Così narra di sé Antonio Fradeletto, nato il 5 marzo 1859 a Venezia, nel suo libro autobiografico Ritorno a Cristo (Roma, 1925): «Dal 1869 al 1876, dagli undici ai diciotto anni, fui allievo del Convitto Foscarini di Venezia, dove ebbi una seria educazione religiosa. Nei due ultimi anni del liceo, erano miei libri prediletti tre capolavori della letteratura cristiana: Le Confessioni e la Città di Dio di Sant’Agostino e l’Imitazione di Cristo. Mi ritornano alla memoria certi episodi della mia sincera pietà: il raccoglimento apprensivo con cui mi accostavo alla Confessione e alla Comunione eucaristica. Episodi comuni alla mia fanciullezza credente e praticante». Era cresciuto ricevendo una buona educazione cristiana, fondata su un notevole approfondimento della fede. Nel 1878, si iscrisse all’Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia. La sua fede entrò in crisi. Scrive: «A Padova cadde la fede della mia gioventù. Cadde senza strappi dolorosi. Mi ero arreso a constatazioni che mi parevano inoppugnabili: le credenze di prima mi si affacciavano come gentili illusioni, scalzate dalle indagini della scienza».
La scienza contro Cristo? Tre indirizzi, che spadroneggiavano in quel tempo in Italia e in Europa fecero di lui una vittima. Il positivismo, con i suoi tre maestri Spencer, Littré e Ardigò, gli aveva insegnato che ciò che vale è soltanto l’esperimentabile, quel che si vede e si tocca. Il darwinismo, con la teoria dell’evoluzione, si vantava di aver messo da parte Dio creatore e le domande profonde: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”. Il razionalismo sopprimeva l’intervento di Dio nella storia, quindi negava la possibilità della fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo. Tutt’al più il cristianesimo poteva essere un insieme di valori nobilissimi, ma soltanto umani. E così, Antonio si trovò ad essere senza fede. Ma cercava la Luce e la Verità. La cultura cristiano-cattolica che aveva acquisito lo lasciava ancora armato di numerosi interrogativi. Davvero la scienza poteva vincere Cristo? Davvero lo scienza avrebbe risolto tutti i problemi dell’esistenza? Davanti al positivismo, si sentiva avvolto dal senso del Mistero che ci supera. La sicurezza di quei filosofi, lo irritava e per questo definì Ardigò, ex-prete, un teologo del nulla. «Nel positivismo, scrive, mi sentivo amputato del mio essere, incarcerato nelle facoltà dello spirito». Cominciò a demolire il darwinismo, riscoprendo un’idea, seppure vaga, del Divino. Sentiva che non bastava la materia a spiegare la vita, neppure l’evoluzione che pretendeva risolvere tutto: occorre un Principio più alto, assoluto. La figura divina del Cristo lo tormentava. Il suo razionalismo entrò in crisi: ma come poteva Gesù essere soltanto un uomo, Lui così alto, così originale, così inedito, in una parola così incomparabile, anzi adorabile? Antonio cercava la Verità e voleva ritrovare la Luce.
Solo Cristo risponde Intanto era entrato in Parlamento: senatore del Regno d’Italia. Nel 1908, il Parlamento discuteva il problema dell’insegnamento religioso nella scuola elementare. Il dibattito si fermò sulla mozione dell’onorevole Bissolati, socialista: “Nella scuola si devono solo insegnare le cose riconosciute e provate come certe; la religione è cosa incerta, dunque non si deve insegnare”. Il senatore Fradeletto si oppose e disse apertis verbis: «La religione s’intreccia assiduamente con la vita, le gioie e i dolori di tante famiglie. Così entra nella scuola attraverso l’allievo. Può il maestro rimanere sordo davanti a questo sentire, ancora può quando l’alunno si rivolge a lui? E ancora: l’alunno s’interroga davanti al cielo stellato, davanti a una culla, a una bara. Gli spuntano sulle labbra dei “come” e dei “perché”: come si comporterà il maestro? Tacerà o parlerà?». Ad una ad una, le false certezze del positivismo appreso a Padova, gli erano crollate. Ma non possedeva ancora certezze. Venne la prima guerra mondiale con la sua somma di dolore senza limiti. A guerra finita, Antonio Fradeletto fu nominato Ministro delle terre liberate. Vide allora di che cosa aveva bisogno l’umanità: di verità e di amore. Il Vangelo di Cristo gli ritornò alla mente con la sua luce, la sua forza dirompente e incandescente. «Il Vangelo mi si presentava come il libro incomparabile della salvezza. Ivi risuonano le parole più sublimi che mai siano state proferite sul destino umano, non in un mondo chimerico o romantico, ma nel mondo che è il nostro, nel quale, attorno a Gesù, martire della purezza e del sacrificio, si avvicendano i deboli, i tribolati, i malfamati... il Vangelo mi apparve risolutivo nei riguardi pratici della vita». Il senatore illustre riprese in mano il Vangelo. Lesse, meditò, risentì Gesù parlargli al cuore. Passò in rassegna le sue parole, di cui una lo colpì nel più intimo: «Chi perde la vita per me, la salverà». Concluse che Gesù è infinitamente superiore a Socrate, a Budda, a tutti i sapienti che senza di Lui costoro e noi insieme non sappiamo un bel nulla. E aggiunse: «Al di sopra di tutto sta l’affermazione che Gesù è divino di origine e di natura, che il Vangelo è comando di Dio cui l’uomo non può sottrarsi senza andare in rovina». Comprendeva che a Gesù non si deve la discussione, ma l’obbedienza. Le obiezioni degli increduli al Cattolicesimo, gli apparvero inconsistenti, vuote. Scrisse: «Gesù Cristo è sintesi senza precedenti di spirito e di vita, di tenerezza e di calore, d’indulgenza e di sdegno, di consolazione e di olocausto. La Chiesa Cattolica è una grande famiglia che risale, ininterrottamente, attraverso settanta generazioni a coloro che ascoltarono direttamente la viva voce di Lui». Era la scoperta della Tradizione della Chiesa. A questo punto, egli era giunto alla “porta del Tempio” e doveva ancora compiervi l’ultimo passo per entrarvi: «Gesù – si chiedeva – è divino solo per l’altezza e l’universalità del suo insegnamento o lo è per l’origine e la natura divina, come afferma la sua Chiesa? Io mi arrestavo riverente sulla soglia di questo dilemma».
Pier Giorgio Tra i lettori del testo Ritorno a Cristo di Fradeletto, ci fu il salesiano Don Antonio Cojazzi, il simpatico e coltissimo “Don Toni”, dei ragazzi del Liceo di Valsalice (Torino) e dei migliori giovani d’Italia. Nel 1925, sulla sua Rivista dei Giovani, scrisse: “Possa Gesù dire al senatore Fradeletto le parole che Pascal si fa dire da Lui nei suoi Pensieri: Consolati, tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato. Possa il senatore finire come l’apostolo Tommaso. Egli che sente tanta ammirazione e venerazione per Gesù... possa concludere la sua ricerca con il grido: “Mio Signore e Mio Dio”. Antonio Fradeletto lesse l’augurio che gli porgeva Don Cojazzi e gli scrisse subito: “Infinite grazie! Il suo augurio fraterno si compia”. Don Cojazzi affidò il senatore all’Ausiliatrice, affinché rapisse la sua anima e la conducesse a Cristo; andò a parlarne a Don Bosco, davanti alla sua tomba, allora a Valsalice, e invocò l’intercessione di un ragazzo, da pochi giorni ritornato a Dio, un ragazzo ardente, per il quale Don Cojazzi non si dava pace per la morte prematura. Era Pier Giorgio Frassati, spentosi in un tramonto di luce, il 4 luglio 1925. Don Cojazzi si apprestava, per l’invito del Cardinal Gamba, Arcivescovo di Torino, a scriverne la prima biografia. Il senatore Fradeletto la lesse, questa vita di Pier Giorgio Frassati, il giovane santo, puro, eroico, innamorato di Cristo, dalla Messa e dalla Comunione quotidiana, che incuteva soggezione per la sua fede e la sua vita a uomini di altre sponde, quali Giolitti e Turati. Il 17 aprile 1928, Fradeletto scrisse all’autore, Don Cojazzi: «Pier Giorgio fu santamente privilegiato, perché unì virtù che nella massima parte degli uomini sono in contrasto: l’energia e la mite bontà, l’ardimento e l’umiltà, il vivace senso umano e l’obbedienza incondizionata a Dio. Pier Giorgio ci compensa del vivere in questa bassa atmosfera, satura di spirito anticristiano». Fradeletto giunse alla luce piena della fede. Quasi settantenne, ritrovò Gesù Cristo nella Chiesa Cattolica, si fece terziario francescano e visse gli ultimi anni della sua esistenza in unità con Gesù. Si spense sereno il giorno del suo 71° compleanno, il 5 marzo 1930, settantacinque anni fa, dopo aver chiesto e ricevuto tutti i Sacramenti. Così conferma L’Osservatore Romano del 7 marzo 1930. L’Ausiliatrice, Don Cojazzi e Pier Giorgio Frassati, gli avevano dato l’ultima spinta per arrivare alla meta. In Paradiso, sicuramente Pier Giorgio fece una grande festa: conquistava ancora anime al suo Signore e re, Gesù, nella sua stupenda cordata di santità.
Autore: Paolo Risso
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