Mattia Magnolini nacque ad Artogne, un piccolo comune della bassa Valle Camonica tra il lago d’Iseo e il fiume Oglio, il 4 dicembre del 1904 da Domenico e Maria. La loro era una famiglia semplice, povera a tratti, come del resto era per tutti la regola della vita rurale valligiana dell’epoca, ma profondamente e saldamente cristiana. Due giorni dopo la nascita, fu portato al sacro fonte e gli fece da padrino lo zio materno Girolamo a cui Mattia porterà sempre grande venerazione. All’età di nove anni aveva già concluso la sua carriera scolastica perché nel paesello non v’era che la terza elementare e da subito si dedicò al duro lavoro della campagna per lo più conducendo al pascolo le bestie come la maggior parte dei suoi coetanei. Ricevuta la prima Comunione venne ammesso al catechismo e tra i chierichetti seguito dall’attenzione e la crescente ammirazione del parroco per la devozione con cui imparava la dottrina cristiana e serviva all’altare del Signore. A dodici anni, dopo un fugace incontro avvenuto sul sagrato della chiesa con i chierici del Seminario presenti per qualche motivo in parrocchia, manifestò per la prima volta la sua intenzione: “Mamma, voglio andar prete anch’io!”. Ma almeno due difficoltà si frapponevano: anzitutto le condizioni economiche della famiglia che richiedevano il suo impegno nel lavoro e comunque non avrebbero mai permesso di mantenere un figlio studente e, in seconda battuta, il fatto che non avesse frequentato oltre la terza elementare, livello insufficiente per essere ammesso al liceo. La Provvidenza, però, non tardò a manifestarsi, infatti proprio in quell’anno venne istituita ad Artogne la quarta elementare e per quanto riguarda le questioni economiche il parroco, venuto a sapere dell’intenzione di quel ragazzo così ben disposto, decise di accollarsene il peso.
Grazie alla buona e semplice maestra che sapeva dare alle aride nozioni una luce spirituale, Mattia si entusiasmava sempre di più e si rivelava ogni giorno di più un cercatore di grandi verità. I compagni di scuola ne subivano naturalmente il fascino e ne riconoscevano la superiorità morale, caratteristiche che egli trasmetteva con calma contagiosa e sorridente, senza supponenza. Nello stesso anno un grave lutto colpì la famiglia allorché il fratello Emilio morì cadendo da un palo della luce elettrica. Nel suo animo sensibile questa esperienza lasciò un profondo solco ma nel contempo lo confermò nel suo proposito accrescendo in lui la nostalgia della vita vera anche a partire dalla constatazione della precarietà di quella attuale. Nonostante la disgrazia e il lavoro che non aveva mai abbandonato concluse la quarta elementare, frequentò presso il parroco la prima e la seconda ginnasiale e fu presentato in seminario per l’esame di ammissione alla terza che superò brillantemente. Presentandolo al rettore, don Luigi Corti gli disse: “Affido a lei un giovanetto di una pietà, di una virtù e di una capacità del tutto singolari”. Mattia non era ancora stato cresimato in quanto il vescovo mons. Giacomo Corna Pellegrini Spandre era stato ad Artogne proprio l’anno della sua nascita mentre il successore mons. Giacinto Gaggia che aveva stabilito la visita pastorale per l’anno 1914 ma scoppiata la guerra mondiale era stato costretto a sospenderla non poté recarvisi che nel 1921. Mattia aveva già sedici anni e si trovò per combinazione a casa per le feste pasquali. Fu così che prima di cresimare gli altri il Vescovo si voltò sorridente al suo caudatario e lo segnò in fronte confermandolo con il sacro crisma. Infine, superate con facilità le classi del ginnasio, venne trattenuto nel seminario minore per aiutare i superiori come prefetto dei più piccoli. Eccellente negli studi, i superiori lo destinarono ben presto a Roma per completare il corso presso il Seminario Lombardo ma chiese di esserne dispensato per non allontanarsi dai genitori.
I superiori lo ricordano così: semplice, umile, sorridente, qualche volta anche pensoso ma sempre in modo intelligente e simpatico, in ricreazione giocava e sapeva essere molto divertente ma mai vuoto o volgare; se poteva volgere appena il discorso su cose sante il suo volto si illuminava; la meditazione era per lui la materia principale e sono parecchi i quaderni su cui annotava i desideri e le ansie del suo spirito a partire ogni giorno da un versetto del Vangelo. I pensieri dominanti erano la sua pochezza, la sua incorrispondenza alle grazie, i suoi difetti, l’amore di Gesù, l’amore delle anime. Si trova in un quaderno anche una bella rappresentazione grafica della grazia con cui egli intendeva illustrare il principio secondo cui chi accetta il primo germe di grazia accetta il principio di una serie indefinita di grazie che il Signore si impegna a fargli, chi non l’accetta è come chi calpesta il primo seme che avrebbe dato origine ad infiniti altri. Tra le cose più importanti Mattia riteneva le regole del seminario senza però esserne un osservatore meccanico e pedante; sempre secondo la testimonianza dei superiori, egli le viveva, si trasformavano in lui e si svolgevano armonicamente come un appassionato ritmo musicale, non era artificio, era naturalezza, era poesia. Un giorno consegnò il suo taccuino al padre spirituale affinché lo conoscesse a fondo e potesse veramente dirigerne l’anima. Dalle riflessioni che vi annotava si evince che certamente puntava in alto: “Anima pigra e dissipata scuotiti un po’, ama, unisciti a Gesù, raccogliti, medita. Dio ti ha tratto dal nulla per la sua gloria. Getta lungi da te il mantello di terra pesante che ti avvolge, che ti soffoca, e allora respirerai a pieni polmoni e sarai più spedito per le ascesi alle vette”. Per quanto riguarda il suo ideale di sacerdote era piuttosto determinato: “La cosa più ripugnante a vedersi, dopo il diavolo, è il prete senza pietà”. Riguardo alle notizie che dal mondo penetravano in seminario cercava sempre di trarne un pensiero spirituale, per esempio: “Oggi il Norge ha puntato verso il polo. La gente lo segue con occhi stupiti. Ma polum in latino vuol dire cielo. Non guardate verso un polo di ghiaccio, squallido e morto, guardate verso il polo celeste, verso Dio, è quello che dobbiamo conquistare”. Si interessava invece con viva passione alle vicende tristi e gioiose della Chiesa pregando intensamente per esse e soprattutto alle parole del Papa. Inoltre, una profonda e radicata umiltà percorre tutti questi scritti, Mattia non nascondeva falsamente i talenti che Dio gli aveva posto tra le mani, lui che scriveva di sé: “Sono nato con le mani aperte per ricevere i doni di Gesù ed egli me li ha dati i suoi doni perché li trafficassi”; li riconosceva ma al contempo era consapevole che più che doni sono dei pegni di cui un giorno gli sarebbe stato chiesto conto e continuamente accresceva l’impegno per metterli a frutto: “Mi pare di aver fatto un po’ di progresso, eppure, se penso a quello che potevo fare di più, mi assale lo spavento”. Con l’ardore giovanile ma la lucidità e la profondità dell’età adulta chiedeva a Dio l’amore: “Dammi la generosità di assoggettarmi ad una morte continua, ad un martirio lento, per farti vedere almeno il desiderio che ho di amarti”. Con un ragionamento apparentemente semplice e lineare ma per chiunque difficile da vivere, scrisse che: “Se fosse lecita l’invidia io invidierei proprio coloro che soffrono. Ciò che Iddio scelse con la sua scienza divina, quello è prezioso. Dunque Gesù scelse i patimenti. Ecco perché Dio da in dono a chi ama i suoi patimenti”.
Durante le vacanze studiava e pregava ma non si esimeva dall’aiutare ancora la famiglia nel duro lavoro dei campi, della stalla, della raccolta delle castagne, lavoro che faceva nelle ore più calde del giorno perché riservava il fresco della mattina per la preghiera e lo studio. Le sorelle ricordano che a volte, incuriosite, gli chiedevano che cosa studiasse e si dicevano desiderose di ascoltare un sua predica, lui allora saliva una sedia e incominciava ridendo ma poi si faceva sempre più serio e diceva sempre qualche pensiero che riusciva ad appassionarle nell’anima. Devoto, tanto che i ragazzi di Artogne dicevano, guardandolo, di aver capito cosa fosse un santo, era anche sveglio e intelligente sicché un giorno, desideroso di entrare nella piccola chiesetta dedicata alla Madonna che sorgeva a pochi passi da casa si ingegnò fino a scoprire che la chiave del pollaio apriva anche la porta della chiesa e senza essere visto da nessuno ogni giorno vi andava per cantare l’ufficio della Madonna. Sospirava queste vacanze come prova dell’esercizio della virtù in quanto riteneva troppo facile praticarla in un ambiente protetto come il Seminario, ma poi nei suoi appunti spirituali anche di esso scriveva di desiderare rientrarvi al più presto per fare “tutte le cose comuni e in comunità ma non comunemente”. Questa preparazione gli valse anche il passaggio indenne da un’esperienza che avrebbe potuto essere traumatica per un ragazzo nato in un piccolo paesello e cresciuto in un ambiente come quello del seminario: il servizio militare che fu chiamato a svolgere lontano, a Udine. E invece anche in quel frangente si comportò sempre in modo esemplare facendosi amare dagli ufficiali e dai commilitoni, assistendo spiritualmente e materialmente i soldati e coltivando la sua vita di pietà tanto che rientrò a Brescia con lettere di encomio da parte del rettore del seminario e dell’Arcivescovo. Nel frattempo aveva ricevuto gli ordini minori e la meta del’ordinazione presbiterale si avvicinava. Parlava spesso del calice per la sua prima messa ma poi aggiungeva: “Il paramento più prezioso della prima messa deve essere la santità”. Descrivendo poi il camice della stessa occasione si lanciava immediatamente in un pensiero spirituale: “Tu, o purezza, sei la tela candida e luminosa su cui dovrò ricamare tutte le altre virtù”. Come San Filippo Neri, gli altri grandi mistici e al contrario di ciò che capita comunemente, spesso aveva bisogno di essere distratto dalla meditazione; chiese un giorno al superiore durante la malattia: “mi stia sempre vicino, mi distragga un poco, perché la mia mente è sempre assorta in cose così belle e così sublimi che mi commuovono. Però sono calmo e sereno, una cosa sola mi preme, il Paradiso”.
Due mesi prima della morte, l’antivigilia degli esercizi spirituali, si recò dal padre spirituale dicendo: “Domattina alle Grazie (cioè il santuario diocesano di Santa Maria delle Grazie) io vorrei fare a Gesù e a Maria il sacrificio della mia vita per la santificazione dei chierici …” e ne nominò alcuni della prima classe ginnasiale di cui era prefetto. Alla preoccupazione del sacerdote, il quale lo mise in guardia dicendo che il Signore avrebbe potuto davvero prenderlo in parola, non sembrò turbarsi ma al contrario esultare. E il Signore lo prese davvero in parola. Dal giorno dell’Epifania Mattia si mise a letto, aveva la parte principale in una recita natalizia ma nonostante la cosa gli piacesse molto non poté partecipare. Anche la sollecitudine del rettore che chiamò al suo capezzale i migliori medici della città non valse a nulla. Un’intossicazione del sangue lo fece precipitare nel delirio, salvo qualche breve momento di lucidità. Accorsero nel frattempo anche i genitori, mentre tutti i chierici si alternavano nel fare l’ora di adorazione per accompagnarlo nel migliore dei modi in questo passaggio. Mattia, nonostante l’accettazione piena e consapevole della morte come consumazione della sua immolazione per le anime, sentiva il dolore del distacco soprattutto per un debito di riconoscenza verso coloro che avevano fatto tanti sacrifici materiali e spirituali per permettergli di intraprendere il cammino verso il sacerdozio. Disse alla madre l’ultimo giorno: “Grazie mamma, grazie di quanto avete fatto per me per fare di me un cristiano e un prete. Oggi muoio ma voi verrete con me”. Il male peggiorava di ora in ora ma ebbe la grazia di confessarsi e comunicarsi. Durante il ringraziamento, gridava: “Offro la mia vita perché i superiori si santifichino ed abbiano a santificare i chierici. Voglio tutti santi, tutti, tutti. Offro la mia vita alla Santa Trinità, a Maria Santissima, a tutti i santi per i chierici di tutto il mondo. L’anima è grande, le anime sono preziose, Gesù lo merita”. Mattia morì il 28 gennaio del 1929 all’età di 24 anni sigillando il progetto di vita che aveva formulato negli anni di seminario: “In ciò che riguarda Dio, soffrire e offrire; in ciò che riguarda gli altri, donarmi e diffondermi; in ciò che riguarda me, tacere e dimenticarmi. Amare per quelli che odiano, soffrire per quelli che godono, dare me stesso per quelli che si risparmiano. Pensare è bene, pregare è meglio, soffrire è tutto”. Portò così all’altare di Dio la sua offerta: “Accettami, o Gesù, quale vittima di amore, fammi morire, o Gesù, con la tua grazia perché tu sia conosciuto ed amato da tutti”.
Durante il funerale, il rettore del seminario rivolse queste parole ai numerosissimi fedeli presenti: “Ascoltate la voce del vostro concittadino che tanto avete amato, egli non vuole solo lacrime e preghiere, vuole che gli promettiate di imitarne le virtù”. E il primo frutto del suo buon esempio nella virtù fu proprio per la madre, la quale scrisse per tutte le madri d’Italia: “La sua morte mi ha spezzato il cuore, le lacrime sono diventate il mio pane quotidiano, ma lo devo confessare, mi hanno lasciato insieme una tale robustezza di spirito che mi sentirei disposta, con al grazia del Signore, a sacrificare anche un secondo figlio se l’avessi nello stesso modo e se tale fosse la volontà di Colui che è il padrone della vita”.
Autore: Emanuele Borserini
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