La comboniana suor Liliana Rivetta era nata il 15 novembre del 1943 a Gavardo (Brescia), figlia del muratore Angelo e della casalinga Angela Seminario. Liliana fu uccisa in Uganda il 10 agosto 1981, mentre stava percorrendo su una strada infestata da banditi armati, nel distretto di Karamoja per provvedere cibo e vestiti ai bambini bisognosi della sua missione di Amudat.
Liliana era cresciuta nel suo paese natale in seno alla sua calorosa famiglia composta da tre femmine e un maschio. Nel gennaio del 1945, una bomba era caduta sulla casa dei Rivetta. Tutti ne erano usciti illesi, inclusa la piccola Liliana che stava dormendo nella culla. Il padre, che lavorava in Germania, quando aveva saputo dell'incursione aerea era corso a casa e aveva trasferito la famiglia a Muscolino.
Alla fine della guerra la famiglia si era trasferita di nuovo a Gavardo nella vecchia casa ristrutturata. Liliana frequentava le elementari e nel contempo andava al catechismo per prepararsi alla prima comunione.
Un giorno il parroco le disse che non c'era nessuna santa Liliana nel calendario. L'intelligente bambina aveva risposto con un sorriso birichino: "Non fa niente, vorrà dire che lo diventerò io!".
Liliana era piuttosto irrequieta a scuola ma brillava nel profitto. All'età di 14 anni, tuttavia, aveva abbandonato gli studi ed era andata a lavorare in una sartoria. A 16 anni aveva chiesto ai suoi genitori il permesso di farsi suora, ma questi avevano rifiutato e lei aveva dovuto aspettare la maggior età quando non avrebbe più avuto bisogno del loro consenso.
Il 26 marzo 1965, all'età di 22 anni, Liliana, approfittando dell'assenza dei genitori e, accompagnata dalla sorella Aldina e dal cognato Carlo, aveva preso il treno per Verona ed era entrata dalle suore comboniane, fondate da Daniele Comboni, il cui motto era "Nigrizia o Morte".
"La mamma vuole un principe azzurro per me; ho sposato il Re dei Re e lei non è contenta!". Sua madre aveva cominciato a curare l'aspetto della figlia fin da piccola nella speranza che un uomo ricco avrebbe sposato la sua Liliana.
Quando sua figlia aveva annunciato che il nome del suo principe era Gesù, senza volerlo aveva infranto il sogno materno. L'arma che la madre utilizzò per combattere la decisione della figlia - un capriccio passeggero, senza dubbio - fu una silenziosa disapprovazione: niente visite, niente lettere fino al giorno in cui la sua bambina sarebbe ritornata in sé e avrebbe fatto ritorno a casa.
A casa quella figlia "sedotta" non sarebbe più tornata "per tutto l'oro del mondo. 'Non ho giocato la mia vita per scherzo!'". Aveva trovato la pace e la felicità in convento ed era pronta a superare ogni difficoltà per raggiungere il suo obiettivo: servire il suo Maestro e Principe nei più poveri e abbandonati africani.
Liliana soffriva per i legami rotti con i suoi genitori perché li amava molto. Questo era il costo della sequela: "Coloro che amano il padre e la madre più di me non sono degni di me," aveva detto Gesù. Aveva sfidato sua sorella Aldina: "Tu ami Carlo, io amo Gesù. Vediamo chi supera l'altra nelle sfumature".
Come tutte le innamorate, Liliana aveva occhi solo per l'amato: "Gesù è il più meraviglioso, il più grande, il più bello, il migliore di tutti". Si sforzava di imitarlo, di servirlo, di diventare sempre più come lui, e di diventare santa come lui è santo.
Le superiore avevano deciso di mandarla a Londra per il noviziato, lontana dalla madre ostile, nella speranza che le relazioni tra le due migliorassero. Il periodo di apprendistato alla vita religiosa era il tempo per entrare sempre più in intimità con Dio: "Sto bene e sono felice, specialmente quando mi tengo stretta a Gesù, il solo che conti". La sua gioia era traboccante: "Sono felicissima, la vita mi ha dato il meglio: 'pace e serenità.' Non riesco a immaginare niente di meglio che vivere santamente".
Al dolore dell'opposizione dei genitori si era aggiunto quello della disapprovazione delle suore; Liliana era una donna che non saltava facilmente sul carro, si atteneva alle cose essenziali: amore per Dio, amore per le consorelle, e amore per l'Africa. Di conseguenza non permetteva che le molte regole la plasmassero così tanto da soffocare il suo spirito libero. Non aveva mai perso il suo sorriso timido e accattivante; piaceva alla gente, ma le superiore qualche volta avevano scambiato la sua spensieratezza come segno che il convento non era il suo posto. Era appena ventenne e forse avrebbe potuto ritornare sulla sua decisione... Liliana non si era scomposta per la reazione delle superiore, la posta in gioco valeva di più di qualsiasi disapprovazione. Anche quando la sua professione perpetua venne rimandata di un anno, non aveva cambiato idea; la sua alleanza con il Signore era eterna.
A volte Liliana si sentiva sopraffatta dal fatto che Dio l'avesse chiamata alla vita religiosa: "Veramente la vocazione missionaria è così grande che non riesco a capire come il Signore si fidi di me. Per questa grande responsabilità - chiamiamola così - che ho sulle spalle, vi chiedo di pregare per me affinché possa corrispondervi pienamente e dare il centuplo secondo i talenti che il Signore mi ha dato".
Dopo la sua consacrazione religiosa il 29 settembre 1967, aveva iniziato a prepararsi scrupolosamente per la missione. Era stata assegnata all'Uganda perciò doveva perfezionarsi nell'inglese, la lingua ufficiale di quel paese.
Aveva anche frequentato un corso Montessori in vista dell'insegnamento alla scuola materna; i bambini africani l'avevano già affascinata, e lei voleva essere pronta a diventare la loro mamma: "Sono come una sposina appena maritata che prepara la casa per i suoi bambini. In Africa i bambini e le loro mamme mi stanno aspettando".
"Ho cominciato a suonare il piano affinché in Africa io possa attirare i bambini a me; ho saputo che amano la musica. Tra una canzone e l'altra parlerò loro di Gesù e loro mi ascolteranno a bocca aperta... La mia famiglia sarà grande e io dovrò imparare il loro idiomi e modi di fare al fine di farli diventare veramente miei". Ammetteva che c'era un pizzico di fantasia in tutto questo, ma si sentiva già l'Africa scorrere nel sangue.
Il 12 settembre 1969, l'Asia era salpata da Venezia per l'Uganda con Liliana tra i suoi 120 passeggeri. Aveva 25 anni. Aveva rinnovato i suoi voti sulla nave e il personale di bordo aveva organizzato una festa per lei. I giovani marinai erano esterrefatti, non capivano perché questa giovane donna avesse scelto di andare in missione. "Vedete, cosa vuol dire essere liberi? La gente ha bisogno di testimoni".
Finalmente l'8 ottobre l'Asia aveva attraccato a Mombasa, Kenya. Liliana aveva continuato il suo viaggio in treno fino a Lira, nel nord Uganda. Il Time Magazine descriveva questo viaggio come uno dei più belli del mondo. La ferrovia serpeggiava attraverso il Parco di Tsavo, raggiungeva l'altipiano della Great Rift Valley, poi le piantagioni di tè sulle colline di Tororo (Uganda) seguite dalle paludi del Nilo.
Mentre il treno avanzava sbuffando a 30 miglia l'ora, il passeggero poteva vedere elefanti, gazzelle, struzzi, leoni, leopardi, ghepardi, zebre, giraffe e fenicotteri lungo i laghi di sodio di Naivasha e Nakuru.
Ad ogni fermata i bambini accorrevano lungo le rotaie, salutavano i passeggeri agitando le mani, chiedendo regali, cibo, soldi, qualsiasi cosa. "Sono bellissimi", aveva esclamato Liliana. I bambini africani parlano una lingua che esce come un gorgoglio dalla loro bocca, come l'acqua attraverso un canale. Tutto rimaneva impresso nei suoi occhi come su una pellicola fotografica. Il suo cuore batteva forte, era emozionata come una amante che abbraccia l'amato dopo anni di separazione.
In breve tempo aveva familiarizzato con il clima, con l'ambiente e con la gente. Il sole era cocente durante la stagione secca, bruciava terra e pelle senza pietà. L'erba diventava giallo-arancio così da sembrare paglia più che erba, e poi moriva al soffio del vento.
Persino le ossa degli umani sembravano seccare nel caldo opprimente. Nessuno andava a zappare nel campo nelle ore calde tra le 10 e le 17. La gente si sedeva all'ombra di un albero o rimaneva in casa a spettegolare o semplicemente a vivere.
Così improvvisamente com'era diventata paglia, l'erba si trasformava in un verde lussureggiante durante la stagione delle piogge. La pioggia faceva rivivere ogni cosa. Bambini e adulti l'accoglievano con la faccia rivolta in alto come se tutta la loro epidermide fosse un campo di manioca bisognoso di inzupparsi. La pioggia è una benedizione in Africa. La prima volta che Liliana aveva visto un temporale tropicale, era rimasta così impietrita dalla quantità di pioggia che scendeva che si era chiesta se qualcosa avrebbe resistito alla forza di un tale diluvio, soprattutto le capanne di paglia e fango o le strade melmose diventate rivoletti rossi come il sangue. Le paludi di Lira si trasformavano in laghi e i ponti malsicuri venivano talvolta completamente spazzati via dall'acqua.
La natura è assai generosa nel distretto Lango. Se le piogge sono regolari, ci sono fagioli e manioca in abbondanza. Ci sono tante qualità di frutti tropicali. I manghi pendono dai rami su lunghi gambi, come lunghe corde, molto facili da staccare. Arance e mandarini hanno un colore particolare, verde-giallo, non arancione come in Italia, e sono dolcissimi.
I bambini avevano l'abitudine di rubare la frutta nel frutteto delle suore durante la siesta. Liliana fingeva di non vederli e diceva: "Noi abbiamo così tanto da poter anche condividere". Qualche volta usciva dalla sua stanza o dalla dispensa delle suore e aggiungeva qualcosa al loro "bottino".
La missione era come il giardino dell'Eden con i suoi frutti e fiori di ogni sorta: buganvillee vermiglie, ibischi e frangipani adornavano l'entrata del convento e del suo giardino. Le paludi erano coperte di fiori di loto.
Oltre a portare vita e cibo, la pioggia liberava anche le zanzare le cui larve erano rimaste in letargo durante la stagione secca. Bisognava proteggersi dalla malaria, la malattia più micidiale, ingoiando pastiglie di clorochina e dormendo sotto una zanzariera.
All'inizio Liliana aveva urlato alla vista di un bruco, di uno scorpione, di una blatta o di un ragno; più tardi aveva imparato a vivere in un mondo pullulante di creature viventi. Era arrivata persino a mangiare le grasse termiti alate che uscivano dai termitai durante l'anno in periodi precisi.
I bambini della scuola materna di s. Kizito a Lira erano parte integrante di questo ambiente, a volte generoso, altre avaro. Quando la loro insegnante, Liliana, si recava nei villaggi per incontrare le loro famiglie, le si accodavano dietro su sentieri affiancati da ambo le parti dall'erba alta che si incrociava sopra le loro teste, formando un tunnel ombroso. I bambini che non avevano mai visto un bianco ripetevano timorosi e meravigliati: "musungo, musungo" (bianca, bianca).
Per strada incontrava donne con uno spettacolare senso dell'equilibrio, che trasportavano sulla testa anfore piene d'acqua appoggiate su uno straccio arrotolato che fungeva da cuscinetto, e un bambino legato sulla schiena. Camminavano a passi lunghi, maestosamente, come regine.
Alcuni dei suoi bambini andavano in giro completamente nudi. Altri mostravano il loro sederino attraverso i buchi sfilacciati dei pantaloncini, il più delle volte tenuti su con una mano in mancanza di una cintura o di un elastico. Le bambine indossavano un perizoma, lawino, con sopra una cintura di perline a colori fino al matrimonio, che purtroppo avveniva troppo presto. Liliana non aveva paura di sporcarsi le mani o il vestito bianco; prendeva in braccio i bambini, puliva il loro nasino, se li stringeva al seno e se li portava alla guancia.
A scuola insegnava loro a lavarsi le mani, a mangiare col cucchiaio, a identificare i colori e le lettere dell'alfabeto, a dipingere, a cantare, a pregare Dio e la sua Madre Maria, e condiva tutte queste nozioni con tanto amore. I piccoli se la spassano con giochi che usualmente mimano la vita quotidiana degli adulti; imparano per imitazione, come tutti i bambini del mondo.
I bambini hanno il volto del Creatore. Liliana esprimeva le qualità femminili di Dio, tenerezza e compassione. Non poteva schiaffeggiarli o punirli, c'era sempre una scusa pronta per le loro birichinate.
"Ogni sera Liliana veniva all'orfanotrofio e scioglieva i nodi delle sue corde: un sorriso, un aneddoto, e tanta fiducia in Dio," scrisse la sua superiora.
Naturalmente, non tutti gli orfanelli erano uguali! Helen, per esempio, era una bambina bisognosa di affetto più degli altri. Liliana se la portava a casa qualche volta, la lasciava fare un pisolino sul suo letto, le dava un biscotto in più, una carezza in più. Parlava a lungo di questa bambina alla sua famiglia come se fosse stata sua figlia: "Helen sta crescendo. Helen è birichina. Helen sta mettendo i dentini". Per qualcuno questo andava oltre i suoi doveri di suora, ma l'amore non conosce confini. Aveva scritto a sua sorella Silvana che la religione era vuota senza l'amore per Dio e per il prossimo.
Dopo tre anni passati come direttrice della scuola materna di s. Kizito, era tempo di rientrare in Italia per un aggiornamento e per la preparazione ai voti perpetui. Ne approfittò al massimo, anche se rimase delusa di vedersi rimandare l'ultima professione. Delusa di dover aspettare un anno, sì, ma non sconfitta. Lei non si sarebbe voltata indietro: "Di mio accordo non lascerò mai la vita religiosa... mi sento come un pesce nell'acqua... sono molto felice", scrive alla sua famiglia.
Nel gennaio del 1977 andò in missione per la seconda volta.
Si fermò un anno a Kariobangi, una delle bidonville di Nairobi. Le folle di esseri umani che entravano e uscivano dai ripari di cartone, tetti di plastica, le fognature aperte, le montagne di rifiuti la sconcertarono, non sapeva da dove cominciare. In questi quartieri poveri tanti bambini fin dalla più tenera età rovistavano tra i rifiuti in cerca di cibo per la sopravvivenza. Liliana cominciò a dare tè e pane ai 260 bambini dell'asilo con l'aiuto delle organizzazioni internazionali. Era letteralmente assediata dai bambini, il loro odore inconfondibile di povertà e di rifiuti le si appiccicava addosso; chiese a sua sorella Silvana di mandarle dello shampoo profumato (5.8.1989). Aveva il cuore spezzato. I bisogni erano infiniti. Aveva nostalgia della foresta, degli spazi aperti, lontano dalla mischia umana.
Fu felice quando venne riassegnata all'Uganda, questa volta tra i pastori pokot del Karamoja. L'essere libera di passare il suo tempo con la gente senza la pressione della scuola la rendeva gioiosa, ma la sua felicità durò poco. La scuola elementare femminile di Amudat aveva terribilmente bisogno di una direttrice. Chinò la testa e obbedì. "Sarò capace di amare questo popolo come Dio lo ama?".
Per gente che si sposta continuamente, costruire un futuro richiedeva quasi una conversione. Qui non era Milano o Roma o Londra, qui si trattava di carestia o alluvione, razziare o essere razziati, malaria o dissenteria, sopravvivenza o morte. Immergersi in questo mondo in continua trasformazione richiedeva fede e amore.
Il 1978 fu un periodo terribile per Amudat. Il Karamoja era nella morsa della violenza armata - tredici persone sarebbero state fucilate nel 1980 sotto gli occhi di Liliana - e la peggiore siccità mai vista da anni nel distretto aveva prodotto condizioni da carestia. I bambini erano affamati; Liliana ne aveva raccolti 800 in missione. Quando le scorte si esaurivano, e non vi era neppure più un biscotto o una caramella, le lacrime le scorrevano sul viso e si nascondeva in cappella per implorare Dio che provvedesse ai suoi affamati bambini. "Sarei pronta a pagare personalmente per lenire la sofferenza di questa gente", scrisse a casa.
Arrivò a Gavardo alla fine del 1980 stremata dalla drammatica situazione. Liliana era carica di sofferenza a causa dell'impossibilità di provvedere cibo ai bambini affamati, al ricordo delle bande di predatori armati il cui scopo principale era saccheggiare la missione e delle migliaia di persone innocenti ammazzate a colpi di rivoltella o uccise da malattie micidiali come la diarrea, il morbillo, la malaria o semplice fame.
Il suo spirito, tuttavia, non si schiantò. Trascorse le vacanze cercando fondi per alleviare la carestia in Karamoja. Dalla gente di Gavardo ottenne un trattore per coltivare la terra quando la pioggia fosse finalmente caduta. Scrisse una lettera ai suoi paesani ringraziandoli per la loro generosità: "Parto con una speranza in più; il trattore comperato con i vostri sacrifici verrà usato per arare la terra e sconfiggere la fame che affligge questa gente".
Non molto era cambiato quando era ritornata nella primavera del 1981. Le strade erano infestate da razziatori armati e banditi pronti a uccidere per un semplice bottino. Molto spesso sfidava il pericolo conducendo la Land-rover fino a Moroto, capitale del distretto, per comperare cibo, articoli di cancelleria, vestiario e medicine per la scuola e la gente di Amudat. Ma il 10 agosto 1981 sarebbe stata l'ultima volta.
Liliana si trovava al volante della Land-rover e alla sua destra sedeva la sua amica di Kangole, suor Rosaria Marrone. Era molto felice perché l'auto era strapiena di ogni sorta di acquisti che avrebbero soddisfatto i bisogni immediati della scuola. Furono queste cose preziose a causare l'attacco. Un colpo le staccò il braccio; un altro le andò dritto al cuore. La vettura si fermò sull'erba polverosa del ciglio della strada. I cinque passeggeri di dietro fuggirono per salvarsi. "Non volevamo ammazzare la suora, volevamo solo la roba", dissero gli assassini a suor Rosaria, mentre s'impossessavano di ogni cosa come avvoltoi.
La suora amica tolse a Liliana il velo e le coprì il volto senza vita, come un manichino di cera. Sistemò la sua compagna morta diritta sul sedile. Non bisognava spaventare le suore della vicina missione dove si stavano dirigendo. Liliana aveva 37 anni, vecchia abbastanza per morire con le corde del suo liuto ancora tese, come aveva desiderato. "Non ho giocato la mia vita per scherzo", aveva scritto da Amudat a un amico prete.
Quando una persona se ne va per sempre, diventa improvvisamente solo buona. Questo fu il guadagno di Liliana, questa fu la nostra perdita: una grande voragine lasciata dietro di sé. Non avrà soddisfatto le attese della sua famiglia e dei superiori, ma il Signore la trovò degna dell'onore di dare la sua vita per gli amici africani.
Improvvisamente, opposizioni e disapprovazioni sembrarono del tutto futili. Dio si beffò di ogni possibile giudizio e preconcetto su ciò che lei avrebbe dovuto fare o avrebbe dovuto essere. Forse i suoi africani con la loro profonda intuizione degli esseri umani e senso di praticità capirono meglio di qualsiasi altro la grandezza di questa comunissima donna bianca dal "cuore tenero." "Loro hanno bisogno di me e io di loro", aveva confidato alla sua famiglia. L'anima di Liliana dimora per sempre con loro.
Le parole pronunciate non sono così significative come la vita vissuta. Lei può non aver giocato secondo le regole, ma certamente osservò la regola d'oro dell'amore. "Alda, credi che esistano i santi? Certamente ci sono! Santi che non compiono miracoli strepitosi eccetto il più grande di tutti, il miracolo dell'amore. Questo è alla portata di tutti".
Autore: Ida Tomasi
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