenità risponde di «aver desiderato una simile risposta, ma che ora era più tranquillo perché sostenuto dall’obbedienza». Del resto, la testimonianza cristiana è per lui, da sempre, fondamentale e comincia a prevedere il martirio, come risulta dai suoi Quaderni, dove leggiamo: «Il sacrificio. Grande lezione d’amore che invita anche noi all’imitazione. Non c’è cattedra più eloquente per un sacerdote che deve avere il Crocifisso sempre presente ovunque si trova […]. O Gesù insegnami la pazienza e la sottomissione alla tua santissima volontà».
L’11 settembre 1946, dopo un breve riposo pomeridiano, don Bonifacio si avvia per la cosiddetta «strada regia» e giunge prima a Peroi, per ordinare della legna per la casa, e poi a Grisignana, da don Giuseppe Rocco, per la confessione. Quell’incontro dura alcune ore: essi parlano delle comuni difficoltà ma soprattutto della necessità di restare fedeli al ministero e continuare a confessarsi regolarmente. Poi, nonostante che don Rocco insistesse per farlo restare — essendo già buio e, quindi, con la possibilità di fare cattivi incontri —, don Francesco prende la via di casa, benché al momento di separarsi intravedano alcune guardie popolari uscire dal cimitero. Una volta giunto a Villa Gardossi, è avvicinato dalle guardie popolari che, secondo numerosi testimoni, lo obbligano a seguirle.
«Sul giorno, le modalità, i mandanti, gli esecutori dell’uccisione di don Francesco, nonché sulla fine del suo cadavere, le versioni sono molte, non convergenti, talvolta reticenti e contraddittorie», ma dopo molte difficoltà si è giunti a questa conclusione: quasi sicuramente fu ucciso la stessa notte dell’arresto nei boschi tra Grisignana e Villa Gardossi, per mano di alcune guardie popolari mandate dalle autorità centrali iugoslave e, in un secondo tempo, «gettato da altri nella foiba della campagna di Grisignana». A sostegno di questa ipotesi c’è la testimonianza di Giordano Novacco, uno degli assassini, il quale — pagato da un regista teatrale — narrò come andarono i fatti. Insieme a un «compagno di lotta, Antonio Rak», e a un komandir hanno l’ordine di prelevare «un prete fascista, nazionalista italiano, antipopolare, antislavo» e di portarlo al comando della Polizia politica di Abbazia. Ma nel tragitto il komandir — furioso perché don Francesco «calmo e rassegnato mormora preghiere» — lo colpisce e, sentendolo dire «Dio perdoni il male che ho fatto», blocca l’auto, lo butta fuori e ordina ai due sicari di «pestarlo e spogliarlo». Don Francesco cerca di opporre resistenza e continua a pregare, nonostante le minacce del komandir che gli ordina di smettere. Colpito al viso con un sasso, prima di perdere coscienza si fa la croce. Viene «finito con due coltellate alla gola», e il cadavere, nascosto momentaneamente tra i cespugli, sarà gettato poi da altri «nella foiba della campagna di Grisignana».
Chiaramente don Bonifacio fu ucciso in odium fidei perché sacerdote, uomo di Dio, che godeva di molto ascendente sulla popolazione e, quindi, rappresentava un ostacolo per l’affermarsi dell’ideologia ateo-comunista nella zona. Benché le sue prediche non fossero contro il regime, né esprimessero opinioni politiche, la sua colpa era il voler continuare «nell’ardua strada del ministero evangelizzatore, fino all’olocausto della vita». Davvero el santin — come lo chiamavano fin dal seminario —, tanto umile e semplice, quanto deciso nel suo ministero pastorale e coraggioso fino al sacrificio della vita, meritava la beatificazione, perché — come disse mons. Santin — «possiamo credere a chi sa morire come lui».
Autore: Piersandro Vanzan
Fonte: www.laciviltacattolica.it
I suoi piccoli amici lo chiamano “el santin”. Non per derisione, ma perché tale a loro sembra quel ragazzino semplice, tanto generoso, buono fino all’accesso. Entra a 12 anni nel seminario di Capodistria e, se non eccelle negli studi, certamente si distingue per la bontà e per la vita di intensa preghiera. I seminaristi finiscono per ribattezzarlo “santo pacifico”, per la pazienza e il sentimento che mette nell’instaurare buoni rapporti con tutti, eliminare i contrasti, alimentare la spiritualità dei suoi compagni anche durante le vacanze. Prete a 24 anni, dopo tre anni di tirocinio, nel 1939 lo mandano come cappellano a Villa Gardossi, 1300 anime disseminate in casupole e casolari lungo i pendii collinari tra i paesi di Buie e Grisignana. Il giovane prete si butta a capofitto nel lavoro, riorganizzando il catechismo, l’Azione Cattolica, il gruppo chierichetti, la cantoria parrocchiale. Soprattutto cura con particolare attenzione il rapporto personale con i suoi parrocchiani: tutti i pomeriggi sono dedicati al contatto diretto con la sua gente, che va a cercare di casa in casa, soprattutto dove immagina ci sia qualche malato da confortare o qualcuno da incoraggiare. Non scoppia di salute, a giudicare dall’asma che lo tormenta da sempre e dalla tosse insistente e cronica che rivela i suoi tanti problemi bronchiali e polmonari. Eppure, con qualsiasi tempo, appoggiato al suo bastone e accompagnato dal suo cane, percorre in lungo e in largo la sua valle, fermandosi solo di tanto in tanto a riprendere fiato.La mamma e il fratello minore si trasferiscono con lui in canonica, per condividere la sua vita semplice e povera in quella valle in cui manca l’elettricità, l’acqua potabile bisogna andarla cercare in sorgenti distanti da casa, la terra è avara. “Tirano cinghia” anche loro, accontentandosi di molte minestre, di polente quasi quotidiane e di uova. Sempre che lui, il pretino che si fa tutto a tutti, non le porti prima in qualche casa dove le bocche da sfamare sono troppe e non tutti hanno qualcosa da mettere sotto i denti. Un prete così si fa amare, ispira simpatia, attira consensi. Forse anche troppi, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, quando si espone in prima persona per evitare inutili carneficine e rappacificare gli animi, rivelandosi davvero quel “santo pacifico” che i suoi compagni avevano conosciuto negli anni di seminario. E tale continua ad esserlo anche a guerra finita, quando l’Istria vive uno dei più bui momenti della sua storia passando di fatto sotto la diretta amministrazione del governo iugoslavo. Che avvia un’opera di vera e propria pulizia etnica, con esecuzioni sommarie e migliaia (4000 per le fonti ufficiali, forse addirittura 20000) di giustiziati “fatti sparire” nelle foibe, cioè nelle cavità carsiche di cui il territorio è ricchissimo. Sorprendente il coraggio sfoderato dal prete malaticcio e timido solo all’apparenza. Esclusivamente in nome del vangelo, e non di vaghe teorie pacifiste, continua ad esplicitamente ammonire ed istruire, dall’ambone e a catechismo, negli incontri personali e nelle adunanze pubbliche. Dà fastidio, quel prete, e cominciano a fioccare avvertimenti e minacce. Continua imperterrito in nome di Cristo, limitandosi a consultare il suo vescovo, che lo consiglia di essere prudente e di limitare la sua attività all’interno della chiesa, evitando ogni presa di posizione pubblica. “Era quello che pensavo”, dice il prete, “ma aspettavo che mi venisse imposto per obbedienza, perché solo così sono certo che questa è la volontà di Dio”. Ma ormai la sua sorte è segnata: lo aspettano l’11 settembre 1946, al ritorno da Grisignana, dov’è andato a confessarsi. Lo vedono sparire nella boscaglia, sotto la scorta di alcune “guardie del popolo” e da quel momento nessuno saprà più nulla di lui. Solo negli ultimi anni un regista teatrale è riuscito a mettersi in contatto con una di quelle “guardie” ed a ricostruire le sue ultime ore: sequestrato, spogliato, insultato, torturato e umiliato, viene riempito di botte, preso a sassate e finito poi con due coltellate. I suoi resti a tutt’ora non sono stati identificati, perché probabilmente il cadavere è stato fatto sparire, “infoibato” come quello di tanti altri innocenti.
Il 4 ottobre 2008 don Francesco Bonifacio è stato proclamato beato, riconoscendo che la sua morte è avvenuta in “odium fidei”, cioè in odio alla sua fede, al Vangelo, alla chiesa e al suo ministero sacerdotale, svolto con troppo coraggioso zelo.
Autore: Gianpiero Pettiti
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