“Credere è facile quando tutto va bene e non ci sono grandi prove; ma quando a 21 anni ti trovi a tu per tu con la morte, allora sì che la fede diventa vita”. Lo scrive, 40 anni fa, un giovane seminarista di Fossano: pienamente cosciente del tumore che lo sta devastando, determinato malgrado tutto a diventare prete, fosse pure per un giorno solo. Silverio Merlo nasce a San Biagio di Centallo nel 1949; a dieci anni entra in seminario,come si usava allora, perché qualcuno ha visto in lui i segni di una precoce vocazione che forse merita coltivare. “Cercherò di non sprecare il tempo”, scrive in quell’anno; e se il concetto sembra decisamente sproporzionato per un bambino di 10 anni, alla luce di quello che è successo in seguito diventa il segno premonitore di una vita che sarebbe stata breve e, insieme, la percezione, seppur infantile, che ogni minuto è un dono e, come tale, non va sprecato. In fondo, è la stessa cosa che ripeterà dieci anni dopo, nella consapevolezza dei suoi 20 anni, resi ancora più maturi da una sofferenza che, insieme al fisico, sembra demolire anche i sogni più belli: “Ogni minuto della nostra vita ha un valore incalcolabile. Il tempo che il Signore ci concede dobbiamo usarlo a prepararci per l’incontro con lui”. La contestazione giovanile del ’68 non sembra sfiorarlo; pur esuberante e pieno di vitalità, Silverio è troppo impegnato a lavorare su se stesso, per forgiare il suo carattere e riempire di contenuti la “chiamata”, che sempre più distintamente si sente dentro. Chiari e pressanti si fanno, proprio in questi anni, i suoi richiami alla santità, indice di un cammino spirituale che lo sta rendendo maturo per il Cielo: “Santificarmi per santificare domani anche gli altri”, e ancora: “Se non comincio da adesso a farmi santo, domani non sarò un santo prete”. Proprio nel 1968 il male oscuro si risveglia e per tenerlo a bada non sono più sufficienti i ricoveri ospedalieri e neppure le terapie. Silverio ne è pienamente cosciente, tanto che un giorno confida al priore di San Biagio: “Per me non c’è più nulla da fare, la scienza non ha più mezzi per salvarmi! Però sono sereno perché andrò alla Casa del Padre”. Un solo grande cruccio: “Non è che mi rincresca morire, mi rincresce non poter arrivare al sacerdozio”. Già, diventare sacerdote: da quando la vocazione è andata consolidandosi in lui nell’accettazione del sacerdozio come scelta di vita, è questa l’unica meta cui Silverio tende e, forse, è anche questa a tenerlo legato quaggiù, dandogli la forza di lottare e di sperare ancora nella guarigione. “Non so se resisterò fino alla fine”, sussurra nei momenti più crudeli della malattia, aggrappandosi alla Madonna e ripetendole la preghiera che la mamma e la suora dell’asilo gli hanno insegnato da bambino e che non ha mai dimenticato: “Mamma di Gesù, fammi santo”. Nell’ultima notte del 1970 il priore di San Biagio (che all’epoca è don Cesare Giraudo) va a celebrare messa nella sua stanza: un regalo per Silverio, che vi partecipa, emozionatissimo, dal suo letto che sempre più sta diventando l’altare su cui egli si immola. “Non potrò essere sacerdote, sarò solo vittima”,dice con la consapevolezza di chi ormai sa che il sogno di essere sacerdote dovrà rimanere tale e, di qui, la “consegna” ai compagni di seminario che avrebbero dovuto “prendere messa” insieme a lui: “Vi raccomando di fare anche la parte che non potrò fare io”. “Sto fiorendo anch’io per il Cielo”, mormora un mattino di marzo osservando il ciclamino che ha sfidato il freddo e che sta fiorendo sul davanzale della sua finestra. Si congeda dai suoi, che ha voluto radunati attorno al suo letto, con un “Ciao a tutti, vi aspetto tutti in paradiso” prima di entrare nella primavera di Dio, all’alba di un primaverile 15 marzo. “Io e il Signore cammineremo sempre insieme”, aveva scritto un giorno lontano; insieme al suo incomparabile Compagno di viaggio, dopo lo strazio del Venerdì santo, anche Silverio, 40 anni fa, entrava nella stupenda luce del mattino di Pasqua.
Autore: Gianpiero Pettiti
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