Il giorno di Natale 1919, a Montecchio (Reggio Emilia), nell'umile casa di Francesco Jemmi, tornato dal servizio militare nella guerra appena finita, ormai fragile di salute, e di Angiolina Bertani, c'è clima di attesa. L'indomani, 26 dicembre 1919, festa del primo martire S. Stefano, nasce un bimbo piccolo piccolo, che la sorella maggiore Elide guarda stupita e contenta. Al Battesimo, viene chiamato Giuseppe: in casa sarà "Fepo" e, qualche volta per ridere, "Feppone". Mamma Angiolina fa la postina e quasi tutto su di lei grava il peso di condurre avanti la famiglia, perché, papà Francesco sarà sempre più malato, come invalido della "grande guerra". E’ energica, piena di fede e di amor di Dio, affettuosissima con i figli, generosissima con tutti. Dimorano alla borgata Enza, in un gruppo di case, detto "la Cina", per il colore politico "rosso" di molti suoi abitanti. La famiglia Jemmi è una delle poche a frequentare la parrocchia. "Pepo" cresce appassionato di Gesù, impara prestissimo a servire la Santa Messa, senza arrendersi mai di fronte a quelli che lo canzonano per la sua fede. Un giorno, domanda alla sua mamma perché quel posto si chiami "Cina". Ricevuta la spiegazione, risponde: "Io quando sarò grande, andrò missionario nella «vera» Cina a portare Gesù a quelli che non lo conoscono o lo odiano". Il 13 giugno 1927, riceve la Cresima. L'anno dopo, nel 1928, muore papà Francesco. Il 13 giugno 1929, Giuseppe riceve la prima Comunione: è molto contento di avere con sé Gesù vivo... Confida alla mamma, ripetendolo sovente: "Voglio farmi prete". Davanti alle sue insistenze, la mamma si rivolge al Parroco, il quale rimane molto perplesso, non credendo che possa uscire qualcosa di buono da quel gruppo di case. La donna ribatte: "Mio figlio non potrà diventare prete, solo perché noi siamo della «Cina»?". All'inizio di ottobre del 1930, Giuseppe entra in Seminario, a Marola, mentre la mamma si sobbarca da sola i sacrifici per farlo studiare. Con molto impegno, il ragazzo riesce sempre onorevolmente nello studio. Spesso dalle finestre e dal cortile del Seminario, indugia a guardare il monte Fosola, che si erge a mezzogiorno con i suoi circa mille metri di altezza. Intende la vita - e il sacerdozio - come una continua ascesa, un offerta. Al termine del ginnasio, nel 1935, Giuseppe passa al Seminario Maggiore ad Albinea. La mamma gli dice: "Pepo, se non vuoi fare il prete, vieni pure a casa tranquillamente. Se vuoi fare altri studi, io ci penserò. Ma bada bene: se vuoi fare il prete, devi diventare un prete bravo!". Lui lo sa bene: non si fa prete "per sistemarsi", per essere un don Abbondio qualunque, ma per offrirsi, per quel Gesù, che contemplato sulla croce, gli riscalda ogni giorno di più il cuore. Il 21 settembre 1939, riceve la sacra tonsura e sta per cominciare gli studi teologici. E’ sempre più assillato dal desiderio di farsi missionario, anche se è malaticcio, per andare in Cina a convertire tutti a Gesù Cristo. Si presenta al Generale dei Saveriani di Parma (affascinato dalla figura eroica del loro santo Fondatore, Mons. Guido Conforti) e gli apre il cuore. Quello gli risponde: "Entra in noviziato". Giuseppe obbedisce subito. Negli esercizi spirituali d'inizio d'anno, scrive: "Il mio cuore prova un grande dolore per il distacco dalla mamma, dagli amici... Ma corro dietro la Croce". Però un mese dopo, è così malandato di salute che rischia la vita. Ricoverato all'ospedale di Montecchio, è salvato dalle cure premurose e sapienti del prof. Pampari, al quale, quando è dimesso per la convalescenza, dice: “E’ difficile guarire i corpi, ma, creda, è più difficile guarire le anime”. Il 2 dicembre 1939, è di nuovo in Seminario diocesano, ma non rinuncia all'ideale missionario. Il suo sguardo, la sua vita, il suo amore s 'incentrano sempre di più su Gesù, su Gesù Crocifisso: non vede che Lui solo, Lui sempre, Lui ogni giorno di più. Studia teologia con passione, per conoscerlo e amarlo, per farlo conoscere e amare, per condurgli le anime e farle sue. Prega molto, anche nei ritagli di tempo, anche passando, in silenzio, da un locale all'altro del Seminario. Gli piace la musica e il canto: senza che se ne accorga, la sua preghiera spesso diventa canto, dolce e appassionato. Gli piace suonare l'harmonium e il violino e vorrebbe comprarseli solo per sé. Annota sul diario: "Siate virtuosi e sarete allegri. Siate allegri e sarete virtuosi". A volte è un po' sconsolato perché da qualcuno che lo vorrebbe compassato e diplomatico, gli sembra che gli sia proibito entusiasmarsi. A volte giudicato come "un allievo con incrinature di superbia". Accetta i richiami con umiltà dicendo a se stesso: "Jemmi, Jemmi, futuro pedagogo, impara!", ma alza lo sguardo al Crocifisso, pensa alle Missioni e ritrova energie e coraggio. Forse reagisce così per superare la sua naturale timidezza, ma è certo che Gesù Cristo per lui non è un sonnifero, ma la passione che lo mobilita. All'avvicinarsi dell'ordinazione sacerdotale, nel 1942, fissa nel suo quaderno personale 15 punti per essere un vero prete. Al primo posto, il Santo Sacrificio della Messa e la preghiera, poi l'obbedienza al Papa e al Vescovo, le Missioni, i poveri, suoi prediletti, nei quali serve Gesù, ai quali porterà Lui come unico Salvatore. "Quando sarò prete - scrive - non comprerò la legna per riscaldarmi; i soldi per questo scopo, li destinerò alle Missioni. La salvezza delle anime - cui sono mandato - deve essere pregna di lacrime acri e di viscido sangue. Signore, benedici e conforta questo proposito, Tu che conosci la mia debolezza". Infine: "Gesù, dammi di essere prete, focosamente prete. Lo so, non vi è conquista senza sofferenza". Nel 1943, è ordinato sacerdote dal Vescovo Mons. Eduardo Brettoni, e mandato vice-parroco a Felina, dove, come altrove, la guerra in corso, ha provocato rovine, rancori e lutti. Vi trova il Parroco don Corsi, anziano e infermo. Il lavoro da compiere è grande. Don Giuseppe, ogni giorno in preghiera davanti al Tabernacolo, poi sulla bici o a piedi a visitare i parrocchiani, in primo luogo i bambini, i vecchi, i malati, rivela subito il suo animo buono, sempre sorridente, pieno di carità verso tutti. Non attende mai in canonica, che vengano a lui, è lui che va dagli altri, a portare Gesù, parlando con tutti, "semplice come un bambino". E’ molto amato, ma già guardato "a vista" da qualcuno. Nel settembre 1943, si avvia la lotta per la resistenza ai nazifascisti: lui dà una mano affinché l'Italia ritrovi la libertà perduta. Aiuta i braccati dai violenti di ogni colore. Dà sepoltura agli uccisi insepolti, si reca a trattare perché nessuno finisca in Germania o in carcere, spesso preludio della morte. Non si arrende neppure quando rischia la pelle. Pretende, lui così timido apparentemente, che si evitino violenze, il più possibile, forte del comandamento di Dio, scritto nel cuore di ogni uomo: "Non uccidere", e del precetto nuovo della carità: "Amate i vostri nemici". Dilaga un clima di odio, in primo luogo contro i preti, da parte di molti faziosi. Nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1945, vengono uccisi due padri di famiglia, persone oneste e buone. Al funerale, don Giuseppe piange come un bambino. Il 10 aprile 1945, è Pasqua. Nella zona si affermano i partigiani comunisti. Don Giuseppe si reca nelle case in cotta e stola, per le benedizioni pasquali, accompagnato da due ragazzi, Raimondo e Meo, che spesso lo sentono ripetere: "Devo avvisare il tale che si metta in salvo perché lo vogliono uccidere". La domenica in Albis, 8 aprile 1945, alla Messa delle undici, la più frequentata, don Giuseppe sente che deve proclamare "focosamente" la legge di Dio: "Fratelli, sta scritto: non ammazzare' Non macchiatevi le mani di sangue. La giustizia non è nelle nostre mani, ma in quelle di Dio. Non ascoltate la tentazione della vendetta. Non siate i figli di Caino". Un brivido di commozione percorre la chiesa. Piange. Piangono tutti. Lui continua, implacabile: "Spose, che l'odio ha gettato nel lutto; non temete: il Signore infonderà nel vostro animo quella pace che gli empi non avranno mai. Non ci sarà pace per gli uccisori perché il rimorso del delitto li inseguirà a ogni ora... Questo delitto chiede giustizia a Dio e agli uomini!". Subito dopo la Messa, qualcuno lo ferma sul sagrato e gli dice: "Per carità, che cosa le faranno adesso?". Risponde: "Uccideranno anche me? Ebbene, sconterò il mio purgatorio e andrò diritto in Paradiso, suonando il violino!". Il 19 aprile 1945, don Giuseppe va a celebrare la Messa a Poiago per un funerale. Quando rientra a Felina, verso le 13, gli viene detto che sono venuti in due a cercarlo perché c'è bisogno di lui. Don Giuseppe non indugia neppure a pranzare e, in bici, va al luogo dell'appuntamento: è prete e come può astenersi dal servire i fratelli? Ma quando li vede, comprende bene che cosa vogliono. Per tutto il pomeriggio, tra Monchio e il monte Fosola, dove viene trascinato, nelle mani dei comunisti, è trattato come Gesù tra il pretorio di Pilato e il Calvario, soprattutto dopo che, riuscito a scappare per qualche momento, è di nuovo catturato e condotto a morte. All'imbrunire, sul monte Fosola, una raffica lo abbatte sul ciocco di un albero tagliato: cade con il cranio trapassato e la mascella spezzata, nel suo sangue. Ha 25 anni appena ed è "colpevole" di essere sacerdote di Cristo e di aver proclamato, con chiarezza il comandamento della Verità e dell'amore! A Felina, il vecchio Parroco e mamma Angiolina, quasi presaga della tragedia, sopraggiunta per vederlo, lo attendono invano. All'indomani, 20 aprile 1945, i due fedeli chierichetti, Raimondo e Meo, mandati dal parroco, scoprono sul Fosola il loro amatissimo "don Pepo", immolato come il Cristo Crocifisso. Si inginocchiano a baciargli le mani e giurano: "Noi ora prenderemo il tuo posto... Noi saremo sacerdoti di Gesù, come te!". Lo diventeranno entrambi, nel 1954 e nel 1956. Sul diario di don Giuseppe, in quei giorni, si trova scritto: "Tratterà i nemici come fossero uomini afflitti". "Il sorriso dev 'essere la candida veste che nasconde la penitenza e vela all’occhio profano gli eroismi dell'immolazione a Dio". Sull'ultima pagina: "Amo i giovani, li desidero puri, entusiasti per Gesù Cristo, sognatori senza calcolo, pieni di dedizione". Al processo contro i suoi uccisori, venne anche mamma Angiolina... e andò a inginocchiarsi davanti a quegli uomini e disse loro: "Solo quando sarete padri di famiglia, saprete quanto dolore mi avete dato". Tratta dal petto la corona del Rosario, continuò: "Questa non uccide, ma perdona". Dicono che quando quelli uscirono dal carcere ed emigrarono lontano, ella si preoccupò segretamente di tenere i contatti con loro, forse per aiutarli... Solo Gesù rende capaci di "storie" così, perché soltanto Lui è più ardente del fuoco, è fuoco divorante; l'impeto della vita divina che santifica, e della gioia.
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