E' motivo di gioia rievocare la dolce figura di Silvio Pellico per l'affetto che porto ai coniugi Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert marchesi di Barolo, quale loro figlia spirituale e per la stima che nutro per la nobile amicizia sorta tra loro e il reduce dello Spielberg. E' mio desiderio tener vivo il ricordo non tanto del poeta-scrittore e patriota quanto quello di un cristiano vero e di un educatore appassionato, un genio della carità, esattamente come lo sono stati i marchesi di Barolo. E avvicino con intima gioia la figura di Silvio a quella dei Marchesi perché attraverso i loro scritti e le loro opere li ho conosciuti animati da un comune desiderio: quello di vivere l'ideale evangelico più alto: amare tutti a tutti i costi. Silvio scrive alla sorella Giuseppina "Io sono un uomo che ha bisogno di amore, l'amarsi è il solo precetto della filosofia cristiana che mi sembra di ben capire".(dal manoscritto biografico di Giuseppina) Don Pietro Ponte, cappellano della Marchesa e amico di Silvio lo definisce: “l'uomo di Dio e della patria". Nella lettera, scritta a Torino il 28 gennaio 1884 come introduzione al libro La mente ed il cuore di Silvio Pellico, riporta l'affermazione: "Dio è carità, e chi sta nella carità sta in Dio e Dio in lui.(1Gv4,8.15), prediletta dal Pellico e da lui trascritta a mano su un quadernetto, che Don Ponte custodì gelosamente dopo la morte del patriota.
1. Vero Cristiano Nel delineare il profilo spirituale del Pellico, sottolineo alcuni aspetti dell'amore che mi hanno maggiormente colpito nella sua vita: amore alla religione, amore alla famiglia, amore agli amici, amore alla patria. 1. 1 Amore alla religione Il Pellico fu religiosissimo sempre, da fanciullo e da uomo maturo. La fede gli venne instillata nel cuore dalla sua piissima madre. Venne anche per lui il momento della tentazione, mentre era a Lione (1806-1810) e a Milano (1810-1820), ma la fede, che egli aveva abbandonato nella giovinezza, riaffiorò più profonda per riflessione personale durante la prigionia. Fu la religione a dare serenità alla sua travagliata esistenza. Dal carcere di Venezia il 23 febbraio 1822 scriveva al padre "Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m'aveva quasi rapito."(Epistolario di Silvio Pellico, libreria editrice di educazione e d'istruzione di Paolo Carrara, Milano, 1874) La religione riuscì a tergere le sue lacrime, ad alleggerire il peso dei rimorsi, ad educarlo alla fratellanza universale. La religione divenne il fondamento di tutte le virtù da lui vissute, particolarmente l'abbandono alla volontà di Dio, la pazienza nel sopportare le prove, la capacità di perdonare e amare tutti. La solitudine della prigione, le ansie per l'avvenire, i conforti del padre, le assidue meditazioni della Bibbia, le letture di libri devoti e le figure di Oroboni e di Maroncelli influirono molto sulla vita di Silvio. Egli non cova alcun rancore nei confronti del Maroncelli, nonostante che l'imprudenza di questi sia stata la causa della sua condanna. Silvio presenta il "socio in dolore" come uomo "educato a tutti i riguardi della gentilezza", "costantemente memore che la virtù, si compone di continui atti di tolleranza, di generosità e di senno" (Le mie prigioni, Torino, Società Editrice Internazionale, 1933, cap. 94). E' la descrizione di una persona affettuosa, buona, gentile, i cui tratti sono molto simili a quelli del conte Oroboni. Di questi Silvio dice: "ad un'anima nobile, ardente di generosi sensi, indomita dalla sventura, egli univa la più candida e piena fede nel cristianesimo, la virtù d'Oroboni m'aveva invaghito. Industriandomi di raggiungerla, mi misi almeno sulle sue tracce, conversando con Lui, i dubbi sulla fede sgombrarono e potei di nuovo sinceramente pregare per tutti e non più odiare nessuno ubi caritas et amor Deus ibi est" (Ibid., cap. 63). Inoltre i consigli del Confalonieri, cui anche più tardi il Pellico apertamente confessava di dovere in modo particolare il suo ritorno alla fede dei primi anni della sua vita, servirono a ricondurre la pecorella smarrita nell'ovile della chiesa cattolica. La fede ormai orienterà tutta la sua vita e la sua attività. "Sia fatta la volontà di Dio" esclamò a Venezia quando udì la sentenza di morte e ripetè la medesima espressione di fede quando la condanna gli fu commutata in 15 anni di carcere duro durante i quali non si udì mai maledire, ma lo si vide leggere con riverenza la Bibbia e genuflesso pregare. Dopo dieci anni di carcere, il Pellico ormai purificato, professerà apertamente e con forza la sua fede: "ah! Delle mie passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e il male che mi sarà ancora serbato, sia benedetta la provvidenza" (Ibid., cap. 99). Nella lirica "Le Chiese" rievoca la cappella dello Spielberg dove ogni domenica partecipava alla S. Messa e dove il suono dell'organo e i canti gli risvegliarono nell'animo tante soavi memorie. Dopo la liberazione dal carcere, alla madre, che al mattino gli andò incontro per abbracciarlo, narrò le mirabili misericordie usategli da Dio, concludendo con l'espressione "io ringrazio Dio d'avermi condotto vivo in famiglia" (Capitoli aggiunti a Le mie prigioni, 1). Al Confalonieri, afflitto da varie prove scrisse: "sono grato a Dio della vita che mi lasciai[... ], fo la mia strada pregando per tutti[...] e conoscendo non esservi che un affare solo importante, quello di servire a Dio, e d'operare la nostra salvezza[... ]. Spero tutto da Dio per me e per il prossimo. Oh mio Federico! Io pure conosco quel martirio dell'attristarsi, ma lo rigetto[...]. Giovami a ciò supremamente la religione; la interrogo, ed ella mi risponde, ragioni efficaci, divine. Anche tu Federico, facesti crudeli perdite, e non di rado al pensarvi ti si strazierà il cuore. Volgiti a Dio, volgiamoci a Dio, e ci provvederà di pazienza e di forza insino alla fine" (Epistolario.,Torino, 11 settembre 1837). In un'altra lettera descrive il suo stato di salute all'amico amato e aggiunge la sua professione di abbandono fiducioso in Dio: "faccia Dio. Bene è il vivere, e bene e il morire: il voler suo sia fatto sempre". (Ep., Torino, 17 maggio 1838) Durante la prima-notte trascorsa in famiglia fu assalito da sentimenti opposti e tumultuosi, racconta: "Io voleva calmare i miei pensieri fermandoli in Dio con parole di gratitudine e di preghiera" e alla madre che al mattino gli andò incontro per abbracciarlo narra le mirabili misericordie usategli da Dio e conclude: "Io ringrazio Dio d'avermi condotto vivo in famiglia". Alla sig.ra Elvira Rossi Giampiero che gli chiede di parlare di ; Dio risponde: "La religione mi ha dato pace, una pace che tolse gran parte del loro amaro alle mie sventure, e che ora abbellisce in qualche modo il patire di questi miei ultimi giorni[... ]. Ad una mente agitata qual era la mia abbisognavano solitudine, tempo, e dolore. Allora mi giovarono i passati studi, e più e più disdegnai della miseria di tutte le sette[... ]. Vidi che gli scandali degli impostori non debbono ascriversi alla fede, né alienarci da essa, la quale condanna costantemente il male e vuole il bene, la sincerità, l'indulgenza, i nobili esempi. Aperti così gli occhi, svincolato dalle dubbiezze, trovato insomma Dio, m'appoggiai a Lui e spero non l'abbandonerò più. Da ciò che avvenne in me ho capito quanto Dio ami la sua creatura" (Ep., Dalla collina, 21 settembre 1840). Alla medesima, che gli esprimeva tutto il suo dolore per la morte del diletto marito, dice: "Che sono le parole anche più sincere di condoglianza... Sollievi d'un momento, deboli, insufficienti... la sud anima e piena di fede.... ricorra contìnuamente a Gesù e a Maria... si penetri più che mai di quell'umile sapienza cattolica, che ci disinganna di tutte le cose passeggere, che c'insegna a conformarci al volere di Dio. Non v'è altro a fare che abbracciare la croce, pregare, amare sino alla morte... L'addolorarsi non è colpa, ma tal sarebbe se ci disperassimo, se dimenticassimo la rassegnazione filiale, di cui siamo debitori verso il Padre celeste" (Ep., Torino, 6 settembre 1843). Ha parole di consolazione per la contessa Ottavia Masino di Mombello e il suo sposo provati da molte tribolazioni ed inquietudini: "Questo cumulo di mali è stato grande e capisco che la brutta tentazione della tristezza abbia cercato di atterrare le loro anime. Per grazia di Dio, sono anime altamente cristiane, il Signore le ha sostenute e le sosterrà costantemente. Appoggiamoci su Colui che solo può reggerci, e troveremo nelle stesse nostre pene una specie di gioia santa, perché siamo certi di piacergli" (Ep., Vigna Barolo, 4 ottobre 1845). Al Cavaliere Cesare Cantù, che nel libro Le mie prigioni aveva creduto di scorgere un proposito di vendetta, dignitosamente apre il suo cuore addolorato per le calunnie e ingratitudini che subisce ed esprime la sua incapacità ad accettarle con serenità "Io che avevo sofferto dieci anni di penosa agonia senza lamentarmi, non ho saputo accettare in pace queste fitte dei fratelli e la sconoscenza del mio paese. [.. ] colla mano sul cuore vi protesto che nessun.sentimento di vendetta mi animò; che ebbi mira di raccontare, raccontar semplicemente, non tutto al certo, ma tutto vero [...] lasciatemi ripeterlo non ho voluto fare una vendetta". (Ep., Aprile 1843) A Pietro Giuria confida la serena accettazione della sua malattia, della malattia della Marchesa di Barolo e quella della sua sorella e conclude: "L'uomo dee gemere senza cessare d'uniformarsi ai voleri del Signore. Ognuno ha da portare la croce, e bisogna portarla con garbo sino alla fine" (Ep., Torino). Il suo sentimento religioso fu alimentato dall'assidua lettura della Bibbia, libro che divenne suo indivisibile compagno. Nella biblioteca reale di Torino si conserva un quadernetto, donato dal Pellico al re Carlo Alberto, nel quale aveva trascritto i passi della Sacra Scrittura che l'avevano maggiormente colpito. Tale documento testimonia l'animo altamente religioso del Pellico, scevro da espressioni di bigottismo, di cui è stato ingiustamente calunniato da parte di alcuni. 1.2 Amore alla famiglia Amò la famiglia nel grado più elevato ed intenso: a Lione, a Milano, allo Spielberg, a Venezia, a Torino, il suo pensiero correva ogni giorno ai suoi cari: li avrebbe voluti felici a costo di qualunque suo sacrificio. Dal carcere di Venezia scrive al papà: "Non potendo dirle molte parole, interpreti tutto quello, che vi è di più tenero nel mio cuore, e ne faccia parte alla carissima 'maman', ai cari fratelli e alle care sorelle. Non si affliggano per me: Dio è dappertutto, e pure qui a consolarmi [...]. Mi amino e la maggior prova d'amore sia quella di non punto affliggersi" (Ep., Venezia 16 aprile 1821). Al fratello Luigi, in risposta ad una sua graditissima lettera, scrive: "Un bacio per la tua pazza amabilissima lettera che mi ha messo tanto di buon umore, e poi cinque altri baci per papà, maman, Francois, Josephine e Mariette, i cui teneri sentimenti sono un tesoro pel mio cuore[....] Non contentarti di amarmi in silenzio, ma qualche volta scrivimelo [...]. Dì a papà ed a maman ch'io voglio che stiano allegri, e che aspettino in pace lo scioglimento di quest'affare, che veramente non può essere lontano. Dì loro soprattutto ch'io non sono infelice. Abbracciali teneramente per me. Sta bene mio caro Luigi, mio amico dell'infanzia e di tutta la vita, ho sempre apprezzato la gentilezza dell'anima tua, tu lo sai, e forse nessuno ha conosciuto al pari di me quanto valesse quella bell'anima, nemmeno tu stesso". (Ep., Venezia, 16 gennaio 1822) Al Confalonieri, ricordando la morte della madre, scrive l'11 settembre 1837: "donna rara, di mente giusta e piissima. Io l'amava con tenerezza e venerazione. In questi ultimi sei anni e mezzo ella è stata la mia guida, il mio oracolo [...]. Or mi resta il padre, uomo tutto di Dio e sincero e caldo nelle sue affezioni; mi resta quel caro Luigi, mio fratello che tu conosci, sempre studioso, ma più solitario, più serio, più mesto e ben disingannato d'ogni follia; mi resta il secondo fratello Francesco, fattosi prete durante la mia captività [...] ; mi resta una delle due sorelle, Superiora delle Rosine in Chieri...". E, annunziandogli la morte del padre, commenta: "l'afflizione di perdere i genitori è molto relativa: essa è tenue laddove i cuori sono debolmente vincolati, è grande laddove il sono con molteplice legame di care abitudini e di intime simpatie. I miei genitori erano veramente una stretta parte della mia vita". Ma «Deus dedit, Deus abstulit! ». Non c'è che dire, bisogna concludere così, sottomettersi, adorare, pensare che sono fortunati "qui moriuntur in Domino", pensare che fra poco li raggiungeremo anche noi. Oh come queste morti da me vedute mi fanno sentire il nulla della terra!". (Ep., Torino, 29 maggio 1838) 1.3. Amore agli amici Pochi sentirono così profondamente l'amicizia e apprezzarono le dolcezze e i benefici che essa dona. "Conservate - scriveva ai fratelli — cari ragazzi, questa mutua amicizia e lasciate che la sua fiamma mantenga puri i vostri cuori e li accenda sempre di più alta virtù. Dopo le affezioni alla famiglia [... ] vengono quelle dell'amicizia. Questa affezione [... ] arreca una vita novella alla mente, all'immaginazione, al cuore. Ma appunto per essere l'amicizia un'affezione quasi divina, bisogna badare di non profanarla" (Ep., lettera al fratello Francesco, Milano, 29 luglio 1814). Durante il periodo milanese conobbe molti intellettuali e letterati: Borsieri, Pietro Giuria, Berchet, Ludovico di Breme, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo. Fra tutti predilesse il nobile cantore dei Sepolcri, lo considerò sempre suo maestro, con lui aveva in comune, oltre la baldanza giovanile, l'amore per l'Alfieri, per la poesia, per la patria. Tra i due nasce una grande amicizia, nonostante le divergenze di carattere e soprattutto di idee. Il Foscolo è fiero, focoso, di liberi costumi e di religione paganeggiante, mentre il Pellico è mite, riflessivo, più incline alle "buone maniere" e fondamentalmente cattolico. E' un'amicizia che continuerà come tra fratelli "Ugo conobbi e qual fratel l'amai, che l'alma avea per me piena d'amore" ne sono riprova anche le numerose ed affettuose lettere che il Pellico gli indirizza. Nel libro Le mie prigioni afferma "siffatto ed iracondo uomo che colle sue asprezze provocava tanti a disamarlo, era per me tutto dolcezza e cordialità ed io lo riveriva teneramente" (Le mie prigioni, cap. 50). Quando il Foscolo era già nell'esilio inglese, Silvio gli conferma: "t'amo più che non potrò mostrartelo mai". All'amica Carlotta Marchionni scrive: "il sentimento dell'amicizia e della gentilezza ha in te prevalso ad ogni considerazione. Hai ragione di chiamarmi fratello, giacché la tua bontà è davvero di sorella: di ciò vo lieto e te ne professo molta gratitudine. In te ammiro non solo la grande attrice, ma un'amica meritevole di ogni stima" (Ep., 26 settembre 1843). Al Confalonieri scrive che per un amico c'è solo un dolore, quello di non averlo vicino e di non poterlo aiutare. E continua. Talvolta si sente dire: darei la vita per lui. " Ebbene mio buon amico [... ] davvero se io potessi far cessare le tue sventure a costo della mia vita, lo farei di cuore [...] io trovo spesso qualche dolcezza in un solo rifugio [...] quello dei cuori semplici, che si amano e credono in Dio: quello di pregare per l'amico. Io piango e prego per te, e tu piangi e prega per me! [... ] se pensi sovente a me, sii certo che più d'una volta al giorno i nostri pensieri s'incontrano. Ti stringo qui sul mio cuore" (Ep., 23 settembre 1831). Il Pellico definisce l'amicizia "Una fratellanza [...] un accordo supremo di due o tre anime le quali hanno trovato luna nell'altra la massima disposizione a capirsi, a giovarsi, a nobilmente interpretarsi, a spronarsi al bene". Ecco una sua testimonianza di amicizia vera: Oh mio Federico facciamoci santi, innalziamo con potenza ferma e costante la nostra volontà al solo oggetto di vivere in Dio e per Dio, e così moriremo per meglio poi vivere in Lui e per Lui. (Ep., Torino, 29 maggio 1838). Assicura all'amico la sua preghiera perché possa finalmente tornare in Lombardia per riabbracciare i suoi cari e aggiunge: "Non so veramente nemmeno io che cosa augurarti, ma so che ti vorrei colmo di sollievi e di consolazioni [...] la sventura ci ha esposti agli sguardi di un gran numero di spettatori; il nostro obbligo di glorificare Dio è quindi maggiore, né certamente la sventura ci è mandata per altre mire, che di migliorarci e di darci un'influenza salutare sugli animi altrui. Applichiamoci spesso, malgrado la nostra indegnità quelle divine parole: 'Splenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli". [....] Tu ti lagni di non vivere abbastanza in Dio e per Dio e biasimi le tue interne contraddizioni. Non però mi spaventi. E chi può dirsi contento di sé? Nondimeno badiamo a non prolungare queste contraddizioni e quei miracoli che non possiamo operare, Iddio li opererà"(Ep., Torino, 8 luglio 1838). In un'altra lettera leggiamo: "La mia vita ha una vera dolcezza nel saperti finalmente in libertà, in miglioramento di salute, nel ricevere le tue dilettissime lettere, nel poterti scrivere, nell'amare in te un amico raro! Ah! La brama di rivederti, di riabbracciarti è una. ridente idea che talora esalta la mia fantasia! Ma quando mai potrà effettuarsi. (Ep., Torino, 17 maggio 1838). L'amico prova gratitudine per i benefici ricevuti. "Mio buono e fedelmente memore e generoso amico! Io ti sono debitore di alte prove d'amicizia, di cui non potrò mai abbastanza ringraziarti e benedirti [ ] Oh potesse la mia amicizia contribuire a dare qualche sollievo all'anima tua! Niuno t'ha conosciuto ed amato al pari di me, niuno può maggiormente amare e stimare e venerare la bontà e la nobiltà del tuo cuore. Io spero che verrà giorno che ti potrò almeno per qualche momento rivedere e riabbracciare prima di morire. Intanto amiamoci e diciamoci vicendevolmente che ci amiamo e preghiamo il Signore l'un per l'altro''(Ep.,Torino, 17 gennaio 1836). Sempre a Federico, che sta per andare oltre oceano, rivela con semplicità il suo stato d'animo: "Piango come un fanciullo su di te [... ] sulla sacra amicizia che gli anni della sventura hanno stretto fra noi e ti benedico del moltissimo bene che m'hai fatto, ed in tempi in cui fu grande e vera provvidenza pel tuo Silvio [... J La mia gratitudine verso di te sarà eterna, come eterna la stima e la tenerezza che il tuo carattere amante forte e leale m'ha ispirato [... ] O Federico nessuno potrà amarti più di me" (Ep., Torino, 28 marzo 1836). Al Conte Porro scrive: sono "un amico invecchiato e malato, ma ancora abbastanza vivo per amarvi e per rammentare sempre con tenerezza i dolci anni che abbiamo vissuto insieme'' (Ep., Torino, 26 gennaio 1839). Amicizia semplice è pura stringe nei Piombi di Venezia con la dolce, tenera Zanze, figlia del custode. La giovinetta gli portava volentieri il caffè in cella, ed amava intrattenersi con lui per confidargli i suoi problemi, per chiedere consiglio e farsi leggere la Bibbia. Il Pellico scrive: "m'era dolce il vedere che le sue affezioni scemassero parlandomi, che la mia pietà le fosse cara, che i miei consigli la persuadessero, e che il suo cuore s'infiammasse allorché ragionavamo di virtù e di Dio" (Le mie prigióni, cap. 31). Non possiamo sottacere l'amicizia intensa, delicata e sincera stretta con i Marchesi di Barolo. La loro conoscenza si deve alla pubblicazione del libro Le Mie prigioni, lì Pellico scrive: "fra le persone di alta virtù, la prima ad applaudirmi fu la Marchesa di Barolo che mi onorò di una lettera dettatale dal cuore appena letto le mie prigioni". La Marchesa espresse al Conte Cesare Balbo il desiderio di conoscere Silvio e la stessa sera ebbe luogo la visita, accolto da Tancredi, la Marchesa madre, da Giulia ed altre personalità. Da allora si moltiplicarono le visite e gli inviti a pranzo e Silvio "ebbe modo di ammirare i sentimenti di lei e di suo marito, la loro gara nel fare uso della vita per piacere a Dio ed operare il bene" (La Marchesa Giulia Folletti di Barolo nata Colbert, Memorie di S. Pellico, Torino, Tip. San Giuseppe degli Artigianelli, 19l4, p. 62). Da tempo Silvio cercava un lavoro dignitoso e quando gli fu proposto di andare a Parigi come istitutore del figlio del re Luigi Filippo era alquanto preoccupato di lasciare ancora una volta i genitori. Saputolo, la Marchesa e il marito, di comune accordo, gli offrirono l'impegno di bibliotecario con l'annua pensione di lire 1200. L' offerta fu gioiosamente accolta da Silvio. Con questo nobile gesto i Barolo salvarono un eroe nazionale dall'umiliazione di guadagnarsi il pane in terra straniera. Scrive a Confalonieri: "Ho stretto amicizia con poche persone; i più intimi sono i Barolo, marito e moglie, anime rare, sempre occupate di vera carità e di Dio. Io sono vincolato a loro, non solo come a benefattori miei, che m'hanno aperto la casa con tutta fiducia e generosità ma come ad ingegni elevati ed amabili, ed a cuori eccellenti in ogni cosa" (Ep., Torino, 11 ottobre 1837). In un'altra lettera leggiamo: Oltre la casa mia, è quasi pur mia per l'affetto che le porto e per le obbligazioni che le ho, la casa del Marchese di Barolo. Egli è nelle pietà operoso e caritatevole...ed ha in moglie una santa donna che l'agguaglia...(Ep., Torino, 11 settembre 1837). Spesso Silvio si intratteneva a discorrere con Tancredi e se la Marchesa era fuori Torino si leggevano l'un l'altro le lettere che ella inviava ed afferma: "per tale reciprocità ci venivamo a conoscere vieppiù nell'intimo dei nostri sentimenti e vincolarci di dolce simpatia" (La Marchesa Giulia...., cit., p. 72). Quando Silvio perdette il padre, i Marchesi gli offrirono ospitalità in due splendide sale del loro palazzo, felici che egli potesse alloggiare nella loro casa, dal momento che lo consideravano come uno di famiglia. Silvio espresse al Confalonieri la sua gioia e il suo senso di appartenenza: "Quando mi scrivi, indirizza ora le tue lettere a Silvio Pellico in Casa Barolo" (Ep., Torino, 8 luglio 1838). Il Pellico, addolorato per la malattia di Tancredi e di Giulia, a causa anche dell'affaticamento del loro generoso servizio prestato ai malati durante il colera del 1835, esprime tutta la sua preoccupazione in una poesia "Versi di un amico afflitto". Mesta da lungo tempo è l'alma mia, Deh la ristori di letizia i rai! Chi mi dice se alfin tutto sparia Di Tancredi il malor ond'io tremai? Pietoso Ciel, mi svela, in qual dì fia Ch'esso e Giulietta a me tu renderai! Finché i loro sembianti io non rimiro Fra acerbe inquietudini sospiro. Nulla d'uman in terra è più prezioso, come d'amici il consolante affetto: Ben questi a dritto amici appellar oso! Leggon nel petto mio, leggo in lor petto Il mio cor ne' lor cuori ha ver riposo; Essi la pace han dato al mio intelletto:. Niuno mai, fuorché madre e genitore, Ebber per me sì generoso arnore. .... Signor, Signor, poiché Tu me li desti,.... .... Non un dei due rapito unqua mi sia, Aggiungi agli anni lor la vita mia. Se questa grazia imploro perche li amo, Perché stando al lor fianco mi miglioro. Perché il viver con loro, sol viver chiamo, Perché supremamente uopo ho di loro! Tu Usai, mio Dio, non per me sol ciò che bramo! Il lor respiro in terra è a te decoro; Padre e Madre ai tuoi poveri essi sono: per la mia causa e per l'altrui ragiono. Nella poesia intitolata "Tancredi" il Pellico descrive mirabilmente le virtù e i meriti dell'illustre personaggio e, dopo aver fatto memoria di tutta la vita virtuosa di Tancredi spesa per il bene degli altri, conclude: Troppo qui tu sei grande in ogni mente! Non giungerla a lodarti il verso mio. Ognun t'ama, com'io fervidamente, Attesta ognun quel ch'attestar poss'io: Non elogi, o Tancredi, un prego ardente Mando a te, come ad angelo d'Iddio: Tu, che tanti qui sparso hai benefìci. Spargine ancor dai lochi tuoi felici! Nobili pensamenti ed atti ispira a tutti noi che un dì fratelli avesti... E un altro voto innalzi a Dio per noi; E' un clamor, è un desìo di mille cuori! La compagna di tutti i pensieri tuoi Siaci serbata, e in vece tua dimorii In terra vuol ciò che dal del tu vuoi, Giovar, riconfortar, farci migliori: Molto perdemmo in te, ma ancora in essa Su noi la luce tua splende reflessa". L'idea dell'amicizia, che fa guardare nella stessa direzione, che rende migliori, così cara al Pellico, è chiaramente espressa nelle due poesie citate. La morte del Marchese addolora profondamente Silvio che così si esprime al Conte Luigi Porro scrivendo: "Io avevo un altro amico prezioso, un angelo di bontà, nel Marchese di Barolo. Sono inconsolabile della sua perdita, ed è una perdita per tutto il paese, tanto quell'uomo era caritatevole e ingegnoso nel fare il bene da ogni parte. Felice chi passa da questa vita piena di dolori ad una vita celeste in premio delle sue virtù. Aspiriamovi con fiducia, e intanto amiamoci in questo povero mondo. Vi abbraccio con tutta l'anima". (Ep., Torino, 20 novembre 1838) Giulia, rimasta vedova, continuerà ad avere Silvio Pellico come un amico fidato, un fedele collaboratore e un ottimo consigliere.
1.4 Amore alla patria Amò intensamente la patria e per essa soffrì un martirio di dieci anni, e l'amò sino all'ultimo respiro. Le lotte, i dolori del carcere e il ritorno alla fede non mutarono in lui il sentimento patriottico, ma ne favorirono una dimostrazione moderata e costruttiva. Continuò a sognare una patria libera dal dominio straniero, ma aborrì le rivoluzioni, desiderò sempre una onesta riforma e ogni civile e politico progresso che potesse giovare al popolo. Quando negli italiani si risvegliò la coscienza nazionale ed essi chiesero ai governi assoluti la Costituzione, il Pellico non esitò a mettere il . suo nome accanto a quello di Cesare Balbo e di Camillo Cavour nella petizione indirizzata al governo. Provò grande dolore quando uomini settari si atteggiarono a maestri di libertà, diffondendo l'irreligione e l'immoralità e i suoi versi melanconici e le sue lettere ai familiari ed agli amici ne sono una manifestazione. Al conte Luigi Porro, che si trovava a Marsiglia, esprime il suo amore patrio con queste parole: "Aborro tutti i fanatismi plebei come la più funesta e brutta e stolida delle pesti politiche, e se provai qualche esalamento di amor patrio, questo si limitò alla folle speranza di veder espulse dalla nostra Italia le dominazioni straniere. Sognai nel 1820 un sogno non effettuabile, ma bello, dignitoso, puro. Questo e non altro era l'amor patrio" (Ep., senza data). Ripudiava ogni manifestazione di pensiero che non fosse mite, serena e conciliativa e dimostrò chiaramente tale posizione nei rapporti che ebbe con Gioberti. Quando questi pubblicò i Prolegomeni al Primato, in cui si scagliava con violenza contro i Gesuiti, egli, reputando che il suo silenzio potesse essere accolto come approvazione scrisse un'energica protesta che provocò una forte reazione di Gioberti e tra i due cessò ogni relazione. Questa protesta scatenò le ire dei liberali che lo accusarono di aver abbandonato la nobile causa cui aveva consacrato i migliori anni della sua giovinezza e ormai di non essere altro che un bigotto. Affermarono che lo Spielberg aveva fiaccato, oltre alle forze fisiche, l'energia dell'anima del patriota. La produzione letteraria ' smentisce tale accusa. Nelle tragedie e cantiche composte nel carcere si sente forte l'amore per la patria e l'odio verso la tirannide. Nell'ode a Napoleone, composta dopo cinque anni di carcere, con senso altamente patriottico, accusa l'Imperatore di aver spenta la libertà nelle poche anime libere che aveva incontrato e come Italiano gli chiede conto severo dei sacrifici così mal ripagati che l'Italia aveva fatto per il suo trono "Degli itali, Oh degli itali almen, Pietà maggiore preso t'avesse, o Grande!" (Ranieri V., Della vita e delle opere di S. Pellico, 2 Vol., p. 344 e ss.). In carcere, durante le lunghe giornate solitarie, meditava e scriveva sul tavolo lunghe riflessioni sui doveri degli uomini. L'idea, maturata più tardi in libertà, produsse un prezioso manualetto "Dei doveri degli Uomini", dedicato alla gioventù. Il Pellico in questo scritto presenta una morale tutta bontà e dolcezza. Dell'amor patrio scriveva: "Per amare la patria con vero, alto sentimento, dobbiamo cominciare dal darle in noi medesimi tali cittadini, di cui non abbia ad arrossire, di cui abbia anzi ad onorarsi' (Pellico S., Doveri degli Uomini, Cap. IX). Ammoniva i giovani che "Un amor patrio ostentato per cieco entusiasmo, per leggerezza, per impegno di fazione, ma non altamente sentito, e volgar cosa egli e ciò che una fede religiosa, disgiunta dai pii sensi, disgiunta da lodevoli opere (Ranieri V., Della vita e delle opere di Silvio Pellico, 2 Vol, pp. 380-389). Al Confalonieri confidava: "Il cuore mi dice che le tue opinioni intime sono uguali alle mie che la politica ha perduto per te il suo incanto come per me. Iddio vale assai più: teniamo Lui per maestro, per legge, per mira! Diamo esempi per quanto possiamo di costante giustizia e carità: questo e il patriottismo buono: l'altro è illusorio" (Ep., Torino, 17 maggio 1828). Ricordiamo infine che "Le mie prigioni" giovarono all'Italia più di una battaglia vinta!
2. Il Pellico, educatore per vocazione
Ha saputo coniugare bene l'esperienza di Dio e l'impegno educativo. Propongo su questo tema solo delle intuizioni che saranno opportunamente approfondite da esperti, nell'analisi degli scritti educativi del Pellico. 2.1 Visione antropologia L'antropologia biblica definisce l'uomo creato ad immagine e somiglianza dì Dio. (cfr. Genesi, 1,26-27). La vocazione di ogni persona è quella di diventare l'immagine del Creatore. L'immagine divina, deformata nell'uomo dal peccato originale, è stata restaurata da Cristo nella sua primitiva bellezza. La consapevolezza del valore di ogni uomo suscita l'urgenza di cooperare con Dio nell'impresa così bella, quale è l'arte di aiutare i giovani a diventare quello che sono chiamati ad essere, a realizzare progressivamente il progetto divino su di loro, cioè diventare immagine del Dio-Trinità, del Dio Relazione, del Dio Amore. A mio parere nel Pellico ritroviamo questa visione. Leggiamo nel primo capitolo del libretto Dei doveri degli uomini: "L'uomo ha una destinazione, una natura. Bisogna che egli sia ciò che egli deve essere [... ] o non è felice. Sua natura è d'aspirare alla felicità [... ] non può giungervi se non essendo buono [...] La religione esprime sublimemente questa verità, col dire ch'egli è fatto ad immagine di Dio. Suo dovere e sua felicità sono d'essere questa immagine [... ] di voler essere buono, perché Dio è buono egli ha dato per destinazione d'innalzarsi a tutte le virtù e diventare uno con Lui. Il primo dei nostri doveri è l'amore della verità. La verità è Dio. Amare la verità e amare Dio sono la stessa cosa [... ]Nessun sentimento nobilita l'uomo quanto aspirare malgrado le sue miserie alla perfezione, alla felicità, a Dio". Tale visione dell'uomo e del senso della vita è in piena sintonia con quella dei coniugi Barolo. 2.2 Passione educativa del Pellico Un'anima nobile come quella del Pellico non poteva essere indifferente alla causa dell'educazione dei giovani, da cui dipende il futuro della Società. Già a Milano, mentre compiva i suoi studi, si era prefisso la nobilissima missione dell'insegnamento e l'assecondò come professore di lingua e letteratura francese nel Collegio degli orfani militari. Quindi entrò nella casa del Conte Briche, come educatore dei due figli, Enrico ed Odoardo. Il secondo, al dire del Maroncelli, Bello come un angelo, grazie alle cure dell'ottimo precettore, sviluppava le più degne facoltà umane purtroppo un giovane così promettente si tolse miseramente la vita. Grande fu il dolore del suo cuore di amico, di educatore e quasi di padre. Il Pellico scrive al Marchisio nel 1818 "L'educazione si inserisce in questo progetto di Dio". Un'anima cosi nobile non poteva essere indifferente alla causa dell'educazione nazionale, da cui dipendeva il destino d'Italia. Aveva accettato lo stesso compito nella famiglia del conte Luigi Porro Lambertenghi, qui attendeva all'educazione dei suoi due figli Giacomino e Giulio e conservò questo impegno, di cui era altamente soddisfatto fino al giorno dell'arresto. Undici anni dopo risponde ad una lettera del conte Giulio, suo educando "sono stato commosso nel più vivo dell'anima rivedendo i caratteri del mio diletto Giulio e trovando in tutte le sue espressioni tanta amorevolezza. Non merito gli elogi, che il suo buon cuore le detta; ma vero è che i miei due discepoli erano da me amati con gran tenerezza, e lo sono ancora: Penso ad essi come a due figliuoli miei, e bramo quanto possa bramare un padre che siano felici, cioè virtuosi. V'è Giulio mio una felicità che non dipende dall'uomo, ma ve ne un'altra che possiamo procurarci ed è la più importante: la virtù, l'onore la stima di se stesso...Sì io anelavo a dare una degna educazione" e continua raccomandando che per essere uomo in tutto il nobile senso della paròla: ", bisogna perseverare nel bene, migliorarsi di continuo, lottare magnanimamente contro le proprie passioni, proporsi un'altissima gentilezza per scopo, e non contentarsi di essere un mediocre valentuomo"' (Ep., n. 51). Educare era la sua vocazione. Persino in carcere cercava ogni occasione per rendere migliori i suoi compagni di sventura e quando si accorse che non poteva fare nulla per loro, si dedicò ad insegnare ad un povero sordomuto. Lo diceva egli stesso: "Ebbi sempre molta inclinazione per i fanciulli e l'ufficio di educatore mi pareva sublime". Egli fu un educatore non solo con la testimonianza di vita, ma a questa nobile missione consacrò anche il genio e la penna. Il libro Le mie prigioni è uno dei più semplici, dei più veri, in esso non c'è ricerca d'effetto, o volgarità, né segno d'ira o di risentimento e in ogni sua pagina spira una filosofia tutta cristiana. E' un libro che riempie l'anima di sentimenti soavi, educa, consola, rende il lettore più buono, insegna a sopportare i dolori della vita, a compatire e a perdonare. Per i suoi carcerieri egli non ebbe mai una parola amara e di rancore. Molto più che le bestemmie, gli insulti, l'odio, le grida di vendetta valse la parola semplice e serena, la parola di rassegnazione e di perdono, proferita dal mite Silvio. Chi legge quelle pagine riboccanti di evangelica carità e di amore non può che ammirare le virtù dell'autore e condannare la ferocia di un governo che faceva scontare con inenarrabili torture le aspirazioni per l'indipendenza della patria. Un'altra operetta altamente educativa, dedicata ai giovani I doveri degli uomini, pensata in carcere, ma scritta dopo Le mie prigioni, è ricca di sapienza e allo stesso tempo semplice e sublime come il vangelo. Sono consigli ispirati dalla fede e dalla morale cristiana che egli rivolge ai giovani da lui amati. Amava anche i piccoli che ogni giorno incontrava nell'asilo Barolo, con loro si intratteneva affabilmente accarezzandoli e incoraggiandoli. Compose una poesia Le sale di ricovero dove narra la storia di bimbi poveri che finalmente trovano un luogo dove maestre si prendono cura della loro salute fisica morale e intellettuale, grazie alla generosità dei benefattori i marchesi di Barolo. Si recava anche al monastero delle Suore di Sant'Anna per dare lezione di francese alle religiose che si preparavano a dare gli esami per maestra. Silvio Pellico è anche autore di Inni squisitamente religiosi, nonché di Rappresentazioni drammatiche, quest'ultime composte tra il 1835-1850 in Casa Barolo e scritte quasi tutte per suggerimento e ad istanza della Marchesa con intento altamente educativo per rappresentarle negli Istituti da lei fondati. In ogni pagina di questi drammi spira il candore e la fermezza della sua fede che intende trasmettere a chi li rappresenta ed a chi li assiste. Concludiamo. Silvio tu sei stato cristiano e cittadino, credente e patriota, virtuoso e dotto, sei un modello per tutti. Sei anche nostro educatore, noi ti ricordiamo con venerazione e ti chiediamo di pregare per l'Italia, per il mondo e per noi.
Autore: Suor Felicia Frascogna
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