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Don Giovanni Bertocchi Sacerdote

Festa: Testimoni

Alzano Lombardo, Bergamo, 10 ottobre 1975 – Verdello, Bergamo, 30 aprile 2004

Giovanni Bertocchi nacque ad Alzano Lombardo il 10 ottobre 1975, ultimogenito di Piero e Maddalena e fratello di Barbara ed Elisabetta. Nell’adolescenza riconobbe di sentirsi chiamato al sacerdozio diocesano: compì quindi la propria formazione nel Seminario minore e, successivamente, in quello maggiore della diocesi di Bergamo. Ordinato sacerdote il 3 giugno 2000, fu destinato alla parrocchia dei Santi Pietro e Paolo a Verdello, dove si prese cura in particolare dei bambini e dei giovani, nell’oratorio dedicato a san Giovanni Bosco. Il 30 aprile 2004, giocando con gli adolescenti mentre sistemava alcuni materassi al termine di una settimana di vita comune, cadde dal sopralzo della palestra e morì sul colpo, all’età di ventotto anni. I suoi genitori, nel 2009, hanno acconsentito alla pubblicazione del suo diario spirituale, col titolo «Io sono un sogno di Dio».I suoi resti mortali riposano nel cimitero di Clusone, dove si era trasferito con la famiglia.



La sera del 17 aprile 2003, Giovedì Santo, don Giovanni Bertocchi, curato (ossia prete d’oratorio) della parrocchia dei SS. Pietro e Paolo a Verdello, in provincia di Bergamo, si trovava a meditare presso l’altare della reposizione, insieme agli adolescenti e ai giovani. Preghiere e canti si alternavano ai silenzi. Don Giovanni ripensò alle promesse rinnovate il mattino durante la Messa Crismale, di fronte al suo vescovo. Si riconobbe diverso da come la gente della sua parrocchia aveva preso a considerarlo. Se per gli altri era un bravo prete – ed era stato ordinato appena tre anni addietro – lui sapeva di non essersi occupato abbastanza del suo rapporto con il Signore. Eppure, proprio dopo essersi domandato se fosse tutta una finzione, proruppe in un grido, che espresse in lettere maiuscole nel suo diario spirituale: «NO! Non può essere così. IO DAVVERO HO INCONTRATO DIO! DAVVERO MI SONO SENTITO PERDONATO E AMATO DA GESÙ! Per questo ho scelto di giocarmi per Lui. Per nessun altro motivo».
Poco più di un anno dopo, il 30 aprile 2004, la sua vita terminava inaspettatamente: cadde da un sopralzo, mentre sistemava in palestra alcuni materassi, al termine di un periodo di vita comune per i suoi adolescenti. Non sarebbe un buon servizio alla sua memoria, tuttavia, fermarsi all’aspetto tragico della sua fine terrena. Vale la pena di provare a capire, quindi, come sia giunto a riconoscere di essere oggetto dell’amore misericordioso del Padre.
Don Giovanni, o com’è più confidenzialmente noto, don Giò, nacque ad Alzano Lombardo il 10 ottobre 1975, terzogenito di Piero e Maddalena Bertocchi. Negli anni dell’infanzia sviluppò un carattere allegro ed espansivo, come riportano i giudizi positivi dei suoi insegnanti all’epoca.
Le sue sorelle, Elisabetta e Barbara, erano le sue compagne di giochi, pur con le differenze reciproche: mentre a loro piaceva realizzare delle casette con i mattoncini giocattolo, lui montava e rimontava astronavi e marchingegni che alle due bambine parevano complicatissimi.
Frequentando l’oratorio, soprattutto per la catechesi festiva, prese a impegnarsi come chierichetto, sotto la guida di sacerdoti che seppero valorizzare le migliori doti del suo carattere. Fu uno di loro, don Pierino Gelmi (ora parroco a Casazza), a chiedergli, al termine di una confessione, se avesse mai pensato di andare in Seminario; aveva allora 13 anni. Se avesse dovuto dare una risposta immediata, sarebbe stata negativa: non voleva lasciare la famiglia, gli amici e una ragazza, ma nel settembre 1989, finite le medie, Giovanni entrò nel Seminario minore di Bergamo. Iniziò anche a tenere un diario spirituale. Gli serviva per registrare non solo progressi e apparenti fallimenti, ma anche le luci che andavano rischiarando la sua strada, che non era ancora sicuro fosse proprio quella del sacerdozio.
Un primo mutamento avvenne durante gli Esercizi spirituali, che gli parvero più di ogni altra volta quasi pensati apposta per lui e per la sua situazione. Il 7 dicembre 1991, dopo la confessione, ringraziò Dio in questi termini: «Ti ringrazio, Signore, perché ancora una volta mi hai donato il tuo perdono. Hai scacciato il faraone che era dentro di me. So che tornerà, ma tu sarai sempre pronto a scacciarlo, ancora. Grazie, Signore, del mio essere uomo, giusto o malvagio. Grazie di tutto ciò che mi circonda, anche delle realtà peggiori: esse sono uno stimolo a migliorare! Grazie della morte, che nessuno risparmia e che mi porterà davanti al tuo volto. Ma soprattutto, Signore, grazie perché esisti».
Un altro passo importante fu la “Promessa”, - l’impegno a proseguire il cammino vocazionale -  fatta in quarta superiore, quando non aveva ancora compiuto 18 anni. Si preparò tenendo davanti agli occhi il discepolo Giovanni che pone il suo capo sul cuore di Gesù: «Supra pectus Jesu». Il 2 maggio 1993 presentò la sua promessa: «Per questo oggi io, Giovanni, prometto di scegliere e di sceglierti, per servirti con il dono della mia vita, povera ma unica per tua Grazia. E con ancora un po’ di paura offro la mia disponibilità a seguirti, se questa è la tua volontà, sull’affascinante e impegnativa strada del sacerdozio, chiedendo l’aiuto della Vergine Maria, esempio perfetto di affidamento.
Grazie».
Molte volte tornò sul senso di quella Promessa, chiedendosi se l’avesse lasciata su un foglio di carta o se l’avesse realmente incarnata, come il discepolo amato di cui portava il nome. Il fatto di chiamarsi Giovanni, ossia «Dio ha avuto misericordia», era per lui uno stimolo a considerarsi destinatario di un amore senza limiti, al di là di lamenti o autocommiserazioni.
L’anno successivo passò agli studi teologici. Due eventi contribuirono alla decisione definitiva.
Il primo fu la lettura di un passo di un libro, «Temi cristiani maggiori» del teologo don Giovanni Moioli. Lo colpì la riflessione sulla preghiera intesa come dire di sì a Dio, volere la sua volontà.
Il secondo fu lo stupore nel vedere una rondine, che portava ai suoi piccoli il cibo nel nido costruito vicino alle stanze dei seminaristi. Corse a chiamare alcuni compagni perché vedessero anche loro, ma la rondine era scomparsa, mentre i rondinini non pigolavano più.
Dio si era servito della sua capacità di meravigliarsi, mostrando quello spettacolo a lui solo, per fargli comprendere una realtà ancora più grande: «La mia vita», disse alcuni anni dopo, rievocando quell’episodio, «doveva essere il mio regalo per Lui».
Il lavoro da compiere era ancora lungo, lo sapeva. Eppure, il 24 ottobre 1995, si ritrovò a interrogare Dio:«Ma quanto avrai pazienza con me, Signore? Fino a quando non reciderai il fico sterile? Fino a quando aspetterai che io diventi terreno buono, libero da sassi ed erbacce?
È tanto grande la tua Misericordia!!!
Proteggimi, Signore. Stammi vicino, o io fuggirò sempre più lontano».
Intanto, si occupava dei ragazzi di I Liceo in qualità di Prefetto e non negava mai il suo aiuto ai compagni che gli domandavano un lavoro al computer o di suonare per loro. La musica, infatti, era un’altra delle sue grandi passioni, tanto che, da bambino, gli accadde di dire che da grande sarebbe stato come Gianni Morandi o come il Papa. Al di là di quell’affermazione fanciullesca, lui stesso si raffigurò, più tardi, come un pentagramma nato da una matassa sbrogliata dal sole, ossia dall’amore divino. Su quelle righe musicali compose anche dei canti religiosi, come «Gv 1, 38», nota anche come «Maestro, dove abiti?», il cui testo fa comprendere come lui sapesse che era stato amato da Dio ancor prima di mettersi a cercarlo.
Fondamentali sono stati, per lui, gli esempi dei santi. Se nell’adolescenza si era appassionato a san Francesco d’Assisi, salvo riconoscere che doveva essere il mezzo, non il fine della propria santificazione personale, negli anni della Teologia si sentì affascinato da santa Teresa di Gesù Bambino. Come lei, o meglio, come Gesù stesso, divenne determinato a «essere amore». È un’altra espressione ricorrente nel suo diario: compare, ad esempio, in una preghiera scritta il 7 dicembre 1996.
Strumento prezioso, per lui, furono gli Esercizi spirituali, vissuti nel 1988 secondo il metodo di sant’Ignazio di Loyola, per la durata di un mese. Quegli esercizi gli marcarono più degli altri la sua fisionomia spirituale. Il 24 luglio trovò la sua elezione fondamentale, ossia, nel linguaggio ignaziano, il nome che doveva dare alla sua esperienza di fede.
«È la tua misericordia», scrisse nel diario l’indomani, «che sostiene i miei passi verso di te, riconducendomi al tuo amore ogni volta che me ne allontano. […] Perché credo sia questo ciò a cui [la tua volontà] mi sta chiamando: essere per i miei fratelli ciò che tu sei stato per me, essere segno d’amore misericordioso di Dio, disposto a dare tutto di sé, perché vuole salvare l’uomo. Per questo ti dico e ti chiedo, Signore: “Qualsiasi cosa tu voglia, nella tua misericordia”».
Dopo aver trascorso la V e VI Teologia nel servizio alla parrocchia di Cassinone di Seriate, venne il momento dell’ordinazione diaconale, il 19 giugno 1999, e di quella sacerdotale, il 3 giugno 2000.
Il ministero vissuto concretamente dall’ormai don Giovanni, non più solo sul piano teorico, non spense in lui la consapevolezza maturata negli anni di preparazione. Curava gli allestimenti della chiesa in occasione di particolari ritiri o incontri di preghiera ma, allo stesso tempo, sapeva divertirsi coi suoi ragazzi nelle feste di Carnevale. Era il suo modo di prendere esempio da un altro dei suoi patroni speciali, san Giovanni Bosco.
Non smise di scrivere nel diario: anche se le note dei suoi ultimi anni sono in numero minore rispetto a quelli precedenti, hanno ugualmente un certo peso. Ad esempio, mentre contemplava il Crocifisso insieme ad alcuni adolescenti, nella notte tra il 14 e il 15 dicembre 2002, gli venne da pregare, passando dal condizionale all’indicativo del verbo volere: «Voglio essere nient’altro che ciò che mi hai donato di essere. Voglio essere un giovane sacerdote, un piccolo e insignificante pastorello d’anime, reso grande per tua grazia da un dono infinito, da cantare nel mistero delle mani vuote».
Il fatto che le sue mani fossero davvero vuote venne riscontrato dalla sorella Elisabetta poco dopo la fatale caduta. Mentre controllava il suo bilancio personale, per vedere se non avesse lasciato nulla in sospeso, notò che alcune spese erano contrassegnate con l’espressione latina «Urget nos», la stessa che fu riscontrata come causale di alcuni assegni. Non molto tempo dopo, i familiari scoprirono il perché di quella citazione di san Paolo: erano un modo per non far capire che erano destinate alla carità verso un ragazzo bosniaco residente in un paese della bergamasca. Un’altra delicatezza fu verso la comunità Tau di Arcene, cui fu donata una macchina fotografica nuova, come dimostrava uno scontrino fiscale rinvenuto nel suo studio.
Undici anni dopo, la storia di don Giò è diventata patrimonio di un numero impressionante di fedeli. Molti, dopo aver letto il suo diario spirituale «“Io sono un sogno di Dio”», edito per la prima volta nel 2009 dalle Edizioni Messaggero di Padova e, dopo essere andato esaurito, nel 2011 dalle Edizioni Gamba, hanno dichiarato di aver ricevuto un gran beneficio dalle sue riflessioni. I suoi genitori e don Arturo Bellini, che lo seguì come parroco e attualmente è vicario interparrocchiale di Gavarno e Nembro, continuano a ricevere lettere e messaggi da tutt’Italia e anche da fuori.

Autore: Emilia Flocchini

 


 

Aveva un sorriso che contagiava, un sorriso da bambino felice, ma era tutt’altro che un bambino. Era un prete e un prete in gamba, sarebbe più corretto dire è un prete in gamba, visto che dal paradiso continua a fare un gran bene ai suoi giovani, che ha amato con autentico cuore sacerdotale e a quanti incontrano la sua figura attraverso la testimonianza dei genitori e delle persone che lo hanno conosciuto. Don Giovanni Bertocchi ha concluso la sua breve, ma intensa esistenza terrena il 30 aprile 2004, a 28 anni cadendo nella palestra dell’oratorio di Verdello (BG) durante i festeggiamenti per la conclusione dell’esperienza di vita comunitaria oratoriana intitolata: “Fratello alla grande”. Era nato a  Alzano Lombardo (BG) nel 1975, ma risiedeva a Clusone (BG) un grosso centro nella Val Seriana. Aveva frequentato il seminario vescovile di Bergamo ed era stato ordinato sacerdote il 3 giugno del 2000. La sua breve esperienza sacerdotale, fatta di dedizione e sacrifici, ha il sapore di un racconto tratto dalla ‘Legenda Aurea’: ha dato la vita per i suoi giovani. Certo, avrebbe voluto lavorare ancora per chissà quanto tempo in mezzo ai suoi ragazzi, ma lo sforzo di dare tutto lo ha portato all’estremo sacrificio. E quanto gli è accaduto è da leggersi nell’insieme della sua vita di donazione.
Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un giovane generoso con tutti. Il suo diario spirituale ci dice che questa generosità nasceva dal fatto che aveva preso sul serio la sua vocazione e si era consegnato senza riserve al Signore. Poco prima di morire, scriveva: ”Le esperienze che hanno segnato la mia vita sono autentiche. Io davvero ho incontrato Dio! Davvero mi sono sentito amato e perdonato da Gesù. Per questo ho scelto di giocarmi con lui. Per nessun altro motivo”. All’attività d’oratorio si era allenato durante gli ultimi tempi della sua preparazione sacerdotale con una esperienza nella parrocchia di  Cassinone (BG), e la sua prima destinazione come prete l’aveva avuta per Verdello, una grossa parrocchia nella Bassa Bergamasca, con un oratorio, dedicato a Don Bosco, pieno di giovani e ricco di tante tradizioni oratoriane.

Innamorato di Don Bosco

Don Giò (così lo chiamavano tutti e lui ne era contento) conosceva e amava Don Bosco e voleva bene ai giovani con cuore ‘salesiano’. La sua prima festa che organizzò e animo in onore del patrono del suo oratorio, la impostò tutta sul tema della corda, in ricordo di quella memorabile corda che il piccolo Giovannino Bosco tirava tra due piante sui prati dei Becchi e se ne serviva per fare il saltimbanco: ”La corda non ci ha abbandonato neanche per un momento – scriveva sul notiziario parrocchiale – l’abbiamo ricevuta, tagliata e riannodata durante le confessioni, per dire che il peccatoci fa perdere il legame con Gesù, ma il perdonalo riallaccia (…) Ci abbiamo fatto sopra altri nodi, trovandoci a pregare insieme prima di andare a scuola. Per ogni nodo un episodio della vita di Don Bosco ci suggeriva qualcosa che ci avvicina a Gesù: la famiglia, gli amici, lo studio, la preghiera, l’oratorio, la speranza, la nostra vocazione.
La festa di Don Bosco del 2003 fu celebrata in sintonia con lo slogan ‘Ama senza misura’“San Giovanni Bosco, povero tra i poveri, noi lo conosciamo bene soprattutto perché si è sempre battuto a favore dei ragazzi, perché potessero supe­rare la loro povertà e ha sempre speso tutto se stesso per dare loro il tesoro più grande: la fede. Ma egli si è sempre confrontato con diversi volti della povertà: quella vissuta nella sua infanzia, quel­la della giovinezza, quella da sacerdote, vinta sem­pre dalla Provvidenza. E ci sono le povertà che lui ha soccorso: poveri senza famiglia, senza istruzio­ne, senza lavoro, perché malati, perché senza Dio.

L’addio


Don Giovanni consegnò ai suoi ragazzi alcune parole da accogliere durante la settimana e da custodire per la vita: un invito a pregare con Don Bosco e a decide­re con Gesù nel cuore, perché è “con Gesù nel cuore che bisogna decidere. Lunedì: Chi vive nella ricchezza dimentica facil­mente il Signore. Martedì: L'aiuto di Dio non manca se si lavora davvero con allegria. Mercoledì: Anche il mio sangue darei volentie­ri per salvarli. Giovedì: In ogni giovane c'è un punto accessibi­le al bene. Venerdì: A chi fa del bene verrà fatto del bene. Sabato: Per fare del bene occorre avere un poco di coraggio. Domenica: La Provvidenza di Dio, ai grandi biso­gni, manda grandi aiuti.
Don Giò, il “il ‘don’ più pazzo di noi”, come dicevano i suoi giovani, il 30 aprile 2004, al termine della settimana di vita comunitaria oratoriana, mentre stava giocando con loro era pronto per la vita di comunione che non finisce mai.


Autore:
Natale Maffioli


Fonte:
Bollettino Salesiano, febbraio 2010

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Aggiunto/modificato il 2015-11-12

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