A Schio, ai piedi del duomo c’è dal 1879 il monumento al tessitore che Alessandro Rossi commissionò a Giulio Monteverde per dedicarlo agli operai delle sue fabbriche, le famose “Lanerossi”. Monumento all’operaio ideale! Gli scledensi lo chiamarono semplicemente l’Omo! Ma un centinaio di anni dopo molti individuarono, sempre a Schio, un concorrente, uno che tesseva altre trame, confezionava altri vestiti, un operaio del Signore, tessitore d’anime. E anche lui fu l’Omo, l’Omo dei salesiani! Si trattava del “sior” Vittorio Povelato, salesiano coadiutore, simpatico da morire, cordiale come pochi, e furbo; difficile “fargliela in barba”, non solo perché la barba non ce l’aveva, ma soprattutto perché quasi ci si divertiva a prevenire le marachelle dei suoi tosi.
Qualche tratto
Era veneto di Martellago, figlio di una famiglia patriarcale: i suoi primi impegni furono i lavori nei campi. Di Don Bosco non ne sentì parlare, lo vide semplicemente raffigurato in un periodico, e questo bastò ad ammaliarlo. Il santo di Valdocco doveva avere una calamita addosso se bastava guardarlo in fotografia per esserne ipnotizzati. Fatto sta che nel 1939, a 22 anni, Vittorio è salesiano. Coadiutore. Un tipo originale: in camera sua regnava il caos, al bar, invece, posto del suo lavoro, l’ordine era sovrano, la pulizia meticolosa. Usava dei fogliettini per scriverci sopra il programmino della giornata. Non andava avanti all’impronta! Tutt’altro, era metodico, accurato, costante e avrebbe voluto che tutti fossero così, confratelli e giovani. Ma si rendeva conto che non si può pretendere “la luna nel pozzo” da nessuno. Lui comunque roba in giro non ne voleva vedere e tutto ciò che trovava fuori posto sequestrava: penne, matite, portachiavi, palline, medaglie, pendagli, chiavi, lacci… e perfino biciclette!
A Chioggia
A Chioggia si era immedesimato nel luogo, tanto da parlare il dialetto ciosoto. Era un attore nato. Insieme a Brando, un altro confratello coadiutore, aveva formato un duetto irresistibile. Quando recitavano insieme era impossibile rimanere… impassibili, e le risate si sprecavano. Una verve inarrivabile. Spesso raccontavano i funerali, come li facevano in città, e invece che far piangere facevano sganasciare. Dalle risa. Sapeva recitare alla perfezione, il sior Vittorio, la parte di maggiordomo, di pagliaccio, di barbone, di ubriacone, di… scacciapensieri. Quando un discorso non gli piaceva: “Gesummaria… altre me toca sentìrghene!”, e accennava a un segno di croce scacciademonio. Fulminante il suo giudizio post ’68: “Gnanca i preti no va più in ciesa!”. Proprio per questa allegra e umana comicità, era amatissimo dai ragazzi, anche perché, padrone assoluto del bar, spesso allungava qualche cingomma, o qualche pocetto/dolcetto come premio, e anche qualche rimprovero: “Ehi! Cosa disitu ciò?… Ohssignore, mariavergine, ma dove semo arivà?”, gli occhi al cielo e una risata soffocata: troppo intelligente per prendere troppo sul serio una marachella. Faceva anche catechismo in parrocchia, un po’ in italiano e un po’ in dialetto. Non era un teologo, ma quello che gli mancava come scienza ce l’aveva come simpatia, e inventava per i suoi alunni quiz religiosi con i pulsanti mettendo su gare appassionanti…
Poi Schio
Schio fu dal 1968 alla morte il secondo campo del suo apostolato. Anche lì divenne un punto di riferimento non solo per gli scledensi ma anche per i confratelli. Per 30 anni! Factotum e servo di tutti: dei suoi confratelli a refettorio come cameriere, dei parrocchiani in chiesa come sagrista, dei ragazzi all’oratorio come barista, dei bambini in cortile come animatore dei giochi, della gente al cinema come attacchino, bigliettaio, operatore, assistente di sala. Ma compariva anche in cucina, in cantina, e all’ambone in chiesa come lettore. Insomma lo trovavi ovunque, sempre disponibile e pronto. Ed erano numerosi quelli che frequentavano il cinema e soprattutto il bar perché c’era il sior Vittorio. La sua arguta bonomia, la sua sollecitudine nel servire – come un vero professionista – la sua gentilezza, e l’arguzia delle sue battute attiravano i clienti come le mosche. Qualcuno diceva che il pulpito di Vittorio era il bar! Don Bosco le paroline le diceva in cortile ai suoi ragazzi. Vittorio al bar… Che volete, i tempi cambiano, il prodotto tuttavia è lo stesso; così al piccolo chiedeva una preghierina, al ragazzo raccomandava l’obbedienza a papà e mamma, al giovane di impegnarsi e non fare il vitellone, all’adulto la pazienza di Giobbe. Insomma teneva lezioni di vita il sior Vittorio; le sue erano anche delle magnifiche omelie che spesso toccavano il cuore di chi le percepiva. Ho scritto percepiva, perché predicava con la vita più che con la parola. Le parole erano sempre poche, eccetto che non recitasse.
Ehi! Capo!
“Ehi, capo…”, era l’incipit di un contatto che poi poteva durare anni, e che spesso si trasformava in un’amicizia sincera e duratura. Aveva dentro una carica di energia “buona” che contagiava tutti, confratelli compresi. E, da buon salesiano, era un sognatore. Beh, lui non sognava in grande come Don Bosco, non se ne sentiva degno, si accontentava di sognare di guidare il pullman dei ragazzi che partivano per una gita… Cose così, insomma, cose umili, di tutti i giorni, da casalingo. In uno dei suoi famosi foglietti aveva scritto:
1. Controllo orologi
2. Ordinare tavolo da lavoro
3. Sistemare moneta
4. Aprire le porte
Così, il sior Vittorio Povelato, a poco a poco è diventato l’Omo dei salesiani, in concorrenza con l’Omo de Schio. Forse anche lui meriterebbe un bel monumento per aver “tessuto” la sua vita in modo esemplare e aver aiutato coloro che lo contattavano, o che egli contattava, a fare altrettanto.
Autore: Giancarlo Manieri
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