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Giosuè Borsi Terziario francescano

Festa: Testimoni

Livorno, 10 giugno 1888 – Zagora, Marocco, 10 novembre 1915

Un genio sin da bambino, prodigio nell’arte letteraria, Giosuè Borsi diviene presto un uomo di brillante carriera, soprattutto teatrale, frequentatore dei più ambiti salotti, delle più note personalità. Ma presto sopraggiunge il dolore, un dolore salvifico, poiché lo conduce a Dio.



Quando nacque a Pisa il 10 giugno 1888, figlio di un battagliero giornalista, ne fu data notizia al padrino prescelto con questo telegramma: «Il più piccolo Giosuè saluta il più grande Giosuè d’Italia». Il più grande era il professore e poeta Carducci; il più piccolo, appena nato, era Giosuè Borsi.
Appena aprì bocca, si rivelò un bambino prodigio. A 5 anni già scriveva poesie come la seguente: «Signori miei, / oggi è la mia festa, / compio cinque anni / dai piedi alla testa. / Oggi, come vi ho detto / compisco cinque anni: / non mi stanno più / nemmeno questi panni. / Bisogna farli nuovi... Pazienza! / E quest’altro anno? / Nemmeno gli altri panni / addosso mi staranno. / Non ne parliamo più / ora di economia, / facciamo un piccol brindisi / alla salute mia!».

Giovane idolo

Un piccolo genio dimostrò di esserlo quando mise piede a scuola, apprendendo di tutto in modo quasi pazzesco. In pochi anni diventò poeta, novelliere, scrittore e attore di teatro, critico letterario, della razza dei giovani letterati e uomini d’azione suoi contemporanei come Renato Serra, Scipio Slataper e Piero Gobetti.
La sua educazione, nonostante il Battesimo cattolico, fu “laica”, il suo modello di vita, il laicissimo Carducci. In breve, fu un protagonista della vita intellettuale e brillante della sua città e l’idolo dei salotti del bel mondo delle lettere e dell’alta società: slanciato di statura, atletico, di bell’aspetto, non poteva far altro che affascinare dovunque passasse, guardato con invidia dai maestri veri o sedicenti della cultura e dell’università e con attenzione dalle giovani donne alle più attempate signore.
L’ingegno e l’attività teatrale, i suoi “pezzi” spumeggianti di giornalista, gli diedero presto fama in tutta Italia. Studente universitario prese parte a diverse rappresentazioni del teatro greco a Siracusa e a Fiesole: magnifico attore. Gli scritti dell’adolescenza e della giovinezza presagivano presto le opere e i capolavori della maturità. A 25 anni era già direttore del Nuovo giornale di Firenze.
Precoce e appassionato, gustò con avidità i frutti del denaro, del successo e del piacere. Vita da pagano e scettico razionalista. Ma era pur stato battezzato... Piccolo bimbo, si era pure accostato alla Prima Comunione e in lui era rimasto il “sigillo” del Cristo, incancellabile, nonostante tutto.
Egli stesso, fatto adulto, nel pieno del tralignamento, amava qualificarsi cattolico, perché ammirava il rigore logico della Dottrina: lui, razionalista, capiva che il Cattolicesimo è grande e sublime, non una favola per bambini o uno stile da nanerottoli. Questa ambiguità di vita però non poteva durare.

Nuova vita

A scuoterlo, sopraggiunse il dolore. «Dio è il pastore – scrisse René Bazin – e il dolore è il suo cane: ha il morso duro, ma per il bene».
La prima esperienza dolorosa per Giosuè fu la morte di suo padre, il dottor Averardo, che a lui pareva non dovesse mai morire. «Se babbo è morto, se morirà anche la mamma... morirò anch’io... che mistero la vita!».
La seconda esperienza di dolore fu la morte della sorella Laura, che andandosene lasciò a lui la cura del suo bambino amatissimo, Dino. Giosuè cercò di reggere, ma a lui, non credente, l’esistenza parve davvero un tenue frammento tra «il non c’ero ancora» e «il presto non ci sarò più». Con la forza di uno stoico antico, provò a continuare la sua esistenza brillante.
Ma sopraggiunse la terza terribile disgrazia. All’inizio del 1914 era a Milano per la recita delle Baccanti di Euripide: tutta la città aristocratica e salottiera attendeva di vederlo e di goderlo. Era già sul palco, truccato, quando gli venne portato un telegramma: «Dino gravissimo, torna subito».
Finita la rappresentazione, corse a Firenze. Troppo tardi: Dino, il suo nipotino, il suo gioiello, che amava come un figlio suo, era già morto. Con il cuore schiantato, esclamò: «Se Dio non c’è, la vita è una cosa bestiale, un nulla tragico e inutile, una pazzia!». L’idolo dei salotti e della cultura italica, nella morsa del dolore si avviava a riscoprire Colui che è l’unica risposta al problema della vita, del dolore anche innocente, e della morte: Gesù Cristo Crocifisso e risorto.
Si trovò in quei giorni neri a dover preparare una novella su san Cristoforo: preparandosi in modo coscienziosissimo, com’era solito, fu costretto a leggere molti testi sacri e a meditarli a lungo. Erano nuovi orizzonti che si aprivano alla sua mente. Poi avvenne un incontro determinante. A Livorno viveva e lavorava un grande scienziato, il padre Guido Alfani, Scolopio e uomo di Dio. Un certo ingegnere pretendeva di aver scoperto il modo di far scoppiare, a qualunque distanza, degli esplosivi mediante l’elettricità. Padre Alfani nicchiava. Giosuè Borsi invece ci credette e, poiché l’ingegnere aveva promesso di esibire un esperimento alla presenza di padre Alfani, Giosuè, il solito intraprendente, portò nello studio di questi l’esplosivo a ciò preparato.
Ma l’ingegnere non si presentò. Padre Alfani commentò il fatto con parole dure, a cui Giosuè rispose: «Questa non è carità cristiana!», cui padre Alfani ribatté: «Scusi, figliolo, ma prima della carità c’è la Verità e l’onestà, mai l’imbroglio; nella vita occorre difendere sempre la Verità, mai il falso o l’ambiguo». Giosuè crollò: «Ha ragione, padre, mi piace quel che dice e come lo dice: per questo vorrei confessarmi da lei» (i preti veri si meritano la fiducia anche dagli atei!).
A questa richiesta, ripetutagli altre volte, il Padre non diede ascolto ma presto si sentì dire: «è la terza volta che le chiedo di confessarmi da lei, perché lei cambia discorso?». «La Confessione è una cosa seria». «Ma io voglio fare sul serio!». «Vuole anche cambiare vita?». «Sì, padre, io ora muterò completamente vita».
Raccolse tutte le sciocchezze che aveva scritto in un fascio e vi scrisse sopra «sepolcreto». Il 16 luglio 1917, lui, aristocratico e coltissimo, che non si era mai inchinato a nessuno sulla terra, si pose in ginocchio davanti al Crocifisso, alla presenza di padre Alfani, e umilmente, piangendo amaramente il suo passato, fece la Confessione generale della sua vita brillante ma così povera e vuota.
Quando si alzò, aveva intravisto la gioia che Dio solo gli preparava in Cristo. «Padre – disse –, mi doni dei libri che mi facciano conoscere e amare Gesù Cristo». Ebbe La divinità del Cristianesimo del Giovanozzi. L’indomani già tornava a restituirlo: l’aveva divorato da cima a fondo. Il Padre gli diede in lettura i testi sublimi di sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino, Dante, Manzoni... gli uomini più grandi, più dotti e più buoni del Cattolicesimo. Il 17 luglio 1914 si era accostato durante la Santa Messa alla sua seconda “prima Comunione”, sperimentando una gioia nuova, mai provata.
Da allora sarà l’intimo amico di Gesù, il suo testimone, il suo apostolo nel mondo, nella manciata di mesi che gli resteranno da vivere. Ogni giorno il Rosario alla Madonna, lo studio della Fede sui grandi Maestri citati, il colloquio prolungato con Gesù davanti al tabernacolo in chiesa o presso il Crocifisso nella sua camera, con il Vangelo fra le mani, in ascolto di Lui che gli parla Cuore a cuore: «Ecco – diceva –, io davanti a Gesù, posso solo stare con la faccia a terra e sacrificarmi per espiare e riparare, fino a dare la vita».

Soldato di Cristo

Di lui lasciò scritto padre Alfani: «Era di una obbedienza assoluta. Nel giudicarlo, mi proposi due norme. Prima gli impedii assolutamente che mutasse quel suo fare gioviale, lieto e disinvolto. “Devi conservarti come sei – gli dicevo –, quanto ai doni di natura, basterà che tu corregga i difetti e li metta a servizio del bene”. In secondo luogo, lo tenni molto umile: “Fa’ buono te stesso, purificati dai tuoi peccati, assoda la virtù; il bene irradierà da te come il calore dal fuoco; nutri in te la vita della grazia santificante e lascia a Dio di indicarti la via per fare il bene”».
Con questo stile, semplice e buono, nello studio, nella preghiera, nel perfezionamento della vita cristiana, si preparò a ricevere la Cresima. A chi gli domandava perché ancora la differisse, rispondeva: «Voglio disciplinare la mia vita sul Vangelo. Devo superarmi, diventare un altro. Devo approfondire la Dottrina cattolica». Il 30 aprile 1915 ricevette la Cresima dal card. Maffi, arcivescovo di Pisa. Rimane a lungo in preghiera da cui si alzò proclamando: «Ora sono davvero Miles Christi!».
“Miles”, cioè soldato, militante per Gesù. Si fece Terziario Francescano e, sotto gli abiti eleganti, cinse il cilicio per far penitenza e riparare i suoi e gli altrui peccati. Si impegnò a confessarsi almeno ogni 8 giorni (a volte anche più spesso) per una sete di purezza che ormai era la sua vita. Ogni giorno, era alla Messa con la Comunione, per essere “uno” con il Sacrificio di Gesù e preparando il sacrificio della sua vita che, sente anche lui, presto gli sarà richiesta.
Intanto scriveva con il suo genio quelli che, pubblicati dopo la sua morte, saranno I colloqui, e Le confessioni a Giulia e il Testamento spirituale, pagine ardenti di fede, di una giovinezza redenta dal Sangue di Cristo e ritornata a Lui luminosa.
Il 10 agosto 1915 convocò a Firenze nella sua bella casa gli amici più cari e illustri: Bontepelli, Palazzi, D’Angelantonio... Fu una notte di prodigio: c’era il cielo carico di stelle cadenti. Giosuè lesse agli amici il canto XI del Paradiso di Dante, su san Francesco d’Assisi, e regalò il suo Testamento spirituale. L’indomani, partì per il fronte nella terribile guerra in cui l’Italia era entrata in maggio. Aveva la certezza di non tornare più: «Tutto sta per naufragare in Dio».
Con il grado di tenente, verso i suoi soldati era di una bontà avvincente: sentivano in lui la presenza di Dio e un cuore di fratello, anzi di madre. Anche i più duri si commuovevano quando lo vedevano prostrato nel fango delle trincee, in preghiera sgranando la corona del Rosario alla Madonna, con quelli che volevano unirsi a lui. Il 10 novembre 1915 cadde fulminato al fronte, in battaglia a Zagora, non lontano da Gorizia. Quando i suoi commilitoni andarono a prenderlo, trovarono sul suo petto il Vangelo e il “Dantino” (una piccola edizione della Divina Commedia) intrisi del suo sangue e legati insieme dal Rosario.
Il cimitero in cui venne sepolto a Plava fu sconquassato dalle artiglierie, ma sua madre, la signora Diana, ebbe la certezza – forse da Dio stesso – che il corpo del Milite ignoto, portato a Roma a rappresentare tutti i soldati caduti in guerra, fosse quello del suo Giosuè, perché «lui me l’ha confidato in ispirito e me lo sussurra ogni volta che prego per la sua anima».
I suoi libri di convertito, usciti dal 1915 al 1920, insieme al suo esempio, condurranno molti giovani e adulti alla Fede, resi pensosi anche da una sua famosa parola: «La vita è una moneta e va spesa al più alto prezzo... per Lui solo: Gesù Cristo».

Autore: Paolo Risso

 


 

La moderna e più ampia dizione di «comunicatore sociale» bene si sarebbe riferita al giovanissimo giornalista toscano Giosué Borsi che fu anche autore di commedie, di racconti, di poesie, attore. Se allora, nei primi quindici anni dello scorso secolo, ci fosse stata la televisione, Giosuè Borsi avrebbe saputo usare con pari successo ogni forma moderna di comunicazione. Sembra quasi incredibile che oltre agli articoli e alle commedie pubblicati con clamoroso successo in vita, altri scritti, diari, racconti, interi romanzi di Giosué siano stati scoperti dopo la sua morte, avvenuta sul fronte della prima guerra mondiale il 10 novembre 1915. Eppure quando morì aveva appena ventisette anni.
Lascia ancora più stupiti che questo scrittore e giornalista, morto da eroe di guerra in atto di proteggere i suoi soldati, sia stato un precursore dei moderni movimenti pacifisti e della non violenza. Arrivò a dichiarare che «la guerra è un’empietà» per un cristiano. E questi appelli furono scritti mentre ferveva in tutta l’Europa l’ansia di usare le armi.
Giosué Borsi nacque a Livorno nel 1888 e si trasferì a Fienze quando il padre Averardo divenne uno dei fondatori del «Nuovo giornale». Laureato con brillanti studi Giosué divenne personaggio di successo nella Firenze del primo Novecento, tra innovazioni d’arte e tumulti provocati dalla miseria dilagante. Piero Bargellini narrò i momenti della conversione di Giosué a una nuova vita, nascostamente impegnata in una ricerca religiosa. Nei diari intimi, non destinati alla pubblicazione, questo impegno interiore prese il modello dal ben noto libro L’imitazione di Cristo.
L’apparente motivo della scelta fu il colloquio per un fatto di cronaca con padre Alfani, scolopio, scienziato e uomo di rigorosa fede cristiana. Il motivo vero erano alcune dolorose vicende familiari. Per la prima volta Giosué si confessò, ebbe l’Eucarestia. Poi si fece terziario francescano e trovò suoi consiglieri tra i padri del convento di San Salvatore al Monte.
La prova esteriore dell’adesione appassionata al Vangelo di Cristo fu la mancata adesione alle vocianti manifestazioni di piazza che chiedevano la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Fu accusato di essere «un cattivo cittadino». Giosué scrisse: «Un cristiano non può amare la guerra».
Il 24 maggio, quando l’Italia entrò nel conflitto, la realtà storica impose a Giosué una scelta. Folle atterrite fuggivano dal fronte, inermi e in cerca disperata di protezione. Che fare? Giosué sentì come un dovere assoluto partecipare alla tragica sorte della sua generazione, con tutti i rischi e le sofferenze dei suoi coetanei, senza privilegio alcuno, e si arruolò. Come ogni laureato divenne subito ufficiale, con fascia azzurra a tracolla e spalline dorate sull’uniforme da combattimento, facile bersaglio sul fronte.
Appena fu nelle retrovie Giosué scoprì che gli orrori della guerra erano nella realtà di gran lunga più tragici di quanto avesse immaginato. Ebbe perfino il dubbio che l’Italia, patria amatissima, potesse davvero vincere la guerra. Sentiva che il disastro di una sconfitta avrebbe fatto rinascere l’Italia a una nuova vita: «Se... è meglio per noi e per il mondo... la sconfitta dell’Italia ... ebbene, Signore, accetto di cuore il tuo decreto....». Fa impressione scoprire che la madre Verdiana fece pubblicare l’inquietante scritto circa trent’anni dopo, nell’estate del 1943, duranre la secoinda guerra mondiale, mentre in Italia ormai combattevano tanti eserciti stranieri ed era prossimo l’armistizio dell’8 settembre.
Pochi giorni dopo quei tristi presentimenti, nell’ottobre del 1915, Giosué scrisse il testamento spirituale: «Che Dio... abbia pietà degli uomini, dia loro la pace, e allora, mamma, non saremo morti invano. Ancora un tenero bacio». Il 10 novembre ci furono il primo attacco e la morte. Nel furore del combattimento furono salvati un piccolo Vangelo e una piccola Divina Commedia che Giosué aveva sul petto. La salma andò dispersa.
Il «Dantino», come fu detta quella copia insanguinata della Commedia rimase a lungo a Firenze in un sacrario a Montughi ed è stato poi trasferito in un museo dei Combattenti e reduci a Livorno. Testimoni sanno che una pagina tratta da uno dei due libretti fu donata da Verdiana Borsi a don Giulio Facibeni. Il fondatore della «Madonnina del Grappa» la tenne sempre in una cornicetta sul comodino in camera da letto.
Dopo la fine della prima guerra mondiale furono via via pubblicati anche gli inediti di Giosué Borsi e su quelle pagine trassero motivo di speranza e di forza tanti uomini dei movimenti cattolici fiorentini negli anni tra le due guerre mondiali.


Autore:
Nereo Liverani

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Aggiunto/modificato il 2014-03-25

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