Giovanni Cocchi nacque a Druento (Torino) il 2 luglio 1813, in una famiglia di contadini, ricca solo di una fede robusta. Madre e figlioletto dovettero presto trasferirsi in città, dove presero dimora in un modesto alloggio presso la parrocchia della SS. Annunziata. Un giorno in casa non vi era assolutamente nulla da mangiare tanto che la mamma mandò il figlioletto dal parroco don Boschis a chiedere l’elemosina. Quella triste occasione fu motivo per il sacerdote di notare l’intelligenza del giovanissimo ragazzino che fu poi accolto dal prevosto di Borgaro per essere istruito. In Giovanni sbocciò la vocazione religiosa e, proseguiti gli studi, fu ordinato prete nel 1836. Nella sua parrocchia, nel ruolo di vicecurato, si distinse, fin dai primi anni del suo ministero, per l’attenzione ai poveri, agli ammalati e agli orfani. In breve tempo divenne popolare, nato poverissimo si fece tramite fra i ricchi e quanti erano nel bisogno. Portava in cuore certo l’esempio del “santo parroco” di Druento l’abate Federico Antonio Ceva di Nucetto (morto nel 1787) di cui sentì parlare dai genitori. Anche don Giovanni regalava ai poveri tutto quello che poteva.
Nel 1839 don Cocchi andò a Roma con l’intenzione di farsi missionario. Si mise a disposizione della Congregazione di Propaganda Fide, pronto a partire verso qualunque meta gli avessero proposto. La domenica svolgeva il suo ministero in un oratorio tenuto dai padri di s. Filippo Neri che era presso la Bocca della Verità, aperto in particolare ai giovani di “civil condizione”. Colpito da quella istituzione e pensando che nulla di simile esisteva a Torino, decise che le “sue Indie” sarebbero state la capitale sabauda dove tornò nel dicembre 1839. Si dedicò così ai tantissimi ragazzi che girovagavano per le strade, senza istruzione e senza guida. La sua parrocchia aveva giurisdizione sulla zona di Vanchiglia, periferia nord della città, e comprendeva il sobborgo del Moschino costituito da catapecchie in cui erano all’ordine del giorno fatti di sangue. Era terra di nessuno, pure le guardie avevano timore ad entravi. Era un luogo malsano, in cui transitavano per defluire verso il Po canali e scoli d’acqua. Vi spadroneggiava una banda di ragazzi, poveri, ignoranti e violenti. Proprio nel Moschino don Cocchi aprì l’oratorio dell’Angelo Custode, il primo della città di Torino. Nel 1841 vi stabilì a fianco un ospedaletto per anziani che vivevano miseramente e un ritiro per ragazze povere. Queste due ultime istituzioni non durarono a lungo, mentre lo zelante sacerdote certo non diminuiva l’impegno in parrocchia. Nel 1844 vi fondò infatti la compagnia delle Figlie di Maria.
Nei pressi di un’osteria don Cocchi aprì quindi il primo oratorio cittadino che nel 1847 portò in Borgo Vanchiglia, presso una tettoia in cui sistemò anche una cappella. Le attività erano festive e pensate per gli adolescenti, dopo la Messa e il catechismo, cominciavano i giochi e gli esercizi di ginnastica. I giovani erano in buona parte immigrati dalle campagne e dalle vallate e non frequentavano le parrocchie. L’arcivescovo Fransoni il 4 aprile 1847 approvò il Regolamento provvisorio che don Cocchi aveva compilato. Nel mese di ottobre il parroco dell’Annunziata visitò e benedisse la cappella. Nel frattempo don Bosco aveva fondato l’Oratorio di S. Francesco di Sales (1844), passando dal Rifugio della Marchesa di Barolo, a S. Pietro in Vincoli, ai mulini della Dora, fino ad approdare nell’aprile 1846 a Valdocco, presso la tettoia Pinardi. In città si parlava così dei ragazzi di don Bosco e dei ragazzi di don Cocchi. Questi oratori, che poterono sorgere anche grazie al sostegno di alcuni nobili, a differenza di quelli operanti in altre città, erano aperti a tutti, slegati dalle attività di scuole o parrocchie. Nel dicembre 1847 don Cocchi e il teologo Roberto Murialdo, cugino del santo, firmarono su una rivista pedagogica un programma, in cui si sottolineava la necessità dei ragazzi di poter studiare, di essere educati all’amore per la religione e il lavoro. Si pensò quindi di aprire scuole serali o festive in quanto essi cominciavano a fare i garzoni nelle botteghe già a 13 anni. Si insegnava a leggere, a scrivere, l’aritmetica e il canto, in particolare per partecipare alle funzioni religiose. Il programma fu presentato da don Cocchi al Ministero d’Istruzione, mentre al Re fu chiesto un aiuto economico. Nello stesso anno don Bosco e il teologo Borel aprirono dalle parti di Porta Nuova l’Oratorio S. Luigi.
I sacerdoti che si dedicavano ai giovani abbandonati erano ammirati ma, alle volte, anche guardati con circospezione. La complessità politica dei tempi portò tensioni anche nel clero, alcuni volevano schierarsi, altri rimasero neutrali. L’anno seguente i giovani dell’Angelo Custode ebbero l’idea di prendere parte alla battaglia di Novara e don Cocchi volle accompagnarli. Partirono a piedi e passando per Chivasso raggiunsero Vercelli, mentre arrivò la notizia che a Novara c’era stata la sconfitta. Sulla strada del ritorno furono oggetto di scherno da parte di alcuni contadini che li scambiarono per dei poco di buono. Affamati, rientrarono nottetempo in città. A seguito di quei fatti don Cocchi dovette vivere per qualche tempo appartato e l’oratorio fu chiuso fino a quando, presi accordi con don Bosco e don Borel, fu da loro riaperto. Don Bosco fu certo più cauto, mentre don Cocchi era un “prete patriota” e poteva dare alcune noie. A partire dal 31 marzo 1852 i tre oratori, dopo una lettera del Borel all’arcivescovo Fransoni - che era in esilio a Lione - furono messi sotto la direzione di don Bosco e giovaono della attività catechistica di alcuni sacerdoti del Convitto di San Francesco appositamente inviati dal Cafasso. Qualche tempo dopo all’Angelo Custode fu nominato direttore don Roberto Murialdo, lo sarà per 3 anni, e per tale motivo iniziò a frequentare quell’Oratorio il cugino S. Leonardo che dal 1851 ricevette l’incarico di farvi catechismo. Il vulcanico don Cocchi, intanto, il 15 ottobre 1849, aveva diffuso un Avviso-invito rivolto a sacerdoti e giovani per fondare una società rivolta ad assistere ed educare la gioventù. Erano gli inizi del Collegio Artigianelli e dell’Associazione di carità costituita nel 1850. Il collegio subì alcuni traslochi, solo nel marzo 1863 avrebbe trovato sistemazione nel palazzo di Corso Palestro appositamente costruito. Don Cocchi diresse il collegio fino al 1852: lo scopo era di accogliere, educare cristianamente ed addestrare nel lavoro i ragazzi orfani o comunque privi di mezzi economici. Nei primi tempi impararono un mestiere direttamente nelle botteghe artigiane per divenire calzolai, fabbri, falegnami. Da qui il nome “Artigianelli” voluto da don Cocchi. L’istituto purtroppo fu quasi sempre gravato da debiti, non vi erano entrate sicure e quasi tutti i ragazzi venivano ospitati gratuitamente.
Nel febbraio 1852 don Cocchi fondò l’Oratorio S. Martino, nella zona di Borgo Dora, nel mese di novembre realizzò una colonia agricola a Cavoretto e la responsabilità del s. Martino passò a don Ponte. Negli oratori torinesi fecero intanto la propria comparsa i membri della Società di S. Vincenzo de’ Paoli che provvedevano al catechismo e portavano la propria solidarietà. Alla conferenza dei giovani veniva aggregata una di adulti che garantiva il sostegno economico. Nel 1853 la colonia agricola di Cavoretto fu trasferita a Moncucco, nel 1868 don Cocchi aprì un riformatorio a Chieri che poi proseguì, dal 1870, per tredici anni, a Bosco Marengo.
Anche da anziano l’attività di don Giovanni ebbe del prodigioso: dal 1883 fu rettore del Santuario della Pace di Albisola Superiore, nel savonese, fino al 1889 e anche lì fondò una piccola colonia agricola. Infine si trasferì a Catanzaro, fino al 1892, avendo accettato l’incarico di dirigere il locale seminario. Don Cocchi ebbe per tutta la sua lunga vita inventiva e coraggio, seguendo il motto “Taciamo e facciamo”. Morì agli Artigianelli nel giorno di Natale del 1895. Il Murialdo lo definì “un umile prete, povero di danaro, ricco solo di fede in Dio e di carità pei fratelli”. Lo aveva sempre circondato di affetto e venerazione, chiamandolo “il nonno degli Artigianelli” e nella chiesa dell’istituto, dedicata all’Immacolata, fu sepolto il 13 maggio 1917, dopo la riesumazione delle ossa avvenuta nel Cimitero Generale di Torino. La sua prima biografia fu scritta già nel 1896 dal servo di Dio Eugenio Reffo. La natia Druento, nell’arco dell’antica porta del borgo, scrisse nel 1899 il suo nome, quindi gli dedicò la vita della casa in cui nacque sulla cui facciata venne posta una lapide. Il teatro degli Artigianelli, fu intitolato a don Cocchi nel 1913 in occasione del centenario della nascita.
Autore: Daniele Bolognini
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