Con quanta commozione monsignor Francesco Bertoglio avrà indossato quella croce pettorale il giorno della sua ordinazione episcopale, il 28 ottobre 1960? Nel suo cuore saranno riaffiorati i ricordi di giorni drammatici eppure segnati da grande umanità, da sincera solidarietà e condivisione. Giorni in cui, nonostante il pericolo incombente, non esitò - come rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma - ad accogliere ebrei in fuga dalle persecuzioni nazifasciste. Quella croce pettorale era il segno della riconoscenza di quanti erano stati da lui salvati dalla deportazione, dalla morte. Solo uno degli oltre sessanta ebrei nascosti al Lombardo fu catturato e morì ad Auschwitz l'8 agosto 1944. Si chiamava Enrico Ravenna. Fu il cruccio di monsignor Bertoglio. Ma la consapevolezza delle decine di altri che grazie a lui continuarono a vivere fu la sua consolazione fino alla morte, il 6 luglio 1977.
Cinquant'anni dopo quell'ordinazione episcopale - che consegnava lui, magentino di origine, alla Chiesa di Milano come vescovo ausiliare - e sessantasei dai terribili avvenimenti che lo videro coraggioso protagonista, il memoriale Yad Vashem lo scorso giugno ha iscritto il suo nome nel novero dei "Giusti tra le Nazioni", la più alta onorificenza dello Stato di Israele, attribuita ai non ebrei che si prodigarono per la salvezza degli ebrei durante la Shoah.
A ripercorrere le drammatiche vicende vissute nella Roma occupata dai nazisti e l'eroica azione del sacerdote è Lionello Tagliaferri nel libro Il Papa lo vuole... (Piacenza, Berti, 2011, pagine 239, euro 15). Ed è stato proprio Tagliaferri, dopo aver appreso e ricostruito i fatti grazie anche all'acquisizione dei diari di monsignor Bertoglio e del seminario, a rintracciare alcuni ebrei sopravvissuti - Giovanni Astrologo e Angelo Perugia - sollecitandoli a scrivere a Yad Vashem.
Dal libro di Tagliaferri - significativamente sottotitolato "Le direttive di Pio XII e gli ebrei romani salvati dal Pontificio Seminario Lombardo" - emerge che nell'edificio vicino alla Basilica di Santa Maria Maggiore trovarono rifugio anche altri perseguitati, ovvero renitenti alla leva, ex soldati e ufficiali, comunisti. Un'opera di soccorso ad ampio raggio, dunque, che dava seguito alle disposizioni del Pontefice. Disposizioni che a monsignor Bertoglio erano certo ben note, vista l'amicizia che lo legava all'allora sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, di cui era stato compagno di studi in quel seminario. E d'altra parte più della metà del volume dà conto proprio degli interventi prima di Pio XI e successivamente di Pio XII in favore degli ebrei.
Ma è la sezione dedicata al rettore e al suo operato la più interessante, poiché si tratta di un capitolo finora conosciuto solo parzialmente. Del resto, come l'esperienza insegna, quanti si sono resi protagonisti di azioni di salvataggio di ebrei sono sempre restii a raccontare, non solo per una sorta di pudore, ma soprattutto perché non ritenevano di aver compiuto atti eccezionali, bensì solo quello che andava fatto. E per monsignor Bertoglio - classe 1900 - quello che andava fatto era salvare quanti si rivolgevano a lui senza distinzione di religione e di razza. Cosa che fecero coraggiosamente anche altri sacerdoti e suore, aprendo canoniche e conventi ai perseguitati.
Il primo ingresso di ebrei nel seminario - la famiglia Mieli - il rettore lo annotò il 30 settembre 1943. E da allora fu un continuo arrivare, che mise a dura prova anche le suore della Congregazione della Sacra Famiglia che offrivano il loro servizio al Lombardo. "Io, mia sorella e mia madre - racconta Silvana Mieli in una lettera all'autore - aiutavamo le suore (circa otto) a cucire, a stirare, al guardaroba, a rammendare: mai in cucina". "Le suore - si legge nel diario del Lombardo - tra lavanderia e cucina furono eroiche, e non so come resistettero a tanto. Finivano di lavorare alle 23, 30. E alle 4,30 o 5 erano già in piedi". Fortunatamente dal Vaticano arrivava cibo a sufficienza, almeno per un po'.
Anche l'allora direttore de "L'Osservatore Romano", il conte Giuseppe Dalla Torre, "chiaramente al corrente della strategia vaticana - scrive Tagliaferri - inviò senza indugio un giovane ebreo in cerca d'asilo perché braccato dai nazifascisti". Si tratta del citato Giovanni Astrologo, che si presentò al seminario con il padre e quattro zii.
Nonostante l'assicurazione tedesca che le zone extraterritoriali non sarebbero state oggetto di perquisizioni, monsignor Bertoglio non era tranquillo. Per questo fece affiggere sul portone d'entrata al numero 5 di piazza Santa Maria Maggiore un vistoso avviso in lingua tedesca che segnalava l'extraterritorialità del Lombardo. Non solo. Predispose dei turni di guardia tra gli ospiti - ai maschi tra l'altro fece indossare l'abito talare per confonderli con i seminaristi - e stilò un regolamento per la convivenza quotidiana e uno in caso di emergenza. Soprattutto dispose che fosse allestito un rifugio ben nascosto nel sotterraneo dell'edificio. "Per riguardo agli ebrei - annota l'autore - il rettore fa togliere dagli ambienti a loro destinati le immagini cristiane e dà il proprio appoggio a svariate proposte perché si possano riempire con qualche attività le giornate".
Il 16 ottobre, giorno della razzia nel ghetto, si vissero momenti di grande angoscia per la sorte degli ebrei romani. Nelle tre giornate successive al seminario si registrò l'arrivo di altri 25 clandestini. Un afflusso che continuò anche in seguito. E si trattava in prevalenza di ebrei. Monsignor Bertoglio dovette dunque aggiornare il suo elenco e tra il 24 novembre e 15 dicembre segnò l'arrivo di altre 24 persone. Gli ospiti erano ormai 110. Si era al limite della capienza e il rettore, come si legge nel diario, cercò di "trovare posto per i chierici in un altro istituto religioso, perché il seminario potesse accogliere più ospiti che poteva. Anche due o tre per stanza". "Per mesi - è ancora scritto - il rettore fu a capo di tutto, con un'attività che avrebbe atterrato un elefante. Quanti problemi: annonari, finanziari; quanti rischi e quanta poca rispondenza. Ma fu un esempio che nessuno dimenticò".
C'era un ospite del quale si doveva salvaguardare a tutti i costi l'anonimato. Si trattava di Giovanni Roveda, uno dei fondatori del partito comunista italiano, fuggito dal confino e membro del comitato di liberazione nazionale. Era lui, insieme a ufficiali del Regio Esercito e ad eventuali ebrei, che gli sgherri della famigerata banda Koch cercavano la sera del 21 dicembre 1943 quando fecero irruzione nell'edificio, violandone l'extraterritorialità (cosa che peraltro si ripeté in altre zone appartenenti al Vaticano).
Nelle concitate fasi dell'irruzione monsignor Bertoglio riuscì a prendere tempo, rallentando le perquisizioni e permettendo così la fuga di molti dei clandestini E a don Guerrini di chiamare monsignor Montini, che si sarebbe subito attivato in favore degli arrestati. Tra i catturati c'era anche Roveda. Gli ebrei, invece, riuscirono a nascondersi quasi tutti nel rifugio. Qualcuno dei fermati si salvò all'ultimo momento, grazie alla distrazione delle guardie e alla prontezza delle suore. "Mentre venivano condotti fuori dal refettorio - è riportato nel diario - il professor Mira si chinò e, vista che la mossa era riuscita, si rimpiattò sotto un tavolo. Il colonnello Maraschi, che si trovava ultimo di fila, rallentò e scomparve nella sala da visita. Poi si infilò in cucina, piombò nella cappella delle suore, che tutte congestionate (quanto avevano pianto!) ascoltavano la Messa. Si buttò bocconi ai gradini dell'altare. Le suore, compresa la mossa, unirono i loro due banchetti davanti e fecero una fila sola, in cui parecchie s'inginocchiarono. Nessuno, entrando, avrebbe visto quell'uomo steso".
Anche monsignor Bertoglio venne condotto in commissariato. L'accusa era soprattutto di aver dato ospitalità al comunista e anarchico Roveda. La sua difesa fu semplice, come si legge nel diario: "Prima di essere comunista era uomo bisognoso d'aiuto; la carità non guarda in faccia a nessuno, non guarda alle idee, al colore; domani si sarebbe fatto altrettanto per loro". Venne rilasciato subito. Del resto il 4 gennaio successivo, sottolinea Tagliaferri, monsignor Montini, di fronte all'ambasciatore tedesco von Weizsäcker, "difenderà apertamente l'operato di monsignor Bertoglio nonché quello di ogni altro superiore di casa religiosa e richiamerà con forza il diritto-dovere della Chiesa di accogliere chiunque chiede asilo".
Mentre il rettore e gli altri fermati erano al commissariato, i clandestini del seminario riuscirono a lasciare l'edificio. Li aiutò anche un contrattempo: l'auto che avrebbe dovuto riportare i poliziotti per un ulteriore controllo non partì. Per aggiustarla occorse mezz'ora: un tempo che significò per molti la salvezza. "Le suore - racconta Angelo Perugia - diedero a me, a mio cognato e a mio cugino un vestito da prete e un Vangelo. E pensare che io ero magrissimo e la tonaca mi stava enorme. Avevo le pantofole ai piedi, eppure, presi dalla disperazione, siamo passati davanti ai tedeschi che pattugliavano piazza Santa Maria Maggiore e abbiamo preso di corsa un tram che passava davanti".
Nei giorni successivi monsignor Bertoglio si adoperò per trovare un'altra sistemazione ai suoi ex ospiti, sempre in strutture religiose. Giovanni Astrologo trovò rifugio nella parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro. Altri vennero nascosti nel convento della Basilica di S. Paolo fuori le Mura, altri ancora nel collegio femminile tenuto da suore francesi a Porta Pinciana. Qualcuno si ripresentò al Lombardo. Poi arrivarono gli Alleati. Si tornò lentamente alla normalità. Monsignor Bertoglio ricominciò a fare il rettore. Ma gli ebrei che grazie a lui si erano salvati non lo dimenticarono mai.
Autore: Gaetano Vallini
Fonte:
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Osservatore Romano
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