Prades, Francia, 31 gennaio 1915 – Bangkok, Thailandia, 10 dicembre 1968
Alla fine degli anni ’40 e per tutto il decennio successivo Thomas Merton (Prades 1915 - Bangkok 1968), entrato ventisettenne nel monastero trappista del Gethsemani (Kentucky) solo tre anni dopo aver ricevuto il battesimo, è uno scrittore di grande successo, i cui libri vendono in tutto il mondo milioni di copie. Tuttavia, negli ultimi dieci anni della sua vita monastica, hanno luogo alcune esperienze decisive, che lo porteranno sia ad approfondire la propria ricerca interiore che il proprio coinvolgimento nel mondo: l’incontro con la tradizione spirituale dell’Oriente cristiano e con le grandi religioni dell’Asia, la presa d’atto delle grandi contraddizioni che attraversano la società americana e quelle occidentali più in generale, l’intrecciarsi del suo cammino con quello di alcune grandi figure del panorama culturale contemporaneo. Da quelle esperienze, Merton uscirà profondamente trasformato, fino a sentirsi “testimone colpevole” degli eventi della storia, e a raggiungere una profondità e un’eloquenza nei suoi scritti da meritare ancor oggi - e forse ancor più oggi che negli anni ’60 - che se ne parli e si raccolga il significato della sua testimonianza monastica.
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Una vita consacrata all’interno di una Trappa che ha contribuito a dare alla Chiesa numerose vocazioni. In questo ritratto proviamo a descrivere la straordinaria figura di Thomas Merton, uomo monaco mistico. I libri dello scrittore statunitense sono apprezzati e conosciuti in tutto il mondo.
Nato a Prades (nei Pirenei francesi) il 31 gennaio 1915, da padre neozelandese e madre americana – entrambi pittori, scomparsi in giovane età –, Merton trascorse parte dell’infanzia negli Stati Uniti ma visse parecchi anni in Europa, studiando in Inghilterra e viaggiando. Era radicato nel protestantesimo, anche se si considerava ateo.
Cominciò a maturare l’idea di convertirsi al cattolicesimo a Roma, poco più che diciottenne. In quel viaggio, «nella città che è stata trasformata dalla Croce», come scrive nella sua splendida autobiografia, ‘La montagna dalle sette balze’, rimase affascinato dalle chiese e dalle basiliche, coi loro mosaici bizantini. «Allora, per la prima volta in vita mia, incominciai a scoprire qualcosa sulla Persona che gli uomini chiamano il Cristo. Era una conoscenza oscura, ma vera di Lui, e in un certo senso più vera di quanto sapessi, più vera di quanto volessi ammettere. Fu là che vidi per la prima volta Colui che ora servo come mio Dio e mio Re, Colui che presiede e governa la mia vita».
Sull’Aventino, continua, «andai a Santa Sabina, la chiesa dei Domenicani. E fu un’esperienza chiarissima, qualcosa che equivaleva a una capitolazione, a una resa, a una conversione, e contrastata anche, persino quando entrai nella chiesa senza altro scopo che quello di inginocchiarmi e pregare Dio. Di solito non mi inginocchiavo mai in quelle chiese e non prestavo attenzione alcuna, né formale né ufficiale, a Colui che possedeva quelle case. Ma quella volta presi l’acqua santa alla porta, andai dritto verso l’altare, m’inginocchiai e lentamente, con tutta la fede che avevo in me, recitai il Padre Nostro».
Prima di ripartire, visitò la chiesa del monastero trappista delle Tre Fontane: «Nel silenzio di quel pomeriggio», ricorda, «sotto gli eucalipti, un pensiero prese forma in me: “Mi piacerebbe diventare Trappista”. Ma per il momento vi erano pochissime probabilità che lo divenissi».
Infatti, prevalsero l’edonismo e le «disordinate ambizioni mondane», tra cui il credo comunista, che gli erano di inciampo nella ricerca di Dio: «Per colmarmi», sottolinea, «m’ero vuotato. Per afferrare tante cose, le avevo perdute tutte. Nel divorare i piaceri e le gioie, avevo trovato il turbamento, l’angoscia e la paura».
Conseguì la laurea in Lettere alla Columbia University di New York e si specializzò in Letteratura inglese del XVIII secolo, discutendo una tesi sulla poesia di William Blake. Ed è qui che conobbe Dan Walsh, che vi teneva lezioni su san Tommaso d’Aquino e Duns Scoto: «Il suo corso e la sua amicizia», scrive, «mi furono preziosissimi nella preparazione del passo che stavo per intraprendere».
Nel novembre del 1938, completò il percorso di conversione con l’aiuto di padre Moore, ricevendo il Battesimo e la Prima Comunione nella piccola chiesa newyorchese del Corpus Christi.
Thomas Merton si dedicò, dopo la laurea, all’insegnamento universitario della letteratura inglese. Poi, durante un ritiro spirituale all’abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky, decise di entrarvi abbracciando la vita monastica.
In quegli anni perdette in guerra il fratello John Paul, precipitato con il suo bombardiere nel Mare del Nord. Negli anni Sessanta Father Louis (il nome da religioso) divenne uno dei principali punti di riferimento dei pacifisti. E si schierò a favore del movimento non violento per i diritti civili. Nell’ultima fase della sua vita, maturò un significativo interesse per il monachesimo buddista: si recò più volte in Oriente, incontrando anche il Dalai Lama. Morì in uno di questi viaggi, a Bangkok, nel ’68, fulminato da un ventilatore difettoso.
In ‘Nessun uomo è un’isola’ (uno dei classici della spiritualità), Thomas Merton afferma: «Nulla, proprio nulla ha senso se non ammettiamo, con John Donne, che: “Nessun uomo è un’isola, in sé completa: ognuno è un pezzo di un continente, una parte di un tutto”». Ogni uomo, spiega, «è una parte di me, perché io sono parte e membro del genere umano. Ogni cristiano fa parte del mio stesso corpo, perché noi tutti siamo membra di Cristo. Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo».
La speranza, prosegue il monaco trappista, «la perfetta speranza si acquista sull’orlo della disperazione». E «solo chi si è trovato faccia a faccia con la disperazione è davvero convinto di aver bisogno di misericordia. Quelli che non ne sentono il bisogno non la cercano mai. È meglio trovare Dio sulla soglia della disperazione, che rischiare la vita in una compiacenza di sé che non ha mai sentito il bisogno del perdono. Una vita senza problemi può essere più letteralmente “disperante” di una che sta sempre sull’orlo della disperazione».
Merton invita anche il lettore a non confondere la preghiera con la psicanalisi: «Sarebbe un grande errore mutare la vita interiore in una esperienza psicologica e fare della nostra preghiera oggetto di psicanalisi. Se è davvero preghiera non ne ha bisogno. Ma notate che ho detto “se”: perché se non fosse vera potrebbe benissimo trarre un vantaggio dall’analisi».
Il mistico statunitense si sofferma poi sul ‘linguaggio della Croce’: la sofferenza è inutile «quando non fa altro che ripiegarci su noi stessi, quando ci rattrista per quello che ci succede, quando cambia l’amore in odio e riduce tutto al timore. La sofferenza inutile non può essere consacrata a Dio, perché la sua sterilità ha le radici nel peccato». Ma, aggiunge, «soffri senza riflettervi, senza odio, soffri senza nessuna speranza di rivincita o di ricompensa, soffri senza essere impaziente che la sofferenza finisca. Né il principio della sofferenza, né la sua fine hanno importanza. E neppure l’hanno la sua causa o la sua spiegazione, purché sia volontà di Dio». Perciò «per dare gloria a Dio dobbiamo essere miti, umili e poveri in ogni nostro soffrire, e non aggiungere così alle nostre pene il peso di una sensibilità inutile ed esagerata».
Parlando infine della vocazione, osserva: «Ciascuno di noi ha una sua vocazione. Tutti siamo chiamati da Dio ad avere parte nella Sua vita e nel Suo regno. Se siamo chiamati nel posto in cui Dio vuole fare il massimo bene, significa che siamo chiamati dove possiamo meglio lasciare noi stessi e trovare Lui».
Autore: Patrizio Ciotti
Fonte:
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