Quelli di Norbello (Oristano) hanno impiegato quasi 80 anni ad accorgersi che, forse, avevano un concittadino santo, anche se alcuni francescani da decenni stavano silenziosamente raccogliendo materiali e testimonianze su di lui. E a dimostrazione che è sempre meglio tardi che mai, sei anni fa hanno fatto partire l’inchiesta diocesana che dovrà stabilire se fu vero martirio la morte, nel 1930 in Cina, di mons. Giovanni Sotgiu. Nasce nel 1883 in una famiglia di dodici figli e la sua primogenitura, insieme alle floride condizioni di casa sua, gli promettono un avvenire brillante, che comincia comunque a costruirsi da sé laureandosi in legge ad appena 22 anni. Prende però tutti in contropiede perché, a dispetto di chi già gli prevede una brillantissima carriera, a 25 anni va a farsi frate. Una vocazione adulta, diremmo oggi noi, ma non a sorpresa, almeno per chi lo ha osservato attentamente negli anni della sua giovinezza. Durante il servizio militare, ricordano, è l’unico ad inginocchiarsi accanto alla branda per le sue devozioni serali, anche se l’intera camerata lo prende in giro e qualcuno lo bersaglia con il lancio di oggetti. E poi, anche a casa, in mezzo agli amici, è sempre stato un cristiano dalla schiena diritta, coraggioso e leale, forte e convinto. Sacerdote nel 1912, parroco della cattedrale di Bosa appena due anni dopo, nel 1915 si trova al fronte con il ruolo di cappellano ufficiale della Brigata Sassari. Torna dalla prima Grande Guerra con due medaglie al valore e l’ammirata venerazione dei soldati. Dicono che, quando c’è lui, il plotone può anche andare al fronte cantando; dicono anche, ma forse è leggenda, che sia un eccezionale scudo per i suoi soldati, perché le pallottole, attorno a lui, fischiano soltanto e si fa a gara a restargli vicino per non essere colpiti. Che alla fine della guerra soltanto il suo gruppo di soldati non abbia alcun morto forse è leggenda, ma di quelle che la dicono lunga sulla fama di santità che già accompagna questo poco più che trentenne frate in grigioverde. Che ritorna al suo amato saio nel 1918, a fare il maestro dei novizi e poi il Guardiano del convento di Oristano, ma che altrettanto prontamente fa bagaglio nel 1925 per andare missionario in Cina, in una distesa povera e montuosa di 25 mila chilometri quadrati con 2 milioni di abitanti. Guerre, guerriglie e scorribande di briganti agitano la zona e il padre Giovanni si muove con i confratelli, da vero equilibrista, da una fazione all’altra, nel tentativo di pacificare gli animi e rincuorare i poveri cristiani. Lo conoscono come il missionario sempre sorridente, dall’affabilità inalterata, che aiuta senza far distinzioni e così imparano a volergli bene tutti, anche i non cristiani, perché quando alla carità delle parole si accompagna la carità delle opere è impossibile non lasciarsi conquistare. Tre anni dopo, la missione viene eretta in prefettura apostolica autonoma e il padre Giovanni, insieme alla nomina di prefetto apostolico, può fregiarsi delle insegne vescovili e del titolo di monsignore. In effetti, ciò significa che al suo normale lavoro missionario si aggiungono le mansioni proprie del nuovo incarico, tra cui la visita pastorale alle varie comunità che lui ritiene indispensabile fare frequentemente, per radicare nella fede e sostenere i missionari, anche se gli spostamenti avvengono tra un’infinità di pericoli e dovrebbero essere ridotti al minimo, per l’elevato indice di delinquenza nella zona. Furti di provviste, uccisioni per futili motivi, case ed uffici devastati e spesso incendiati sono all’ordine del giorno. “I maggiori o minori danni che ne vengono dipendono solo dalla maggiore o minore crudeltà e perversità dei capi briganti”, scrive il padre Giovanni, che intanto nell’ottobre 1930 organizza la sua ultima visita in tre tappe a Schichuan , dove arriva giusto in tempo prima che la città venga posta sotto assedio da una banda di delinquenti. Soltanto il 7 novembre riesce con due compagni a riprendere il viaggio, anche se il buon senso consiglierebbe di ritardare ancora la partenza: “Non sappiamo che cosa il Signore permetterà in un più o meno prossimo futuro. Qualunque cosa capiti siamo nelle mani di Dio, cui ci assoggettiamo in tutto e per tutto”, scrive ai confratelli della Sardegna. Infatti, poco dopo, la sua piccola carovana è assalita dai banditi, ai quali il padre Giovanni non fa mistero della sua identità, esibendo i suoi documenti. Ed è forse proprio con lo scopo di oltraggiare un così alto esponente del clero locale che i banditi, dopo averli depredati di tutto, li torturano ferocemente, li massacrano e li seppelliscono in un’unica fossa nella sabbia. È il 12 novembre 1930. Sarà un catechista, alcuni giorni dopo, ad esumare quei poveri resti perché abbiano degna sepoltura.
Autore: Gianpiero Pettiti
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