Ivan Pavletic nacque il 25 giugno 1864 sulle sponde del fiume Ilova a Zbegovaˇca (Croazia), terra di eroi difensori della fede cattolica e della patria.
Battezzato lo stesso giorno della nascita nella parrocchia di Kutina, diocesi di Zagabria, visse la sua fanciullezza nell’alveo delle più sane tradizioni cattoliche in una famiglia agiata, di prestigio e ricca di fede. A undici anni, nel giro di trenta giorni, perse i genitori. La prova non turbò la sua fede. Lo zio Vincenzo divenne la sua guida e la sorella Rosa, la primogenita, fu per lui la sua seconda mamma. Ebbe un’ambizione grande: studiare medicina.
Comprese però che era pura velleità in una regione senza centri di studio. Dirà nella maturità della sua vita: “Ma si vede bene che il Signore non ha voluto. E ne lo ringrazio infinitamente, perchè a quest’ora chissà dove io sarei. Forse la superbia e l’ambizione mi avrebbe fatto trascurare e perdere la salute dell’anima mia”. Seguì la via obbligata per tutti i ragazzi di quel tempo, in quella regione. Dopo aver frequentato i corsi della scuola popolare, divenne pastorello del piccolo gregge domestico. Il piccolo Ivan passava i giorni in un’amara infinita solitudine, sentendosi attratto da Dio. Si volgeva verso il lontano campanile di Kutina e adorava Gesù nell’Ostia santa che non poteva adorare nella chiesa e... sfogliava il suo libretto di preghiere che portava sempre con sè. Proprio per poter partecipare alla celebrazione dell’Eucaristia tutti i giorni, accettò con gioia la proposta dello zio Vincenzo di imparare il mestiere di calzolaio a Kutina, ove si trasferì, e dove poteva recarsi tutti i giorni a partecipare alla S. Messa. Nacque in lui il sogno di visitare Vienna, la capitale dell’Impero austro-ungarico nel suo pieno splendore politico, culturale e religioso. A 22 anni attraversò la Slovenia e si recò a Graz nella Stiria, territorio austriaco. Qui s’iscrisse nella “Società Cattolica dei giovani operai”, apprezzandone le iniziative religiose, dal momento che era molto riflessivo, amante del silenzio e della preghiera. Nel circolo incontrò un giovane moravo, Alberto Müller, che proveniva da Vienna e pensava di andare a Roma per realizzare la sua vocazione di consacrazione.
Ivan non aveva mai sentito parlare in concreto di vita consacrata a Dio ma, pur senza esperienza di essa, aspirava a realizzare la sua indefinita vocazione di consacrazione. Per questo aveva promesso al Signore di essere casto ritenendo l’amore di Dio come amore esclusivo. Scrisse nel suo libretto di appunti «26 dicembre 1885: Ho fatto il proposito di conservare la castità».
I due giovani trascorsero insieme cinque mesi e la loro amicizia sfociò in un patto per la vita. Ivan disse ad Alberto: «Tu ora parti per Roma, quando avrai trovato “il convento” chiamami».
Alberto fu fedele. Trovò nel quartiere di Trastevere la casa generale dei Figli dell’Immacolata Concezione e vi si stabilì, accolto dal beato Luigi Monti, fondatore e padre generale della Congregazione, e affascinato dal suo carisma di carità. Alberto si ricordò dell’amico. Fece presente l’aspirazione alla vita consacrata dell’amico Ivan e da Roma giunse la chiamata. Ivan fu veramente di una radicalità evangelica nei suoi propositi. Lasciò tutto in mano ai parenti e partì per Roma, con il proposito fermo di non ritornare più al suo paese. E fu così. Non fu più Vienna la sua meta, ma Roma, la città dei primi cristiani, dei martiri della fede.
Nel 1887 aveva 23 anni quando si presentò nell’ospedale di Santo Spirito in Sassia. Il Monti si accorse subito di aver accolto un giovane di ottime virtù e alla vestizione dell’abito lo segnò con il nome di Bonifacio, in ricordo di Fr. Bonifacio Junker, religioso tedesco, da poco morto in concetto di santità, dopo solo cinque anni di vita consacrata.
Furono dieci gli anni di vita religiosa di Bonifacio, tutti trascorsi in Italia. Anni di gioventù dedicati a Dio e al prossimo. Morì a trentatré anni a Roma, nella casa da dove era partita la chiamata di Dio. Qui avvertì anche l’ultimo appello: vivere tra i santi nella visione di Dio. Come religioso testimoniò l’amore di Dio, essenza della santità. Iniziò nell’ospedale di Santo Spirito. Mentre studiava la spiritualità del carisma caritativo di p. Monti, accudiva ai servizi generali della comunità. La notte, espletava un turno nell’ospedale ove facevano capo pazienti affetti da tutte le patologie. Dal momento che serviva alla comunità un calzolaio, fu invitato a perfezionare il suo mestiere da un esperto in materia. Umilmente obbedì. Come tale fu mandato a Saronno per essere lui maestro professionale di calzoleria agli orfani. Con la sua arte istillava in quei giovani la fede, l’amore e tanta speranza per il futuro. Ritornò a Roma, chiamato a vivere con le giovani reclute della Congregazione. Il testo delle Costituzioni era facile ad essere studiato, difficile a viverlo. Il Fondatore pose davanti ai novizi Bonifacio, perché apprendessero a vivere la regola non da farisei, non da conformisti apatici, ma da amanti di Dio Santo, che vuole tutti santi, che sanno anche nel piccolo dare gloria a Dio. Aveva 30 anni quando si scoprì la patologia, una tubercolosi polmonare laringea, che lo portò alla morte, dopo tre anni di sofferenza. Bonifacio continuò la sua testimonianza di amore nella comunità dei novizi, come se nulla fosse. Sempre presente, adoratore del Sacramento dell’Eucaristia, obbedientissimo alle Costituzioni, la “Magna Charta” della sua vita. La Regola era diventata in lui la forma di vita. In essa vedeva la volontà di Dio, fonte della sua serenità interiore. Bonifacio può dirsi a ragione un autentico modello di vita evangelica per i giovani: fu forte nelle prove della vita, perseverante negli ideali, umile lavoratore nella gioia di dare un servizio, fedele al carisma di carità. Egli è stato un vero adoratore di Dio e della sua volontà. Seppe trasmettere costantemente ai giovani e ai giovani religiosi la sua tensione spirituale verso Dio. Una tensione che gli aveva dato tanta gioia, fino al giorno della sua morte, avvenuta in Roma il 4 novembre 1897. Così scriveva allo zio otto mesi prima della morte, pur straziato dalla malattia che non gli permetteva neppure di esprimersi: «Voi non vi potete immaginare quanto sono contento di stare qui nel convento. Iddio mi ha dato la gran grazia, e ne sia ringraziato».
Parole che valgono un testamento spirituale che supera il tempo.
Fonte:
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www.padremontisud.it
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