Si chiamava Roberto Rivi ed era nato a San Valentino di Castellana (Reggio Emilia), il 30 ottobre 1903, primo di numerosi fratelli, in una famiglia in cui la fede animava la vita e le opere di tutti i giorni. Crebbe imparando, alla scuola di mamma Anna, una donna dalla vita cristiana splendida, a pregare quotidianamente la Madonna con il Rosario e a incontrare tutte le domeniche e poi ancor più sovente, Gesù, nella Messa e nella Comunione. Ben presto, il parroco, don Jemmi, divenne la sua guida spirituale. Dopo le scuole elementari, Roberto rimase a casa a lavorare la campagna e a testimoniare la sua fede cristiana tra la sua gente. Era puro e leale come un cavaliere antico. A 20 anni, prestò servizio militare, passando anche alcuni mesi a Zara, nell’Istria, assai lontano da casa. Un tempo, questo del militare, lungo e duro, vissuto in ambienti difficili, ma sempre in fedeltà a Gesù, anche a costo di qualche sacrificio. Rientrò in famiglia a San Valentino, a metà degli anni ’20, nel periodo in cui la Chiesa era guidata da Pio XI che cercava di organizzare la gioventù nell’Azione Cattolica. Roberto fece parte di quei giovani cattolici, appassionati, che si ispiravano anche ai martiri del Messico, i quali, proprio in quegli anni, cadevano sotto il piombo dei persecutori, gridando: “Viva Cristo re!”. Ventiquattrenne, Roberto incontrò Albertina e la sposò, deciso a farsi una famiglia che avesse come centro Gesù quale Luce, Amore e Guida. Dopo un po’ vennero i figli che furono la sua più grande gioia. Il 7 gennaio 1931, gli nacque Rolando che si dimostrò subito un figlio speciale. Vivace, allegro, un vero spasso. A cinque anni, già serviva la Messa al parroco, don Olinto Marocchini e si vedeva che gli piaceva proprio stare in chiesa a pregare e a cantare le lodi del Signore.
Un piccolo eroe Quando a sette anni appena, il 16 luglio 1938, nella festa della Madonna del Carmelo, venerata in parrocchia, Rolandino ricevette la prima Comunione, fu davvero per lui una festa umile e solenne. Gesù diventava finalmente il suo intimo amico. A scuola, guidato dalla maestra Clotilde Selmi, seppe dare buoni risultati, sostenuto da una vivace intelligenza, imparava con facilità e aiutava volentieri i compagni. Era generosissimo con i poveri di passaggio, ai quali donava con larghezza, dicendo: “La carità non rende povero nessuno. Ogni povero per me è Gesù”. Papà Roberto era felice di un bambino così, proprio come lui voleva. Il 24 giugno 1940, dal Vescovo, Mons. Eduardo Bretoni, Rolando ricevette la Cresima. Si sentì ancora più impegnato per Cristo, un “soldato di Cristo”, come si diceva allora, e prese forti impegni con il Signore: la Messa e la Comunione quotidiana, la Confessione settimanale, il Rosario alla Madonna ogni giorno da solo o con la famiglia. I suoi piccoli amici del borgo, Rolando cercava di portarli in chiesa, davanti al Tabernacolo e di condurli al catechismo, per crescere nella fede. Papà Roberto tra sé, si chiedeva: “Chi mai diventerà questo bambino?”. A 11 anni, dopo la V elementare, il ragazzino decise: “Voglio farmi prete. Papà, mamma, vado in Seminario”. Così, all’inizio dell’ottobre 1942, entrò in Seminario a Marola (Reggio Emilia) e vestì subito l’abito da prete, come allora s’usava. Studiava con serietà, con la sua bella voce faceva parte del coro. Nei momenti liberi stava volentieri davanti all’Eucaristia, appassionato com’era della sua vocazione sentendosi un prediletto da Dio. A casa, in vacanza, durante l’estate, continuava a vivere da seminarista con fedeltà ai suoi impegni e facendo apostolato tra i suoi compagni. Il papà era contento e orgoglioso che il buon Dio gli avesse donato un figlio così e già pregustava la gioia di vederlo sacerdote. Era felice di cantare in chiesa, quando Rolando suonava l’armonium e accompagnava i cantori durante le celebrazioni, la Messa e i Vespri. Nel 1944, il Seminario, a causa della guerra, fu chiuso. Rolando tornò a casa e viveva, nonostante le difficoltà, la sua stessa vita, ardente e luminosa, sulle colline di San Valentino. A chi gli chiedeva di vestire come gli altri ragazzi, rispondeva: “Non posso lasciare la mia veste: è il segno che io appartengo al Signore”. Il 10 aprile 1945, finì in mano ai comunisti a Monchio, in provincia di Modena. Lo portarono nella loro base e lo processarono. Lo schiaffeggiarono, lo percossero con la cinghia e gli tolsero l’abito religioso. Poi emisero la sentenza: “Uccidiamolo, avremo un prete in meno”. Lo portarono in un bosco presso Piane di Monchio. Qui scavata la fossa, mentre Rolando, in ginocchio pregava il suo Gesù per sé, per i genitori, per gli stessi aguzzini, questi lo presero a calci, poi con due colpi di pistola, uno al cuore e uno alla fronte, gli tolsero la vita. Era il 13 aprile 1945, quando Rolando Rivi, a 14 anni appena, fu freddato da due colpi di rivoltella, nel clima di odio contro la Chiesa e i sacerdoti. Era un venerdì, giorno dedicato alla morte di Gesù in croce. La veste da prete diventò, nelle mani dei comunisti, un trofeo che fu appeso sotto il porticato di una fattoria vicina.
Al di là dell’odio Il papà, su quella immane tragedia, disse soltanto: “Perdono”. Era straziato, ma con la sua fede grandissima, riprese a vivere infondendo coraggio ai suoi e illuminando il dolore con la preghiera incessante, sentendosi quasi chiamato a compiere lui il bene al posto di Rolando. Il martirio del figlio seminarista lo spinse ad impegnarsi a fondo, in prima persona, per costruire, negli anni del dopoguerra, una società cristiana. Nel tempo dell’immane conflitto, gli erano morti al fronte, lontanissimo da casa i due fratelli Rino e Adolfo, e in casa, la sorella Lina. Negli anni che verranno, altri lutti e dolori provarono la forte tempra e la fede invincibile di papà Roberto. La sua vita stupiva chi lo avvicinava, perfino i sacerdoti, che lo stimavano e ne amavano la compagnia, e la sorella suora: “Con tutto quanto ha patito, come può essere così forte e sereno?”. La sua risposta era la Croce di Cristo. Così papà Roberto portava la sua fede davanti a chiunque, sempre “uno con Gesù”: nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti sociali, nel modo di intendere le cose e nelle scelte quotidiane. Una vera mentalità di fede, la sua, tradotta in semplicità interiore e letizia. Gli anni passavano e la sua esistenza si faceva sempre traboccante di preghiera: molto spesso, forse ogni giorno, la Messa e la Comunione, in un colloquio lungo con Gesù per la Chiesa, per il mondo, per i sacerdoti, fino al punto di riconoscere con semplicità: “Io starei sempre davanti al Signore vivo, nel Tabernacolo”. Nel cuore, una capacità grande di amare e di donare, sempre pronto ad aiutare chiunque come un fratello. La Via Crucis diventò la sua preghiera preferita: la ripeteva anche più volte al giorno, tenendo la foto di suo figlio Rolando, tra le mani, ricordando al Divin Sofferente i suoi familiari, gli amici i sacerdoti e coloro che gli avevano fatto del male. Si illuminava tutto quando parlava di Rolando e commuoveva chi lo ascoltava quando diceva: “Forse il Signore ha permesso così, perché Rolando non avesse a prendere una cattiva strada... l’ha voluto con Sé, tra i santi. Ho sofferto tanto, ma non sono arrabbiato con il Signore. Siamo sulla terra per compiere la sua volontà”. Il 22 ottobre 1992, a 89 anni, papà Roberto rivedeva il suo Rolando e i suoi cari che lo avevano preceduto in Paradiso. Chi lo ha conosciuto di persona o chi semplicemente lo ha solo ascoltato poche volte al telefono, è rimasto incantato dalla sua fede granitica e dolce.Gesù solo, il Redentore dell’uomo, forma uomini così, Lui che ha assicurato: “Abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).Con Gesù, vincitore del peccato, del dolore e della morte, anche papà Roberto, con il suo piccolo figlio martire, appare un vincitore.
Autore: Paolo Risso
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