La storia di Tommaso Sgovio si apre come molte altre: agli inizi del Novecento una famiglia italiana di origini pugliesi viene costretta dalla povertà a cercare fortuna negli Stati Uniti; la situazione pesante in cui si trova il capofamiglia, un semplice operaio, immigrato in un Paese che conosce una profonda crisi economica, porta ben presto quest'ultimo alla militanza politica con la sinistra comunista; l'esito di questo impegno e lo scontro con le autorità americane e la conseguente espulsione dagli Stati Uniti. Siamo all'inizio degli anni Trenta. A quel punto il padre di Tommaso decide di non tornare nell'Italia fascista e di tentare invece la carta che allora affascinava moltissimi attivisti del movimento comunista internazionale: l'Unione Sovietica.
Nell'estate del 1935 anche Tommaso, che era nato nel 1916 quando la famiglia stava già in America da qualche anno, segue il padre e inizia un altro pezzo di questa storia, forse meno comune di quello precedente, ma tutt'altro che unico: dopo un breve periodo di entusiasmo e di speranze, l'Unione Sovietica si rivela per quello che è, un regime compiutamente totalitario, e nel 1938 Tommaso, senza aver fatto nulla di particolare (salvo cercare di riottenere un passaporto americano per tornare negli Stati Uniti), come molti altri stranieri che nell'Urss avevano cercato il paradiso, si trova precipitato letteralmente nell'inferno della Kolyma, uno dei campi più tremendi del mondo concentrazionario sovietico, inferno dal quale potrà uscire, tra condanna e proroga della condanna, solo alla fine del 1947.
Seguiranno altre traversie fino a quando, all'inizio degli anni Sessanta, Sgovio potrà finalmente lasciare l'Unione Sovietica e tornare negli Stati Uniti; qui, prima di morire nel 1997, si rifarà una vita, si sposerà, avrà dei figli e una vecchiaia tranquilla, ma accompagnata da un'insopprimibile esigenza di testimoniare e di mantenere viva la memoria dell'esperienza vissuta.
Da questa esigenza sono nate delle memorie, pubblicate in America nel 1979, tradotte in italiano nel 2009 (Cara America!, Edizioni dal Sud, Bari) e ora anche in russo. Sono memorie di una freschezza e di un interesse di primissimo piano, che legano Sgovio alla letteratura russa nata dai campi di concentramento, la letteratura di grandi scrittori come Vasilij Grossman, Aleksandr Solzenicyn e Varlam Salamov.
Sgovio non è uno scrittore di questo calibro; è più propriamente un memorialista, ma la sua opera ci riporta con immediatezza e senza tentennamenti nel mondo morale che caratterizza questa grande letteratura, invita i suoi lettori alla sincerità, a non accettare alcun compromesso con l'ideologia totalitaria: in una parola, ci invita, come faceva Solzenicyn, a "vivere senza menzogna"; ci mostra la realtà, con tutto il suo male e il suo dolore, per quello che è, nella sua verità: ora, questo non sarà il bello estetico, ma mostrare il vero, dargli visibilità è pur sempre creare quella bellezza suprema che gli antichi chiamavano "lo splendore del vero"; ci mostra da ultimo (è uno dei temi più ricorrenti della sua opera) degli uomini che sono rimasti uomini, una carrellata infinita di esseri umani che, in mezzo alla violenza più infernale restano uomini e manifestano questa loro umanità con gesti di bontà assolutamente non interessata, la stupida, gratuita bontà che secondo Grossman vinceva l'idea astratta di bene in nome della quale le ideologie avevano sacrificato milioni di uomini, quella bontà nascosta, che magari nessuno vede, che magari disprezziamo e consideriamo appunto stupida, come tutti consideravano stupida la Matriona di Solzenicyn, salvo poi doversi accorgere dopo la sua morte, che Matriona era "il giusto senza il quale non esiste il villaggio, né la città né tutta la terra nostra".
Sgovio ci mostra tutto questo, in un'opera che vuole esplicitamente essere non un testo politico, ma la storia di un uomo: "L'intento di questo libro non è soltanto quello di un'ulteriore descrizione delle prigioni sovietiche e dei campi di lavoro. Si tratta piuttosto di un viaggio attraverso l'esperienza umana". Non è che non vi siano giudizi politici; anzi ve ne sono e sono di grande acutezza: raccontando perché in fondo non era mai potuto diventare un comunista perfetto, accennando a quelli che erano i punti dell'ideologia per lui inaccettabili, Sgovio enuclea quelle che sono le caratteristiche fondamentali dell'ideologia totalitaria: l'ideologia, in primo luogo, toglie all'uomo la capacità di un giudizio personale (e questo indocile italiano non accetta mai di stare zitto quando vede qualcosa che contrasta con il suo senso di umanità e di verità); l'ideologia, in secondo luogo, tende ad annullare i legami naturali per sostituirli con le relazioni di partito, distrugge un popolo per mettere al suo posto una macchina in cui gli esseri umani unici e irripetibili diventano tante rotelline infinitamente intercambiabili (e anche qui questo piccolo italiano innamorato della sua famiglia non può scendere a compromessi; non fa certo lunghi discorsi filosofici, ma, dopo aver sentito un attivista del partito che diceva di essere disposto ad uccidere anche il fratello se si fosse opposto all'idea comunista, semplicemente commenta: "Non penso di essere capace di diventare un vero comunista [...] Non avrei mai potuto uccidere mia sorella, qualsiasi cosa facesse"); da ultimo, l'ideologia sostituisce la realtà con l'immagine ideologica del reale: non ci sono più gli uomini reali, ma "i nemici oggettivi" (e anche qui questo italiano, molto concreto, molto poco ideologico, non riesce a tacere e un'accusa falsa resta un'accusa falsa, non diventa vera per il bene della causa; sacrificando la realtà per l'interesse del partito non si costruisce un mondo migliore, si elimina semplicemente quello che esiste per sostituirlo con le proprie fantasie, si elimina la realtà e si lascia il nulla).
Ora, come si vede, un discorso politico c'è, e acutissimo e composito, ma esplicitamente, per stessa indicazione dell'autore, non è la cosa fondamentale; la cosa fondamentale, quella che rende possibile questo stesso giudizio politico, è "l'esperienza umana", la rinascita dell'uomo, il fatto che l'uomo resti uomo anche là dove il regime aveva tentato nella maniera più radicale di eliminarlo e di sostituirlo con le sue rotelline. Sgovio definisce questo essenziale, questa esperienza come "la trasformazione di un bambino comunista ateo, nato nel movimento rivoluzionario, in cristiano con il timore di Dio". E anche qui, questo piccolo italiano ricorda una grande scrittrice russa come Nade da Mandel'stam, secondo la quale l'eredità più autentica del XX secolo era il fatto che persino in questo secolo di lupi l'uomo era potuto rimanere un uomo. È uno dei temi più ripetuti da Sgovio, che certo non ci risparmia nessuna delle atrocità dei campi di concentramento ma, parlando di una guardia che gli aveva manifestato un appena percettibile senso di solidarietà umana, commenta: "ogni particolare del volto di quel contadinotto guardia è rimasto impresso nella mia memoria. Di tutti i volti, feroci com'erano, ricordo soltanto il suo, sebbene non ci fosse assolutamente nulla di significativo nella sua espressione russa così comune. Sicuramente lo ricordo perché (...) in lui c'era ancora un po' di umanità. E ciò dimostra anche che si ricorda più il bene che il male".
È questo percorso umano che ci viene descritto nel libro di Sgovio; è il percorso della discesa agli inferi, di un progressivo annullamento dell'uomo, perché, come ricorda Sgovio, "l'unico modo per sopravvivere e mantenere il potere era attraverso il degrado e la disumanizzazione delle persone, soltanto in questo modo il sistema si sentiva sicuro. Niente soddisfa una dittatura a parte la distruzione completa del rispetto di sé".
Ma, arrivando anche in questo caso a una significativa somiglianza con il percorso descritto ad esempio da Solzenicyn, Sgovio ci mostra come proprio quando è giunto al fondo di questa discesa infernale l'uomo misteriosamente scopre di esserci ancora: "a un uomo al quale avete tolto tutto - diceva Solzenicyn - non potete più togliere niente: è di nuovo libero"; e Sgovio, dal canto suo, dice: "quando non vidi più alcuna luce in fondo al tunnel mi misi a pregare". E nella preghiera l'uomo ritrova se stesso, con un tragitto che sembra ripercorrere quello dell'uomo agli albori della civiltà, nell'attesa della luce del nuovo giorno e della rivelazione: "avevo la sensazione di precipitare (...) sempre più giù. Quando avrei toccato il fondo? Quanto potevano peggiorare le cose? Al lavoro rivolsi una preghiera alla stella polare, la prima e la più luminosa di tutte le stelle. Poi, quando apparvero le altre, rivolsi la mia preghiera a tutte. E così, inconsapevolmente, iniziai a pregare Dio, ed Egli mi rispose. Dio mi diede una vena di caparbietà. Più le cose peggioravano, più ero risoluto a vivere".
L'incontro con Dio, invece di annullare l'uomo, secondo quanto ci insegnava l'ideologia moderna, lo difende proprio da questo annullamento, come ha riconosciuto anche un altro dei grandi scrittori russi del XX secolo, Salamov, che, pure essendo assolutamente lontano dalla Chiesa, diceva: "L'ambiente privo di religiosità in cui avevo vissuto tutta la mia vita cosciente non aveva fatto di me un cristiano. Ma non ho mai visto nei lager persone più degne dei credenti. Tutte le anime si corrompevano, resistevano soltanto loro. Quindici come cinque anni fa". Quanti piccoli uomini, senza trasformarsi in eroi hanno ritrovato questa grandezza che li rendeva capaci di resistere nelle condizioni più terribili e di vivere, non a dispetto di quelle condizioni, ma in quelle condizioni, non dimenticando il dolore o censurandolo ma portandone il peso, come testimonianza del fatto che l'uomo è più forte della morte proprio perché Dio lo lega alle stelle e all'infinito: creato a immagine dell'infinito, l'uomo non può più essere schiavo di nulla di finito.
A questo punto il tragitto di Sgovio si compie e ci lascia il suo ultimo dono: quest'uomo, che con la fede ha ritrovato se stesso, ritrova anche la realtà, non ha più bisogno di sognare mondi migliori che non esistono, che gli danno l'illusione di una beatitudine futura e gli impediscono così di cercare una felicità e una vita più autentica: "Durante il controllo non mi aspettavo più di essere chiamato all'ufficio della direzione del campo per sentirmi dire che era stato tutto un errore e che ero libero. E in questo senso mi sentivo davvero libero! La mia conversione era completa. Non ero più un ateo! Non ero più un comunista!".
Non era più un comunista, ma aveva trovato una dimensione che lo faceva e lo fa andare al di là di ogni limite; aveva trovato quella dimensione dell'infinito dell'uomo che rende questo piccolo italiano e il suo piccolo libro una compagnia nella quale vale la pena di stare per un po' di tempo, il tempo di una lettura che non ci dà l'illusione di una grandezza e di una perfezione che non abbiamo. Detto per inciso, un altro dei motivi che tenevano Sgovio lontano da un certo radicalismo ideologico era appunto la pretesa di perfezione di quest'ultimo; tant'è che di un attivista da tutti ammirato, il giovane Sgovio pensava invece: "lo ritenni disumano. Come avrebbe mai potuto essere umano se non aveva vizi?". Ma, liberandoci da illusioni e sogni, Sgovio ci libera anche dallo scetticismo e, con la sua scoperta della fede, ci fa condividere l'esperienza di una possibile rinascita, di una rinascita continuamente possibile.
Autore: Adriano Dell'Asta
Fonte:
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Osservatore Romano
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