Come giustamente affermava Mons. Francesco Tizzi nell’omelia della Santa Messa nel 64° anniversario della morte del Duca Amedeo, celebrata ad Arezzo nella Chiesa dei SS. Fabiano e Sebastiano il 4 marzo 2006, “tracciare un ricordo completo di Sua Altezza Reale il Principe Amedeo di Savoia, Terzo Duca di Aosta, è pressoché impossibile, in pochi minuti” e, a dire il vero, non è più agevole farlo in poche righe. Per questo è quanto mai opportuno, prima di dare spazio a qualche particolare storico, condensarne l’immagine attraverso le parole che gli dedicò Sua Santità Pio XII: "Era una bella figura di soldato, di principe e di cristiano". L'Eroe dell'Amba Alagi, nome con cui il Duca Amedeo è maggiormente noto, riunì infatti la nobiltà di sangue, sua per nascita, alla nobiltà d'animo, che permeò tutta la sua vita. E non è mai venuta meno la fama della sua santità, e finanche del martirio, in particolare presso coloro che condivisero con lui la dolorosa esperienza in Africa. I titoli attribuitigli dal grande Papa ci accompagneranno a scoprire questa “bella figura” ancora forse troppo poco conosciuta.
La formazione di un soldato
Primogenito di Emanuele Filiberto, Secondo Duca d'Aosta, e di Elena di Borbone Orléans, Amedeo nacque nel palazzo della Cisterna a Torino nel 1898 ma già a nove anni venne inviato in Inghilterra per intraprendere gli studi presso il collegio St. Andrew di Londra. Tornato in Italia, a quindici anni venne avviato alla carriera militare nel Reale Collegio della Nunziatella di Napoli e, all'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale, si arruolò volontario, a soli sedici anni, come soldato semplice nel reggimento di artiglieria a cavallo Voloire in cui, destinato alla prima linea come servente d'artiglieria sul Carso, si seppe guadagnare sul campo il grado di Tenente per merito di guerra. Affascinato dai racconti della madre sull’Africa, accresciuti forse anche dall’impressione che doveva avere sul suo immaginario di bambino la selva del grande parco della reggia di Capodimonte dove la famiglia si era ben presto trasferita, al termine del conflitto ottenne dal padre il permesso di seguire lo zio Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi in Somalia. Qui egli era impegnato nell'esplorazione del fiume Uèbi Scebèli con lo scopo di realizzare una fattoria per la coltivazione di cotone, canna da zucchero e semi oleosi. Insieme costruirono la ferrovia per Mogadiscio ed il famoso villaggio battezzato con il nome dello zio. Iniziava così una lunga serie di viaggi in Africa, terra alla quale Amedeo resterà sempre legato da un particolare affetto e che ancora oggi ne custodisce le spoglie.
Tornato in Italia, riprese gli studi interrotti per la guerra all'Università di Palermo dove in seguito si laureerà in giurisprudenza con una tesi intitolata “I concetti informatori dei rapporti giuridici fra gli stati moderni e le popolazioni indigene delle colonie” nella quale esaminava con singolare lucidità il problema coloniale sotto l'aspetto morale sostenendo che l'imposizione della sovranità di uno Stato sugli indigeni si giustifica moralmente solo migliorando le condizioni di vita delle popolazioni colonizzate. Egli, infatti, lavorando in Africa aveva sperimentato in prima persona che “la civiltà è un potentissimo veleno da propinare in piccole dosi”, per usare le sue stesse parole. Dopo di che, di nuovo si trasferì a Torino per la scuola di guerra e successivamente all'Eton College ed alla Oxford University. Nel 1921 partì di nuovo per l’Africa e raggiunse questa volta il Congo dove venne assunto come operaio in una fabbrica di sapone a Stanleyville (oggi Kisangani), pare per volere del Re che intendeva così punirlo per una battuta fatta da Amedeo durante un ricevimento al Quirinale forse non del tutto gradita alle orecchie di Sua Maestà. Durante il viaggio in Congo fece la sua prima comparsa anche l’emottisi, una malattia che non lo abbandonerà più e che lo costrinse a rientrare poco dopo in Italia dove, il 24 luglio 1926, conseguì la licenza di pilota militare. Tornato di nuovo in Africa, compì numerosi voli di ricognizione, guadagnando una medaglia d'argento al valor militare per le ardite azioni in volo sulla Cirenaica.
Il 5 novembre 1927 sposò a Napoli Anna di Borbone Orléans (Nouvion en Thiérache, 5 agosto 1906 - Sorrento, 19 marzo 1986) da cui avrà le due figlie Margherita, nata a Napoli il 7 aprile 1930 e sposata il 28 dicembre 1953 con Roberto d'Asburgo Este, secondo figlio dell'imperatore Carlo I d'Austria e Ungheria e di Zita di Borbone Parma e Maria Cristina, nata a Trieste il 10 settembre 1933 e sposata il 29 gennaio 1967 con Casimiro di Borbone.
Anche gli anni Trenta, durante i quali risiedeva con la moglie presso il Castello di Miramare a Trieste e comandava il 29° Reggimento Artiglieria di Gorizia, furono determinanti nella sua intensa seppur breve vita: Duca delle Puglie, divenne, alla morte del padre nel 1931, il terzo Duca d'Aosta, nel 1932 entrò nella Regia Aeronautica e divenne anche presidente onorario dell'Unione Sportiva Triestina Calcio. Nel frattempo si parlava anche di vivaci proposte ed intese per far diventare Amedeo re di qualche nazione europea. Al termine della guerra civile spagnola, nel 1939, si era pensato di dargli il trono di Spagna, lasciato libero dai Borbone ma la proposta cadde per l'opposizione di Francisco Franco. In seguito ci furono incontri fra alti esponenti politici ungheresi ed italiani affinché Amedeo cingesse la corona d'Ungheria, rimasta vacante dopo la sconfitta degli Asburgo al termine della prima guerra mondiale. Volendo mantenere la monarchia, dato che la corona rappresentava l'unità e l'indipendenza dello stato, gli ungheresi trovarono una soluzione di compromesso eleggendo un reggente nella persona dell'ammiraglio Miklós Horthy, in attesa della futura salita al trono di qualche re che non fosse un Asburgo, dinastia contro la quale le potenze vincitrici della guerra avevano posto il veto. La prematura morte di Amedeo nel 1942, però, fece sfumare anche questo piano per mettere un Savoia sul trono di Budapest.
Dopo la seconda guerra italo abissina, il 21 ottobre 1937 Amedeo di Savoia fu nominato Governatore generale e, quindi, Comandante in capo dell'Africa orientale italiana e Viceré d'Etiopia da Mussolini che lo stimava e riconosceva in lui le doti di un vero sovrano. Tuttavia, è da ricordare che come pochi altri il Duca era ostile all’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania. E di questa opposizione fece oggetto nei numerosi colloqui avuti con Mussolini durante il suo incarico di Viceré. Profondo conoscitore della situazione reale delle colonie africane al di là della propaganda, sapeva bene che in nessun modo esse avrebbero potuto affrontare una guerra né economicamente, nonostante i suoi sforzi iniziassero a far intravedere una certa prosperità, né tantomeno militarmente. “Abbiamo in mano una terra felice quanto l’America. Una guerra la distruggerebbe prima ancora di ricavarne i frutti preziosi che custodisce come segreti” disse in uno di quei colloqui del 1938 al Capo del Governo, il quale peraltro lo rassicurò sulle sue intenzioni contrarie all’intervento. Che la storia si andata diversamente dalle aspettative del Duca è purtroppo noto, meno nota è la sua ferma eroica risoluzione di restare sino alla fine fedele al suo dovere di soldato e di Viceré in Africa.
La morte di un Principe
Nel 1941, di fronte alla travolgente avanzata degli inglesi nell'Africa orientale italiana, le poche truppe italiane rimaste al suo comando si ritirarono per organizzare l'ultima resistenza sulle montagne etiopi. Amedeo si asserragliò dal 17 aprile al 17 maggio sull'Amba Alagi con 7.000 uomini: una forza composta da carabinieri, avieri, marinai della base di Assab, 500 soldati della sanità e circa 3.000 indigeni. Lo schieramento italiano venne ben presto stretto d'assedio dalle forze del generale Cunningham il quale poteva disporre di 39.000 uomini. I soldati italiani, inferiori sia per numero sia per mezzi, diedero prova di grande valore ma, stremati dal freddo e dalla mancanza di acqua, si dovettero arrendere ai britannici. Il 14 maggio Amedeo ottenne da Mussolini l'autorizzazione alla resa e designò come negoziatore il generale Volpini, il quale però fu massacrato con la sua scorta dai predoni etiopi che circondavano la montagna fortificata. Poco prima della resa, Amedeo autorizzò gli indigeni della sua truppa a tornare nei propri villaggi ma, come risulta dai bollettini del Servizio informazioni militare, gli abbandoni non furono superiori alla quindicina di casi, testimonianza del profondo legame che si era instaurato fra il Duca ed i suoi soldati anche indigeni. A mezzogiorno del 17 maggio le condizioni della resa vennero pattuite dai generali Trezzani e Cordero di Montezemolo per parte italiana e dal colonnello Dudley Russel per parte inglese: gli inglesi avrebbero reso gli onori ai superstiti e gli ufficiali avrebbero conservato la pistola. Lunedì 19 maggio 1941, all'ingresso della caverna del comando comparve Amedeo d'Aosta, Viceré d'Etiopia, in cravatta d'ordinanza, guanti di filo e molettiere color kaki. Dal forte Toselli il Duca si avviò dunque scendendo dall'Amba Alagi a passi rapidi mentre alla sua sinistra marciava il generale inglese Maine. Su due colonne li seguivano i soldati del presidio carichi di armi leggere, zaini, valige di cartone legate con lo spago, chitarre e fagotti. Molti piangevano. Tutti, per ordine del Duca d'Aosta, si erano fatti la barba e tagliati i capelli. Ancora più indietro, in disordine, gli ascari superstiti dei battaglioni abissini con le donne tigrine che si erano portate lassù. Amedeo rese il saluto al picchetto d'onore e alla bandiera italiana che si ammainava. Lui stesso annotava con struggente realismo ma con la dignità di un principe: “Le mie truppe non ci sono più. Il mio comando è finito. L’angoscia e il dolore di soldato, in quest’ora tragica, sono immensi. Ho il conforto, però, di aver fatto tutto il mio dovere, di cadere in piedi con onore … i miei soldati possono essere fieri di aver combattuto sull’Amba Alagi”. E il 23 maggio il generale inglese Platt comunicò al Duca che gli era stata concessa da Vittorio Emanuele III la Medaglia d’oro al valor militare.
Amedeo, prigioniero di guerra numero 11590, venne trasferito in Kenya per mezzo aereo e durante una parte del volo gli vennero ceduti i comandi per consentirgli di pilotare un’ultima volta. Arrivato in Kenya, venne tenuto prigioniero dagli inglesi presso Dònyo Sàbouk, una località insalubre ed infestata dalla malaria a 70 chilometri da Nairobi presso l’abitazione di Lady Mc Millan. Nonostante Amedeo intercedesse presso le autorità inglesi affinché migliorassero le condizioni dei militari italiani e per il rimpatrio dei civili, il comando britannico non gli consentì di ricevere nessuno né di visitare gli altri prigionieri. Nel novembre 1941 iniziò ad accusare alcuni malori e a dicembre una febbre alta lo costrinse a letto. Tre settimane dopo, il comando britannico permise ad Amedeo di recarsi a visitare i prigionieri italiani, sarebbe stata l'ultima sua uscita, ma gli impedirono di fermarsi a salutarli personalmente. Amedeo ottenne solo che la sua vettura procedesse a passo d'uomo di fronte ai cancelli del campo di prigionia: dietro i cancelli i prigionieri italiani gli tendevano le mani e lo chiamavano per nome mentre lui non si curava di asciugare le lacrime che gli rigavano il volto. Per l’ammalato Duca, non v’era nulla di più triste del non poter salutare per l'ultima volta i suoi soldati. Il 26 gennaio 1942 gli vennero diagnosticate la malaria e la tubercolosi che presto lo avrebbero condotto alla fine. Amedeo morì il 3 marzo 1942 nell'ospedale militare di Nairobi dove fu da ultimo ricoverato dopo essersi confessato e aver detto al padre Boratto: "Come è bello morire in pace con Dio, con gli uomini, con sé stesso. Questo è quello che veramente conta". Al suo funerale anche i generali britannici indossarono il lutto al braccio e per sua espressa volontà fu sepolto al Sacrario militare italiano di Nyeri, in Kenya, insieme ai 676 suoi soldati morti in Africa.
Poiché Amedeo aveva avuto solo figlie femmine, a causa della legge salica, nel titolo ducale gli successe il fratello Aimone.
La memoria di un cristiano
Il ricordo del Duca è rimasto vivo anche dopo la caduta della monarchia italiana: il 4 novembre 1962, per iniziativa dell'Aeroclub locale e con la partecipazione dell'Associazione Arma Aeronautica e dell'Aeronautica Militare, il presidente della Repubblica Antonio Segni inaugurò un monumento in onore del Principe Amedeo all'aeroporto di Gorizia. Il monumento è composto da dieci cippi rievocanti le tappe più significative delle imprese militari di Amedeo sopra i quali si eleva una statua in marmo travertino alta 5 metri che raffigura il Duca in divisa da aviatore con il volto rivolto verso la “sua” Africa. Testimone del sincero legame tra il Duca e l’Africa è anche la vicenda dell'Imperatore d'Etiopia Haile Selassie il quale, impressionato dal rispetto che Amedeo dimostrò nei suoi confronti, durante la sua visita ufficiale in Italia nel 1953, invitò per un tè la vedova Anna d'Orléans ma, quando il governo italiano lo informò che ricevere la Duchessa avrebbe offeso la Repubblica, Haile Selassie fu costretto con sommo dispiacere a cancellare l'incontro. Tuttavia, non tranquillo per aver dovuto mancare di rendere omaggio al Duca Amedeo, nel 1969 invitò in Etiopia il Quinto Duca d'Aosta, il quale peraltro porta lo stesso nome dell’eroe dell’Amba Alagi, accordandogli tutti gli onori di un Capo di Stato. Accogliendo Amedeo di Savoia Aosta nella sua reggia, Hailè Selassiè lo salutò con queste parole: "Ho il piacere e l'onore di stringere la mano di colui che porta il titolo di un gentiluomo al quale l'Etiopia deve essere riconoscente".
In tutte le note caratteristiche scritte dai suoi superiori nel periodo della formazione militare traspaiono l'eccezionalità della persona, le qualità dell'aviatore e del Comandante, ma quelle che egli sicuramente apprezzerebbe di più sono scritte nei cuori delle persone, perché, come ha lasciato scritto: "I più bei monumenti, quelli più duraturi, sono quelli costruiti nel cuore della gente". Amedeo aveva sempre avuto fama di essere un grande gentiluomo e anche solo da queste brevi note si colgono chiaramente grande umanità e generosità d'animo. Il suo stile di vita era semplice, amava la terra e la natura, detestava la mondanità, dormiva su una branda militare, si alzava alle 6, pranzava rapidamente, amava la puntualità, evitava i privilegi ai quali poteva aver diritto, come accadde nel Collegio della Nunziatella di Napoli, dove, nonostante le consegne date ai convittori, desiderava d'essere trattato da pari a pari. L’atteggiamento di rifiuto dei privilegi lo caratterizzerà anche quando, prigioniero e malato, rifiutò di avere il conforto di un familiare dicendo: “Nessun prigioniero di guerra malato può avere il conforto della visita dei familiari, io sono come gli altri: non voglio assolutamente”. Altri tratti della sua personalità sono certamente il senso del dovere e la lealtà, come quando rifiutò d'impossessarsi dell'aereo che lo trasportava prigioniero, dicendo: "Ho dato la mia parola, ed anche da solo vado incontro al mio destino", dando con questo una lezione di lealtà a coloro che lo avevano fatto prigioniero e, pure se gli avevano tributato l'onore delle armi, non avevano poi rispettato appieno i patti della resa lasciando i soldati italiani in preda ai ribelli locali. Egli, tuttavia, prima che lasciasse la sua sede di Addis Abeba scrisse una nota ai comandi britannici per ringraziarli in anticipo della futura protezione alle donne ed ai bambini del luogo. Leale fino in fondo fu anche nel non accettare la proposta di sfruttare la sua parentela con la monarchia britannica per tornare in Patria lasciando i suoi soldati. Ma anche grande umiltà e dignità gli appartenevano non meno che le qualità sopra ricordate. Per esempio, nel ravvedersi su considerazioni avventate fatte i precedenza come quando, tre giorni prima di morire, disse al suo aiutante di volo: “Ricorda, Tait, quando le dissi che sarebbe stato meglio morire sull’Amba? Ciò che dissi allora era tutta vanità. Quella sarebbe stata la fine più gloriosa, d’accordo, ma ci vuole più fegato a morire in un letto d’ospedale ridotto così”.
Il Duca Amedeo era profondamente religioso in modo naturale e spontaneo, senza mai essere bigotto. Il suo nome, come ammoniva ancora mons. Tizzi nell’occasione già ricordata, può essere considerato un programma di vita: Amedeo significa, infatti, “Colui che ama Dio”. E Dio lo si ama sia di per sé sia amando le sue creature, cioè il prossimo, al quale il Duca d'Aosta ha sempre prestato una grande attenzione. Ne è dimostrazione la sua tesi di laurea in Diritto coloniale in cui affronta il problema indigeno sotto l'aspetto morale dimostrando come solo migliorando la condizione di vita delle popolazioni colonizzate si giustifichi l'imposizione della sovranità di un altro Stato. Questo principio era suo proprio e non limitato alla tesi come scrisse all'amico Volpini dopo essere stato nominato Viceré d'Etiopia, attualissimo e perenne monito ai governanti di ogni tempo: "Io dovrò governare, non regnare. Dovrò donare a quel popolo la sensazione che stanno entrando a far parte di una civiltà che non li vuole sfruttare, ma aiutare ad elevarsi, a migliorare in tutti i campi". Ascoltando queste parole decise e programmatiche, la memoria non può non ritornare a quel fulgido esempio di “amministratore fedele e saggio” (Lc 12, 42) che fu antenato e omonimo del Duca, il Beato Amedeo IX Terzo Duca di Savoia il quale, pur fiaccato dalla malattia, combatté per e con il suo popolo fino allo stremo, amando e beneficando sempre i poveri e gli emarginati.
Autore: Emanuele Borserini
Fonte:
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