Nacque il 27 giugno 1903 a Genova, da Leone Scandiani e da Rachele Vitali di razza ebraica. Figlia unica. Trasferitisi i genitori a Milano, Lea – questo il suo nome d’origine – compì gli studi nella metropoli lombarda, coronandoli con la laurea in lettere a 22 anni, con 110 e lode e la pubblicazione della tesi. Il padre le morì quand’ella era giovanissima e, per poter studiare, Lea impartiva lezioni private, lavorando e studiando instancabilmente. Si addestrò in studi forti e profondi. Una vera maestra in greco e latino. In un’estate, nel caldo afoso di Milano, si lesse tutto Tito Livio. Si concesse il lusso di conoscere, oltre al francese e all’inglese (troppo normale!) anche l’ebraico (la lingua dei suoi padri) e il sanscrito. Ma, nonostante suo padre lo desiderasse assai, non le riuscì mai di mandare a memoria i salmi in ebraico. Con una mente così attrezzata, le fu facilissimo, diventare ordinaria di lettere classiche al ginnasio-liceo: a Vigevano, Cremona e, infine, a Piacenza, dove si stabilì, con la mamma. Presto fu ricercata come scrittrice in centri di cultura e conferenziera sui temi più diversi: coltissima, brillante, ironica. Legatissima alla mamma, l’assistette di persona sino all’ultimo, quando, ricca, stimata, in primo piano nel bel mondo della cultura, si trovò di fatto sola nella casa troppo grande. Durante l’estate, in un tempo in cui non si viaggiava ancora molto, Lea partecipava a crociere: si portò ai quattro punti cardinali dell’Europa e sulle coste dell’Africa e si spinse fino in Australia. Approfondiva la cultura con lo studio diretto dei classici greci e latini, a contatto diretto delle civiltà moderne e dei reperti delle civiltà antiche, con il gusto del bello, nella letteratura, nella natura, nell’arte. Un anno, andata in Grecia, riuscì a conversare in greco classico. “Ho avuto anni di agiatezza nei quali ho potuto viaggiare dal deserto libico alla banchisa polare, da Amsterdam a Rodi, in treno, in piroscafo, in auto, in aeroplano... La mia casa si riempì di oggetti scelti con cura minuziosa e diventò un nido delizioso... Ho visitato i ritrovi più lussuosi di Parigi e di Berlino, di Vienna e di Budapest... Ho accontentato il cervello in tutte le sue curiosità”. La foto della sua carta d’identità ci mostra Lea con il volto di singolare bellezza, la capigliatura folta raccolta sotto una voluta di trecce, gli occhi sereni e limpidi. “Ho provato tutto meno l’amore sensuale, da cui, Tu mio Dio, mi hai preservata: non la mia virtù, ma solo umana prudenza che mi faceva evitare il peccato. Ho sentito ripugnanza tutte le volte che il desiderio mi ha sfiorata, ma questo facevi Tu, mio Dio, Tu che mi attendevi, Tu che un giorno sapevi che sarei stata tua”.
“Vanità delle vanità” Proprio in mezzo a questa esistenza apparentemente felice, Lea sentì quanto Qoelet scrisse nel suo libro: la totale vanità del tutto: “A 8 anni, desideravo morire, a 18 pensavo che mio padre e mia madre avrebbero fatto meglio a risparmiarmi l’incomodo di venire al mondo. È vero che non avevo la fede, ma la vita senza di Te, mio Dio, è cosa amara e nessun piacere né materiale né spirituale valgono ad addolcirla. Solo Tu, mio Dio, sazi il cuore dell’uomo”. Si pone delle domande terribili, le uniche serie, le sole vere: “Che cosa siamo venuti a fare nel mondo? Da dove veniamo e dove andiamo? Che senso ha questo velo dipinto tra due abissi neri? Angoscia”. E ancora: “E poi? Che cosa importerà fra qualche anno o fra qualche mese che io abbia fatto questa azione? Io spolvero e subito la polvere scende di nuovo. Io insegno e l’alunno dimentica il poco che ha capito... Oh, i limiti del nostro pensiero, della nostra memoria, la povertà dei piaceri intellettuali! Non avevo fede, nessun credo”. Era il 1937. Ebrea di razza e di educazione – di cui sente l’orgoglio – ma indifferente a ogni religione. In fondo, per lei, tra i libri dell’Antico Testamento, il più vero è proprio Qoelet. All’arrivo dell’inverno, Lea si dà agli sport sulla neve, a S. Vigilio. Nell’albergo che la ospita, la notte di Natale, tutti vanno a Messa, mentre ella sola rimane ad annoiarsi “con il cuore più freddo della neve ghiacciata sotto gli scarponi”. “Nella primavera – continua a raccontare – volli fare un tentativo per avvicinarmi alla religione della mia gente:partecipai alle feste pasquali in casa di una famiglia di ebrei religiosissimi. Non trovai che un insieme di cerimonie senza significato... Essi sapevano che io non credevo e non praticavo e non gliene importava niente”. Fa però una scoperta. Il suo parroco da sette anni pregava e faceva pregare per lei. I suoi allievi pregano per lei. Le suore che avevano assistito la sua mamma morente, pregano per lei. Una sua collega prega per lei: affinché Lea faccia ciò che ogni uomo, ogni donna deve fare, a cominciare dai figli d’Israele: convertirsi a Gesù Cristo, Figlio di Dio, unico Salvatore del mondo, vaticinato dalle Scritture, atteso dalle genti. Lea sente un amore grande per il suo popolo, come mai lo ha amato, tanto più che stanno avvicinandosi ore molto tristi che mai sarebbero dovute giungere. Una collega la invita a Milano ad assistere alla rappresentazione dell’Adelchi del Manzoni: intuisce, per la prima volta, la grandezza e la verità del Cattolicesimo e le nasce dentro la sete di conoscerlo a fondo, di conoscere il Dio di Gesù Cristo, il vero Dio. L’amicizia le fa leggere il libro “La sete e la sorgente” del P. Gratry. La sua indifferenza si sgretola: vede che i più grandi geni del pensiero e dell’arte hanno piegato le ginocchia e la fronte davanti a Gesù. Legge il Catechismo degli increduli di Sertillanges, le Confessioni di S. Agostino, le Conferenze di Lacordaire. Ne rimane folgorata: la sua intelligenza si apre alla Verità, a Cristo, unica Verità. A Pasqua del 1938, in piazza S. Pietro a Roma, Lea ascolta il messaggio di Papa Pio XI, commossa sino alle lacrime, alla voce del Vicario di quel Gesù, che i suoi avevano inchiodato alla croce, ma che tuttavia era giunto, più vivo che mai, proprio lì, attraverso venti secoli di storia, piena di persecuzioni e di gloria. Lea si inginocchia quando il Papa alza le mani a benedire “Urbi et Orbi”. Al termine dell’anno scolastico, va a Livorno a passare le vacanze. Un sabato, si reca ad assistere ai riti nella sinagoga: “Ne provai una grande tristezza... Dopo che il Verbo di Dio è nato nel tempo e nel luogo preconizzato, dopo che in Lui si sono avverati i vaticini dei profeti, dopo che nel Cristianesimo l’Ebraismo ha avuto la sua conclusione, che significato ha ancora essere ebreo? Come si può ancora attendere Colui che doveva venire, ed è venuto 19 secoli fa?”.
Gesù Cristo! Qualche giorno dopo, entra nella chiesa di S. Ferdinando e vede un prete con un Crocifisso sul petto e gli dice: “Sono ebrea e cerco la fede, la fede cattolica”. Quello le risponde che in quel momento non può occuparsi di lei e le dà due consigli: “Legga il catechismo per i bambini di 1ª elementare e si raccomandi alla Madonna”. Lei laureata, poliglotta... leggere il catechismo dei bambini di sei anni? Mah, che cose! Lea lo compra e sale al Santuario di Montenero. Lì qualcuno le offre un cero da accendere alla Madonna: Lea lo rifiuta. Osserva gli ex-voto, con storie di miracoli: “Quanta fede nella Vergine! Ma questa fede l’anno avuta anche Dante, Petrarca, Manzoni”. Si ritrova a pregare la Madonna, con il canto 33 del Paradiso “Vergine, Madre, figlia del tuo Figlio”. Si siede su una panca davanti all’altare della Madonna e guarda attorno. Si alza e va ad accendere due ceri. Ritorna a sedersi: “Passai l’ora più terribile di tutta la mia vita. Mi sentii nel giusto, nella Verità. Mi feci schifo. Sentii il mio niente... Fui presa da un gran bisogno di piangere. Era la più bella grazia che la Madonna potesse farmi”. Nel ristorante dove va a pranzo, legge il piccolo catechismo: “A quella luce, io vidi... Tutto quello che posso dire è che io, quella mattina di luglio, a Montenero, ho saputo che Gesù cristo È dio”. Ritorna in chiesa: “davanti a Lui, inginocchiata per la prima volta, rivolsi la mia prima preghiera: «Signore, illuminami!»”. L’8 luglio 1938, a Livorno, entra in una chiesa ottagonale e chiede del parroco, il quale non c’è. Le mandano il priore, P. Pietro Lorgna, domenicano, dotto ed esemplare, fratello di P. Giocondo Pio Lorgna, pure domenicano, morto dieci anni prima, l’8 luglio 1928, al quale, lui, P. Pietro, ogni anno, nell’anniversario della morte, era solito chiedere una grazia speciale. Lea Scandiani, appena lo vede, gli dice: “Sono ebrea, ma ora credo in Gesù Cristo e nella sua Chiesa. Chiedo il Battesimo. Voglio farmi suora domenicana, voglio essere di Gesù per sempre”. Al termine di due giorni di colloquio intenso e attanagliante, P. Lorgna, il 10 luglio 1938, la battezza e le dà la prima Comunione: “Avevo 35 anni e mi sentivo come una bambina che si affaccia alla vita e che vede tutto con occhio nuovo e stupito. Prima tutto era polvere, ora cominciava l’eternità. E che gioia nuova di vivere!”. Ritorna a Piacenza. Vende tutto, eccetto i libri, dà le dimissioni dalla scuola. Una sera d’ottobre 1938, la professoressa già ebrea, ora appartenente a Cristo, portando gli sci in spalla (perché così le hanno ordinato) entra, come umile postulante, nel “Cenacolo domenicano” di Genova-Sestri. Il 5 marzo 1939, comincia il noviziato, diventando suor Pia. Il 25 marzo 1941, offre a Dio i primi voti. Offre a Dio la vita per la conversione dei parenti e amici ebrei, del suo popolo. Tutte le sofferenze della guerra, le privazioni, la vita in clandestinità per alcuni mesi, l’obbedienza religiosa che pure le costa, diventano purissimo sacrificio a Dio per il suo popolo. Si dedica all’insegnamento nel suo Istituto con un’unica preoccupazione, quella di S. Domenico, di S. Tommaso d’Aquino, di Savonarola e di Lacordaire: “Contemplare Dio. Immergersi in Lui tramite Gesù Cristo. Donare agli altri il Dio contemplato. Innamorare gli altri di Lui. Ardere e illuminare. Stare alla Scuola di Gesù, unica Verità, per dare Gesù, unica Verità”. Pia lo fa con lo studio e con la preghiera, con l’insegnamento e con gli scritti, con la sofferenza molteplice che si accumula sulle sue spalle. Lampada ardente che si consuma per Gesù Cristo, per Gesù solo, perdutamente amato. Per 12 anni, così: cattolica e domenicana. Poi la malattia atroce, il tumore al cervello, a 48 anni di età. Alle ore 0,30 del 5 luglio 1951, suor Pia, al canto della Salve Regina, esala l’ultimo respiro sul Crocifisso, appoggiato sulle sue labbra. In uno dei suoi ultimi attimi di lucidità, ha detto alla sua superiora: “Che cosa vuoi che desideri di più della salvezza degli ebrei?”.
Autore: Paolo Risso
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