Del Volta scienziato, fisico autodidatta che tuttavia rivoluzionò il mondo dell'elettricità con le sue macchine, teorie e scoperte - al punto che A. Einstein considerava l'invenzione della pila come la "base fondamentale di tutte le invenzioni moderne" -, è stato detto quasi tutto, anche se il bicentenario della pila (1799-1999) ha incentivato ulteriori ricerche. Un po' meno, invece, si è parlato del Volta come uomo: delle sue notevoli qualità morali, pur frammiste a umanissimi difetti, della sua ambigua condotta politica (cfr nota 11) e del lungo suo magistero accademico. Pochissimo, infine, si è analizzato il Volta credente, a cui pertanto rivolgiamo l'attenzione, senza dimenticare gli altri due aspetti.
Dati biografici e coordinate generali
Alessandro Volta nasce a Como, ultimo di sette fratelli, il 18 febbraio 1745, da don Filippo e donna Maddalena dei conti Inzaghi. Com'era usanza presso la nobiltà del tempo, Alessandro fu messo a balia per quasi tre anni presso una donna il cui marito era un abile costruttore di barometri e termometri, sicché una lapide recita che "gli infuse quell'amore per la scienza che lo portò alla pila". Si racconta che Alessandro fu tardo a parlare e fino a sette anni molto incerto nel discorrere, ma subito dopo rivela particolari capacità e interessi nello studio, così da far esclamare al padre Filippo: "Avevo in casa un diamante e non me n'ero avveduto". Alla prematura morte di Filippo (1752) - che aveva sperperato un patrimonio con la sua fin troppo allegra prodigalità -, la famiglia è costretta a dividersi: Alessandro, con la madre e le tre sorelle (Marianna, Cecilia e Chiara: le prime due vestiranno in seguito l'abito monacale), va presso lo zio Alessandro, canonico, mentre gli altri tre fratelli (Giuseppe, Luigi e Giovanni) si trasferiranno da un altro zio, l'arcidiacono Antonio e, secondo l'uso del tempo, abbracceranno presto la vocazione degli zii (due nel Capitolo cattedrale e il terzo nell'Ordine domenicano).
Nel 1757 Alessandro inizia gli studi umanistici, retorici e filosofici presso il Collegio dei gesuiti a Como e risulta che, nonostante la vivacità del carattere, fu sempre il primo della classe, sbrigando in un'ora quello che per gli altri richiedeva molto più tempo e dedicando tutte le ore "risparmiate" allo studio dei fenomeni naturali: tanto che a soli 12 anni compose sull'argomento un trattatello di notevole interesse. Spicca anche nel latino e italiano - gli autori preferiti sono Virgilio e Tasso, ma legge anche il De rerum natura di Lucrezio e, imitandolo, scrive un carme di 492 esametri in latino sulle più recenti scoperte di fisica - e da solo, a 13 anni, impara il francese. In pieno Enciclopedismo colpisce la grinta del Volta nello studiare quei testi anticattolici, per confutarne gli errori.
Non meraviglia quindi che un simile ragazzo - di ottima famiglia, spiritualmente pio e intellettualmente dotato - attirasse le cure speciali del gesuita p. G. Bonesi, insegnante di retorica e poi di filosofia nel Collegio di Como ma insieme attento pescatore vocazionale. Di fatto, all'epoca il Volta scrisse alcune poesie in cui manifestava evidenti segni vocazionali, confermati anche nelle oltre 30 lettere scambiate col Bonesi e nelle memorie del Gattoni, che ritiene ben fondata la vocazione di Alessandro. Questo amico del Volta (poi sacerdote) funse da intermediario segreto tra i due quando scoppiò la persecuzione dello zio, il canonico Alessandro. Sicché, destreggiandoci tra le opposte interpretazioni, sembra di poter affermare che il Bonesi non tese subdole reti bensì fu prodigo di consigli spirituali finché ritenne certa la vocazione di Alessandro, mentre, seppur con toni delusi e amari, si mise in disparte quando la vide franare sotto i colpi dei parenti che lo tolsero dai gesuiti e lo misero nel Seminario Benzi.
È un periodo, comunque, nel quale Alessandro scrive molto, componendo poesie in latino, italiano e francese, mentre, a conferma dei suoi interessi anche biblico-teologici, ricordiamo che nel 1762, a 17 anni, durante la villeggiatura a Gravedona, scrive ben 11 quaderni, senza l'ausilio di nessun testo, in cui sostiene (contro l'amico Gattoni) che pure negli animali c'è un qualche principio di spiritualità. Rivelatore infine è questo episodio a conferma di quanto fosse istintivamente rivolto a osservare tutti i fenomeni naturali. Quando i contadini di Monteverde gli dissero che nell'acqua della fonte c'erano pagliuzze d'oro, Volta raggiunse il luogo e a tal punto si sporse dalla riva per osservare, che cadde in acqua, rischiando l'annegamento. Le pagliuzze d'oro erano soltanto i riflessi della mica gialla. Conclusione: finito il liceo nel Seminario Benzi, nonostante le pressioni dello zio canonico perché intraprendesse gli studi forensi, abbandona ogni curriculum regolare e procede da autodidatta nello studio dei fenomeni elettrici.
Genialità e ritmi travolgenti del Volta scienziato
Nel 1769, appena ventiquattrenne, pubblica il suo primo lavoro dal titolo De vi attractiva ignis elettrici ac phaenomenis independentibus, dedicato al Beccaria. In questo lavoro, di tipo epistolare frequente all'epoca, Volta traccia un programma di ricerca tendente a unificare le forze elettriche con quelle di attrazione di origine newtoniana. Nel 1771 scrive un secondo lavoro, dedicato questa volta allo Spallanzani, professore di Scienze naturali presso l'Università di Pavia, col quale da poco era in contatto epistolare, trattando di fisica e biologia. In questo lavoro, tra l'altro, presenta una nuova macchina elettrostatica "con dischi e isolatori di legno ben tostati". Nel 1774, pressato da esigenze finanziarie, chiede un incarico d'insegnamento, allegando i suddetti due lavori, che affascinano il conte Firmian, ministro plenipotenziario dell'Impero asburgico per la Lombardia, il quale lo nomina soprintendente (cioè preside) e successivamente docente di Fisica sperimentale nelle Regie Scuole di Como. Ma le nuove responsabilità non gli impediscono di continuare le ricerche e, approfondendo quanto già teorizzato nel De vi attractiva, costruisce (nel 1775) un nuovo apparecchio in grado di fornire elettricità senza bisogno di un continuo strofinio, come nelle macchine elettrostatiche allora in uso. Questo nuovo strumento, chiamato dal Volta stesso "elettroforo perpetuo", viene subito utilizzato in tutti i laboratori europei, perciò stesso guadagnando al Volta una fama internazionale, che egli abilmente svilupperà con i numerosi viaggi di studio in Germania, Svizzera, Olanda, Francia, Inghilterra e Austria.
Nel 1778 il conte Firmian lo nomina professore di Fisica Particolare all'Università Ticinense e nel 1785, secondo la pratica del tempo, gli studenti lo eleggono rettore. Nell'Ateneo pavese - dove, grazie alla lungimiranza dell'imperatrice Maria Teresa, erano stati chiamati L. Spallanzani, A. Scopoli, i due Fontana e, più tardi, A. Scarpa, L. Brugnatelli ecc. - il Volta si dedica non solo all'insegnamento, ma pure a ristrutturare il laboratorio di Fisica, arricchendolo di molti strumenti, progettati direttamente o comprati nei suoi viaggi all'estero. Un cenno infine merita la querelle Volta-Galvani che, tra l'altro, risultò determinante per la successiva invenzione della pila. Nel 1792, venuto a conoscenza degli esperimenti di Galvani sull'elettricità animale, incredulo si mette a ripeterli: dapprima concordando ma, successivamente, ritenendo le contrazioni della rana non dovute a un'elettricità di origine animale ma a un'elettricità esterna, provocata dal contatto dei due metalli che costituiscono l'arco. La rana assume quindi il ruolo di un semplice (ma sensibilissimo) elettroscopio. L'ipotesi voltiana, respinta da Galvani e dai sostenitori dell'elettricità animale, dà inizio a una disputa che investe il mondo scientifico europeo, dividendolo in galvaniani e voltiani.
Inevitabilmente con la fama giunsero anche gli onori. Dopo aver comunicato la sua invenzione nel 1800 alla Royal Society di Londra, Volta illustra la pila nel 1801 all'Institut de France, presente Napoleone Bonaparte, che lo premia con una medaglia d'oro. Come ricorda Lucati, nella biblioteca dell'Istituto lo stesso Napoleone raschiò le ultime tre lettere della scritta "Al grande Voltaire" e restò "Al grande Volta". Ma il Comasco era talmente umile da scrivere: "In mezzo a tante cose che devono certo farmi piacere, e che sono fin troppo lusinghiere, io non m'invanisco a segno di credermi più di quello che sono; e alla vita agiata da una vana gloria preferisco la tranquillità della vita domestica". E passiamo così a descrivere l'uomo Volta, ricco di qualità etico-spirituali, tuttavia frammiste a difetti umani.
Principali tratti fisici, morali e affettivi del Volta
Circa il ritratto fisico del Volta, ecco quanto scrive T. Bianchi: "Era di persona alta, ben configurata, di portamento grave e pieno di quella maestosa negligenza, che è propria di un'attenzione, che consacrata a grandi meditazioni non vede altro a sé d'intorno. [...] I lineamenti erano ben pronunciati, ma né aspri, né duri, né fieri: e se il suo sguardo non lampeggiava del foco di un genio altero, brillava della punta penetrante della più viva riflessione. La sua faccia, anzi che essere austera per severo cipiglio, o superba per disdegnoso labbro, era umana per maestosa dolcezza, e veneranda per dolce maestà". Per quanto riguarda il bel tratto e le alte qualità d'animo citiamo ancora il Bianchi: "I suoi modi erano pieni di dignitosa e non affettata modestia, ed erano di quella cortesia aggraziati, che più gradita riesce nei grandi personaggi. [...] Indole dolce, mansueta, era congiunta a sapienza e gloria da levare in orgoglio il più sprezzante dei cinici; ed al genio vivace e creatore era accoppiato candido costume; e tante e sì belle virtù erano coronate dalla più sincera e più meravigliosa umiltà. [...] Buon padre, ottimo marito, fu l'idolo della famiglia; liberale, cortese, fu carissimo agli amici; pietoso dell'infelice, fu benedetto dal poverello. [...] Era di umore allegro, amicissimo dell'innocente scherzo; e nelle colte e sollazzevoli brigate colto ed allegro ad un tempo. [...] La sua vita moderata dalla più temperante parsimonia".
Da parte sua l'amico canonico Gattoni osserva: "Carattere singolarissimo del Volta fu sempre quello di non esaltarsi mai in nulla; di non guatar d'alto in basso alcuno, com'è costume di certi saggi; d'essere familiare, affabile con tutti, adattandosi alla capacità d'ognuno senza disprezzo; e d'essere desiderato in ogni ceto come l'anima vivificante della società. So chi li fece d'amico, e tradì il suo segreto, ma di lui verun potè dolersi". Infine, a tali qualità si deve aggiungere un notevole autocontrollo, che gli permetteva di restare calmo anche nei frangenti più rischiosi. Così a Pavia (nel 1796), quando fu oggetto di violente gazzarre per il sospetto che favorisse il trasferimento dell'Università a Milano, non solo affrontò impavido gli energumeni che lo ingiuriavano, ma anche, come riferisce il Polvani, "benché avvertito che era veduto di mal occhio e che avrebbe fatto bene a ritirarsi di colà [dal Collegio Borromeo] e di Pavia, egli andò anche al Bottegone [poi Caffè Demetrio]. La sera poi si recò anche a teatro, sfidando le bollenti ire degli avversari. Anche là vi fu chi l'avvisò di ritirarsi, ma egli nol fece".
Ma tutta quell'umiltà e modestia - al punto di ironizzare sui trionfi parigini - non lo rende insensibile a onori e riconoscimenti, specialmente quando corredati da vantaggi economici, né le nomine presso le varie Accademie furono esclusiva iniziativa altrui. Così pure è zelantissimo nell'informare gli scienziati di mezza Europa, quando giunge a risultati importanti, onde garantirsi il merito della priorità. E tuttavia, per quanto sensibile alle questioni di priorità, mai il Volta aprì procedimenti giuridici, accontentandosi di rivendicare i suoi diritti nelle lettere private o al massimo nei discorsi accademici. L'indole mite e l'istintiva prudenza contadina lo rendevano incapace di avviare questioni che sapeva avrebbero eccitato gli animi, sollevando inevitabilmente risentimento e livore.
Sulle radici contadine dell'animo voltiano molto hanno scritto i biografi: qui ci limitiamo a due test significativi. Il primo riguarda quella semplicità di costumi riferita da M. Monti: "A Camporra, volentierissimo si mescolava ai contadini sull'aja, nelle tinaie, e sulle panche della rustica cucina. Contava loro le più strane cose del mondo, mostrava qualche sperimento di fisica, o proponeva enimmi. Adagiatesi ai tempi della vendemmia alle loro mense un po' più liete del solito, mangiava con loro i maccheroni, la polenta, i risi. Ei servivasi delle mani, come gli eroi d'Omero [...] e a canna beveva dal fiasco". Il secondo riguarda quell'innato pudore che gli faceva evitare temi nei quali poteva emergere tutto il suo valore e, perciò stesso, mettere a disagio l'interlocutore. Un pudore che non solo ama il tratto e dire semplice - magari trincerandosi dietro le facezie -, ma anche detesta i paroloni o le astruserie. Sul primo aspetto, osserva C. Cantù: "A sentirlo discorrere con la domestica o spassarsi fra contadini e con operai, appena l'avresti creduto quel sommo ch'egli era, sì gli sovrabbondavano quelle arguzie, che spesso scaturiscono da un animo o scipito o maligno, ma che dal suo labbro piovevano senza offendere persona, e quasi ricreamento d'uno spirito negli studi affaticato". I paroloni, invece - abbondanti nel mondo universitario -, li deplorava: "Mi spaventò il titolo d'un libro che mi venne alle mani tempo fa: Archontologia Cosmica. Mi piacciono i termini tecnici, i vocaboli scientifici, ma vorrei qualche volta che avesser men del magico, per non dir diabolico" (lettera del 4 agosto 1776, a M. Landriani).
Molti altri spunti troviamo nelle relazioni tra Volta e i colleghi, prima al Ginnasio di Como - quattro anni idilliaci - e poi all'Università Ticinense, nei molti anni d'insegnamento. Ci limitiamo a ricordare che nell'Università pavese, tra il 1765 e il 1785, "le scienze parlavano all'Europa intera" (Mascheroni), grazie non solo ai citati Brugnatelli, G. e M. Fontana o Spallanzani, ma pure ad A. Scarpa - anatomo, destituito nel 1798 (come l'Oriani e il Galvani a Bologna) per aver rifiutato il giuramento giacobino -, S. A. Tissot, chiamato da Losanna alla cattedra di Clinica (gli successe P. Frank, proveniente da Gottinga), P. Tamburini nella cattedra di Filosofìa morale e Diritto naturale (con Zola alla testa del giansenismo lombardo), V. Monti nella cattedra di Eloquenza (poi ricoperta da U. Foscolo) e tanti altri. Grazie pure al suo felice carattere, il Volta ebbe molti amici: tanto a Como (Gattoni, Giovio ecc.) e a Pavia - dal Frank al Foscolo (che era tra gli uditori delle sue lezioni e gli donò la prolusione Dell'ufficio della letteratura, con dedica autografa), dallo Scarpa al Tamburini ecc. -, quanto in mezza Europa (Lichtenberg a Gottinga, Lavoisier a Parigi, Magellan, fisico portoghese stabilitosi in Inghilterra, Saussure a Ginevra ecc). Ma ebbe pure, come avviene soprattutto tra intellettuali e relative fazioni accademiche, vari incidenti. Famoso rimane quello con lo Spallanzani. La vicenda risale al 1785-86, quando Volta era rettore dell'Università. Mentre lo Spallanzani è lontano, a Costantinopoli, tre professori - G. Fontana, Scarpa e Scopoli - e il custode del museo, canonico S. Volta, lo accusano di aver sottratto campioni di minerali al Museo dell'Università per arricchire la sua raccolta privata. Tornato lo Spallanzani fu istituito un processo; l'accusato presentò al conte Wilzech, plenipotenziario austriaco, le sue difese e ottenne l'assoluzione. Gli accusati vennero ammoniti, il custode allontanato. Quel che segue ha del grottesco, ma ben rivela quanto altezzoso e vendicativo fosse lo Spallanzani, mentre il Volta tentava di appianare la controversia e di togliere l'amico Scopoli dalla marea del ridicolo. Lo Spallanzani coglie l'occasione e accusa il Volta di essere non solo un rettore ombra - che non intervenne a suo tempo per bloccare i colpevoli -, ma anche inutile come professore, perché non spiega i princìpi della geometria, dell'algebra e della meccanica, ma parla soltanto di arie, calore, elettricità.
Qualche parola infine sugli affetti del Volta, generalmente pacati ma che, in almeno un caso, furono burrascosi. Una vicenda che, lungi dallo scandalizzare, rende il Comasco più umano o, quanto meno, non troppo disincarnato. In realtà, dopo gli amoretti giovanili e gli innocui flirt romantici - poeticamente stilizzati nei suoi versi -, l'anima e il corpo sono ormai nella piena virilità e sentono l'ansia di un amore intero e di una donna con la quale stringere un legame di vita. Ma non fu Teresa Peregrini - che sposò nel 1794 - quella che per prima il Volta amò e avrebbe voluto per moglie. Un'altra la precedette, Marianna Paris, romana, cantante di teatro, alla quale si legò con un lungo e tribolato amore (1788-92). Infatti il Volta, frequentandola, sente che questa donna va insinuandosi ognor più nel suo cuore, fino a scatenare un'intensa passione. Alla fine, dopo vari conflitti interiori e scontri con i pregiudizi della borghesia provinciale e della tradizione puritana, scrive al fratello maggiore, il canonico Luigi, confidandogli di aver tentato invano di staccarsi da lei e che avrebbe fatto l'ultimo tentativo. Se allontanandosi fosse aumentato il dolore, allora lo prega di non opporsi, ma di badare alla sua pace fisica e spirituale. Infatti egli confessa: "Trascorsi un periodo di sregolatezze e, libero e sciolto, corsi dietro ad amoretti vaghi; ma ora che mi diedi ad un amore fisso, sento che sarò regolatissimo e dabbene con un attaccamento legittimo".
Significativamente fu la stessa Marianna a volere che la famiglia venisse informata. Alessandro pensava invece di tenere nascosta la relazione e di affrontare il tema matrimonio soltanto quando fosse rimosso l'ostacolo dovuto alla professione della compagna. Quell'atto di lealtà scatenò il finimondo: non solo insorse rabbiosa la famiglia, ma anche il conte Wilzech; solamente l'amico e collega Tamburini lo appoggiò perché, da buon giansenista, riteneva che a quel punto l'onesta coerenza dovesse prevalere (col matrimonio) su ogni altra convenienza o ipocrisia. In una lettera dell'ottobre 1789 il Volta chiede tempo: passano tre anni in suppliche, da una parte, e in opposizioni dall'altra. Volta teme che Marianna, se abbandonata, discenda la china e si perda: non resta che sposarla e tenerla segretamente a Milano. Fallito anche questo tentativo, è Marianna stessa a rinunciare, mentre Alessandro sente che ormai bisogna trovare una donna per la vita. Già nuove dame cercano di espugnare il suo cuore: la nobile Giulietta Rovelli e donna Antonietta Giovio; ma sarà Teresa Peregrini a spuntarla, il 22 settembre 1794, nella chiesa di San Provino in Como: "Diva pur essa - scrive il Rota -, ma del focolare". Che gli diede non solo un'indicibile pace domestica, ma anche tre figli: Luigi, Flaminio e Zanino. Del secondogenito, poi, che mostrava spiccata inclinazione per la matematica, si pronosticava che avrebbe emulato il padre. Sono anni felici e relativamente calmi, ma col 1814 - quando Flaminio (diciottenne) muore di encefalite - comincia la parabola discendente e nel Volta s'intensifica la profonda religiosità di sempre, che ora tocca punte quasi mistiche.
Alessandro Volta: un credente per davvero, nonostante tutto
Nonostante le spiacevoli vicende appena riferite, le belle qualità dell'anima voltiana, lungi dall'incrinarsi ne escono consolidate. Anche nella dimensione religiosa più vera, che inizia con la già ricordata vocazione gesuitica ricca di preghiere, mortificazioni e intensa vita spirituale, come risulta dall'Epistolario (vol. I, lettere 5,13, 22, 27, 32, 35). Una vita spirituale intensa - Messa anche quotidiana, frequenza ai sacramenti (confessione e comunione), recita quotidiana del rosario, catechismo -, minimamente attenuatasi nel corso degli anni e sempre nutrita con gli studi biblico-teologici e apologetici. Felice risulta questa sintesi del Cantù: "Affezionato alla sua religione, non solo per abitudine, ma per effetto di lunghe meditazioni, non trascurò la delizia del pregare e le forme esterne del culto, neppure quando la moda imponeva che ogni uomo non vulgare dovesse o nutrire o affettare dispregio per quel ch'era stato sacro ai padri". Interessante anche sapere che negli anni d'insegnamento al Ginnasio di Como non trovava disdicevole insegnare la dottrina cristiana ai fanciulli nella chiesa parrocchiale di San Donnino, dove tuttora una lapide ricorda enfaticamente che "qui insegnando il catechismo si preparò al miracolo della pila". Quando, poi, nel 1778, fu chiamato all'Università di Pavia e gli fu impossibile continuare quell'insegnamento, non per questo lasciò di frequentare - a Pavia e nelle chiese delle varie città in cui passava o aveva dimora - la spiegazione della dottrina cristiana, solitamente attraverso l'omelia della Messa festiva e, soprattutto, durante i vespri.
Proprio questo suo vivo e costante interesse per gli approfondimenti di fede sta probabilmente alla base del suo incontro col Tamburini, apostolo del giansenismo lombardo insieme a G. Zola. Sorto in Francia, questo movimento religioso si diffuse da Port-Royal a tutta l'Europa, invocando un ritorno alle linee originali della Chiesa primitiva, sintetizzabili più o meno in queste tesi: più dei riti contano la fede e lo spirito di carità; l'uomo, emancipandosi dalla mediazione pretesca e dalle forme devozionali, deve
comunicare direttamente con Dio; una morale austera (e non il lassismo gesuitico) deve guidare la vita pratica; la Chiesa va organizzata secondo princìpi democratici, ponendo fine al centralismo assolutista romano; il Papa, Vescovo di Roma, ha sopra di sé l'autorità di un Concilio Universale; gli ordini monastici dovevano essere soppressi, perché appartenevano all'inerte vita contemplativa; lo Stato doveva emanciparsi dalla Chiesa e questa rinunciare al suo potere temporale.
I biografi disputano sulle cause (e il grado di adesione) che orientarono giansenisticamente il Volta. Una circostanza favorevole può essere trovata nel fatto che le posizioni estremiste del movimento facilmente toccavano sentimento e idealismo dei giovani (il Volta, all'epoca, aveva 35 anni). Si può anche ritenere che egli, mosso dal proprio rigore logico, abbia visto nel giansenismo un perfezionamento della religiosità cattolica tradizionale. Infine, se vediamo nel giansenismo un movimento di purificazione della Chiesa - sulla linea, per esempio, di san Carlo Borromeo, anziché "un moto di ostilità verso la Compagnia di Gesù" (E. Rota) -, allora non pare strano, considerando anche l'intensa spiritualità e una certa cultura teologica del Volta, che egli abbia simpatizzato con quel movimento.
Infine, omettendo vari altri test, ricordiamo due episodi del 1815 che meglio illustrano non solo la coniugazione di fede e scienza in Volta, ma anche il suo zelo nell'aiutare quanti si trovavano in crisi di fede. Anzitutto c'è l'incontro con Silvio Pellico nella dimora estiva dei conti Porro - Silvio era istitutore dei loro figli -, testimoniato nella lettera del Pellico al Porro (22 settembre 1815), e forse ne seguirono altri (però non documentabili). Da una successiva lirica del Pellico sappiamo che egli allora era praticamente ateo e che il Volta rispose con tali argomentazioni da mettergli in cuore quel germe di fede che poi maturerà nel carcere dello Spielberg. L'altro episodio riguarda la "professione di fede", inviata al canonico G. Ciceri di Como (lettera n. 1.703), in cui testualmente scrive: "Ho mancato è vero nelle buone opere di Cristiano Cattolico e mi son fatto reo di molte colpe, ma per grazia speciale di Dio non mi pare d'aver mancato gravemente di fede, e certo sono di non averla mai abbandonata. Se quelle colpe e disordini miei han dato luogo a taluno di sospettare in me anche l'incredulità dichiaro apertamente a lui, e ad ogni altra persona, e son pronto a dichiarare in ogni incontro, ed a qualunque costo, che ho sempre tenuta e tengo per unica vera ed infallibile questa Santa Religione, ringraziando senza fine il buon Dio d'avermi infusa tal fede in cui mi propongo di vivere e morire con ferma speranza di conseguire la vita eterna".
Al termine di questa lunga panoramica voltiana - ma che, in realtà, è solo la punta di un iceberg - possiamo affermare che il Volta penetrò a fondo sia nel gran libro della natura, sia in quello della rivelazione cristiana, e che la ricerca delle leggi fisiche non imprigionò la sua mente nella materia, bensì gli rese più facile il sentire la voce dell'Essere primo, immutabile e necessario che potentemente lo traeva a sé. E quando, dopo il 1814 - con la morte prematura del secondogenito e la fine del mito napoleonico -, tutto sembra crollare, egli progressivamente abbandona quella scena del mondo che tanti onori gli aveva conferito e, intensificando la sua unione con Dio, si ritira nella villa di campagna, a Camnago (1819), dove muore il 5 marzo 1827.
Autore: Piersandro Vanzan
Fonte:
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