Gian Paola Mina, ragazza dinamica e volitiva, ha trovato in San Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il padre, non conosciuto e che ama, e il maestro della sua nuova e vibrante vita. Lo ammira, per cui si mette in marcia seguendo le sue direttive e il suo esempio di combattente di Cristo.
Scoprì l’Allamano nel castello di Sanfrè: un busto bianco di scagliola troneggiava al fondo di un salone disadorno reso squallido da grosse macchie di umidità che costantemente volenterose suore ricoprivano di tinta. Le dissero che era il fondatore e lo guardò con un certo riserbo.
Gian Paola non si era curata di conoscere le origini dell’istituto nel quale voleva entrare, le bastava che si trattasse di una congregazione missionaria. «Certo - lascia scritto nelle sue memorie - mi piacque molto di più sapere (chissà perché) che essa aveva un fondatore anziché una fondatrice che ai tempi si presentavano in immagini scialbe, con un velo severo in testa. […]. Quel prete invece sorrideva invitante: “Ecco uno che saprà leggere in fondo alla mia anima e mi saprà dire se ho la vocazione missionaria”. Già, perché non ero troppo convinta di averla e altri con me erano dello stesso parere, anche se per discrezione non me lo dissero allora apertamente».
A quei tempi non circolavano ancora biografie dedicate all’Allamano e nella comunità ci si limitava a leggere i fascicoli dattiloscritti delle sue conferenze ai missionari e alle suore. In compenso c’era ancora la testimonianza diretta di chi l’aveva conosciuto: dopo vent’anni dalla sua morte, parlavano del fondatore con trasporto e gratitudine per il marchio loro dato di suore libere, sciolte, semplici e coraggiose. E «come da mia madre, io ho imparato ad amare un padre conosciuto solo di scorcio; allo stesso modo, dalle prime missionarie dell’Allamano ho imparato istintivamente ad amare il fondatore, prima che ogni pubblicazione, ogni studio, ogni maturazione personale di ricerca e di studio me lo facesse scoprire più a fondo».
E dopo ben 40 anni, Gian Paola ribadisce il suo amore per il santo fondatore, per le ricchezze di quello spirito, per la lungimiranza delle sue intuizioni «con la straordinaria tenacia nel perseguire la santità nella variegata storia della sua vita. Veramente il padre che amo è questo: un prete tutto di Dio e tutto degli uomini; un prete della Chiesa torinese strettamente inserito nelle sue strutture e nello stesso tempo aperto agli orizzonti senza frontiere dell’evangelizzazione».
Di lui ebbe sempre voglia di scrivere una biografia «diversa dalle altre», diceva al fratello padre Giuseppe. Ma poi, per la corsa degli anni e degli impegni che la prendevano sempre più, non ne fu in grado. Se ne rammaricava, come di un’ommissione. Poi, al momento in cui il fondatore doveva essere dichiarato beato dal papa Giovanni Paolo II, «volle - racconta ancora padre Giuseppe - stenderne un profilo dal titolo significativo: “Un silenzioso che ha qualcosa da dire”».
In questa originale, profonda e raffinata opera sul fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, scaturisce l’anima dell’autrice, il suo io, la sua essenza. Interessanti sono le sue considerazioni per comprendere più a fondo la sua identità di donna, di religiosa, di missionaria. È affascinata dalle riflessioni e dagli approfondimenti del suo maestro.
Uno dei capitoli dedicati alla figura straordinaria del fondatore è intitolato “Camminare con i santi”. Aveva una particolare predilezione Gian Paola per i santi, così come il suo maestro; una predilezione che si notava dalle sue letture, molto spesso dirette a biografie di santi, beati, venerabili o comunque di grandi testimoni della fede e fedele era l’ascolto alle parole della guida Giuseppe Allamano: «…La mia parola è per quelli desiderosi di acquistare la santità… Una è la santità, ma varia ne è la forma e diverse le vie per giungervi… La santità esige violenza… Si fa santo chi vuole… Avere fame e sete di santità… Io sono persuaso che in paradiso vi sono dei santi più santi di quelli che veneriamo sugli altari… Solleviamo il nostro pensiero ai santi… Pensiamo a ciò che ci dicono dal paradiso. Sono i nostri modelli: possono essere imitati da tutti perché vari nella vita e nell’eroismo delle virtù… Essi possono e vogliono aiutarci a ottenere le grazie di cui abbiamo bisogno. Ricorriamo alla loro intercessione con fiducia, con amore…».
Alla scuola del santo Allamano, Gian Paola assapora il gusto della santità e potremmo dire che se ne compiace: ambire a una vita santa significa chiedere di più, pretendere di più, aspirare a cose grandi, non fermare i propri desideri e sconfinare oltre le debolezze e i limiti umani.
È sorprendente sfogliare il volume delle conferenze allamaniane dirette ai missionari: è la stessa suor Gian Paola a rivelarci che in una ventina di pagine da lei spizzicate a caso e su diversi argomenti trovò citati ben trentatré santi, alcuni particolarmente vicini ai missionari. […]. E conclude, la redattrice: «… per lui, i santi non sono dei lontani nel tempo, ma dei vivi di cui è bello parlare; degli amici con i quali c’è soddisfazione a conversare e a fare insieme un pezzo di strada: anzi tutto il viaggio della vita».
Fra gli insegnamenti dell’Allamano che più l’affascinavano c’era quello diretto all’operosità che ben calzava alla sua iperattività: «Bisogna essere operosi perché il tempo è breve. Con l’essere operosi si ha sempre tempo a tutto e ancora tempo di avanzo. Il Signore benedice l’operosità e l’energia. Bisogna agire. Se aspettiamo il tempo buono, non si fa mai niente. Facciamo oggi quel che è necessario, e domani si vedrà. Io potrei starmene tranquillo: andare in coro, poi a pranzo, poi leggere la gazzetta, andare a riposo… E poi, e poi, me ne morrei da folle! È questa la vita che si deve fare? Siamo destinati ad amare il Signore e dobbiamo fare del bene, tutto il bene possibile. La nostra vita vale in quanto attiva per noi e per gli altri. Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è e più se ne fa, ma bisogna lavorare con energia, che è caratteristica del missionario. Quando uno è a capo, bisogna che sia più ardimentoso degli altri».
Ecco il termine adeguato per definire l’intrepida suor Gian Paola Mina: ardimentosa. L’operosità fu il suo stile di vita, lo stile della sua consacrazione a Cristo. Ricca di interiorità e di preghiera, straordinariamente multiforme nel suo essere missionaria, sempre carica di idee che in tutti i modi cercava di realizzare, ma “sciolta”, cioè senza disperdersi in perfezionismi e sciocchezze, senza perciò esasperarsi, bensì essere apostoli fervidi e instancabili. Energica, volitiva e coraggiosa, suor Gian Paola nell’amore di Dio si moltiplicava ed era, ne siamo più che certi, l’ideale di suora missionaria che aveva in mente San Giuseppe Allamano.
Autore: Cristina Siccardi
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