Milano, 1 febbraio 1747 – Lecco, 13 aprile 1822
Parroco di Chiuso dal 1773 al 1822, fu confessore di Alessandro Manzoni, probabilmente fino al 1818, anno in cui la famiglia di Manzoni vendette la villa del Caleotto, ove soggiornava. Manzoni ne scrisse un vero panegirico in Fermo e Lucia, ove lo nominò esplicitamente, creando un anacronismo rispetto all'ambientazione seicentesca della storia narrata, interpretato dai commentatori come dovuto all'affetto e all'ammirazione dello scrittore verso questo religioso. Ne I promessi sposi il Manzoni toglierà l'accenno esplicito del nome. Morazzone fu sepolto a Lecco, nella chiesa dedicata a San Giovanni del rione di Chiuso di cui fu parroco. È stato dichiarato Venerabile il 17 dicembre 2007 e poi beatificato il 26 giugno 2011. In passato la sua canonizzazione era stata sollecitata dal cardinale Schuster, che lo aveva definito "novello curato d'Ars".
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“Prete Serafino Morazzone” diventa beato a quasi due secoli dalla morte. Un altro “Curato d’Ars”, è stato detto di lui; con la differenza che, questo, è italianissimo e meno noto dell’altro, anche se tra i due c’è una straordinaria sintonia spirituale e umana. A cominciare dalle umilissime origini, perché Serafino arriva da una famiglia povera e numerosa. Suo padre ha una minuscola rivendita di granaglie e vive in un modesto alloggio di Milano, dalle parti di Brera: qui nasce Serafino, il 1° febbraio 1747. Dato che vuole farsi prete e che mancano i soldi per farlo studiare, i gesuiti lo accolgono a titolo gratuito nel collegio di Brera. A tamburo battente, come si usava allora, le varie tappe verso il sacerdozio di un ragazzo umile e fedelissimo ai suoi impegni: a 13 anni riceve la talare, a 14 la tonsura, a 16 i primi due ordini minori. A 18 anni, per potersi pagare gli studi, va a fare l’accolito in Duomo: per dieci lire al mese, al mattino presta servizio all’altare e al pomeriggio studia teologia. Così per otto anni, fedelissimo e puntuale, cortese e sorridente. A 24 anni riceve gli altri ordini minori e due anni dopo, a sorpresa, gli fanno fare concorso per Chiuso, nel lecchese: una piccola parrocchia che all’epoca conta 185 abitanti ed alla quale nessun altro aspira. Vince il concorso, ma non è ancora prete; così, nel giro di un mese, riceve il suddiaconato, il diaconato e l’ordinazione sacerdotale e il giorno dopo è già insediato a Chiuso: vi resterà per 49 anni, cioè fino alla morte. Per scelta, perché anche quando gli offriranno parrocchie più importanti o incarichi più onorifici sceglierà di essere sempre e soltanto il “buon curato di Chiuso”, da cui non si allontanerà mai. Testimoni oculari hanno attestato le lunghe ore trascorse in ginocchio nella chiesa parrocchiale e quelle, interminabili, trascorse in confessionale ad accogliere i penitenti. Ovviamente non soltanto i suoi, ma pure quelli che arrivano da Lecco e dai paesi vicini. Perché a Chiuso, come ad Ars, si fa la fila per andarsi a confessare dal “beato Serafino”, come lo chiamano i contemporanei, mentre lui si considera solo un povero peccatore, infinitamente bisognoso della misericordia di Dio e delle preghiere del prossimo. Le sue ottengono miracoli, ma lui non se ne accorge, impegnato com’è a non trascurare neppure uno dei suoi parrocchiani: raccontano che i malati li va a trovare anche di sera o di notte, se non è riuscito a farlo di giorno, e così tutti i giorni, fino a quando si ristabiliscono o chiudono gli occhi per sempre. E non solo per portare loro i conforti della religione: dicono che i bocconi migliori e tutto quello che gli viene regalato siano per i suoi poveri, per i suoi malati. Ad uno, piuttosto male in arnese, finisce per regalare anche il suo materasso, di cui per un bel po’ deve fare a meno, perché nessuno si è accorto del suo gesto di carità. Ai ragazzi,oltre al catechismo, insegna a leggere e a contare, in una specie di scuola che ha aperto in canonica, forse ricordando quanto anche lui ha faticato a studiare. Muore il 13 aprile 1822 e un piccolo giallo avvolge la sua sepoltura, quando ci si accorge che di lui non c’è traccia nella fossa che dovrebbe essere la sua. Il giallo si risolve grazie alla testimonianza di un anziano: i parrocchiani, che non si rassegnavano a saperlo nella nuda terra del cimitero, lo avevano esumato la notte stessa del funerale, adagiandolo sotto il pavimento della chiesa, in barba a tutte le disposizioni di legge. Tra i suoi penitenti famosi c’è anche Alessandro Manzoni, che è talmente convinto della santità di quel prete da tracciare di lui una testimonianza toccante nel suo “Fermo e Lucia”,cioè la prima versione de “I promessi sposi”, di cui diventa addirittura personaggio chiave con una trasposizione storica un po’ ardita che l’autore sarà costretto ad eliminare nell’edizione definitiva. “Beato” per i contemporanei, tarda ad essere riconosciuto tale dalla Chiesa. La “causa”, iniziata nel 1854, si arena quasi subito. A fine ‘800 il cardinal Ferrari ordina di rimuovere la montagna di ex voto e di stampelle deposte accanto alla tomba, perché potrebbero pregiudicarne la prosecuzione. Riavviata nel 1964, la Causa giunge a buon fine domenica 26 giugno con la beatificazione: interamente postulata dai suoi parrocchiani, sempre più convinti di aver avuto un “curato santo”.
Nella diocesi di Milano la sua memoria si celebra il 9 maggio.
Autore: Gianpiero Pettiti
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