Nacque a Soria, capitale della provincia omonima, diocesi di Osma-Soria, l’8 febbraio 1888. Faceva parte di una famiglia di sei figli. Fece i suoi primi voti nella Congregazione dei Missionari Oblati il 16 luglio 1906 nel convento di Urnieta (Guipúzcoa). Nel 1911 andò a Torino (Italia) e lì completò gli studi ecclesiastici e ricevette gli Ordini Sacri che culminarono con il Presbiteriato il 29 giugno 1912. L’anno seguente entrò, come professore, nella Comunità del Seminario Minore di Urnieta, dove resterà fino al 1929.
In quell’anno fu mandato a Las Arenas (Vizcaya) come aiutante del Maestro dei Novizi. Un anno dopo, nel 1930, ritorna a Urnieta come Superiore; continua a fare il professore, prima nelle vesti di Superiore e, due anni dopo, anche come Provinciale, carica per le quale fu eletto nel 1932. Nel 1935 trasferì la propria residenza a Madrid, nella casa che era già degli oblati in calle de Diego de León. Lì ospitò, da buon pastore, un gruppo di Oblati che, detenuti nella loro Comunità di Pozuelo de Alarcón e portati poi alla Direzione Generale di Sicurezza, furono messi in libertà il 25 luglio 1936. Con loro e con quelli che già stavano con lui nella Comunità, patì le ansie della persecuzione religiosa a Madrid e la sperimentò direttamente quando il 9 agosto 1936 fu obbligato ad andarsene, con i suoi fratelli Oblati, dalla sua stessa Comunità di Diego de León. Con loro si andò a rifugiare in una pensione in calle Carrera de San Jerónimo. Il 15 ottobre fu arrestato e il 28 novembre divenne martire con altri dodici Oblati in Paracuellos de Jarama. Stava per compiere cinquant’anni. (Estratto del Processo diocesano).
La famiglia di P. Francisco Esteban
“Sono la nipote del Servo di Dio Francisco Esteban. Conoscevo mio zio da sempre perché veniva a trovarci a Madrid dove la mia famiglia aveva un negozio. In estate, la mia famiglia si trasferiva a San Sebastián (Guipúzcoa) ed eravamo soliti far visita a mio zio che stava ad Urnieta. Posso dire di aver passato molto tempo con lui. Stando a Pozuelo, mio padre ci portava a far visita allo zio Francisco. I genitori del Servo di Dio si chiamavano Santiago e Dámasa. Mio nonno era una Guardia Civile. La famiglia era composta da cinque figli. Stando ai suoi figli, che furono cattolici praticanti, l’ambiente familiare sarebbe stato profondamente religioso. La relazione del Servo di Dio con la sua famiglia era molto buona. I suoi fratelli vennero a vivere a Madrid e questo gli rendeva più semplice avere una relazione frequente con la sua famiglia. Molte volte nella mia famiglia, prima di qualche problema di discrepanze nella famiglia stessa, si diceva che se ci fosse stato lì lo “zio Paco”, come lo chiamavamo in famiglia, non ci sarebbero state discordie. Il ministero apostolico svolto da mio zio durante il periodo 1935-36 era quello di Provinciale della Provincia Spagnola dei Missionari Oblati. Mio padre si mostrava molto orgoglioso del fatto che suo figlio fosse Provinciale. Fra le sue virtù, sottolineava sempre la semplicità. Non gli piaceva ostentare niente, anche se nella mia famiglia era considerato come una personalità importante.
Sull’ambiente che regnava nel luglio del 1936 a Madrid, posso dire come fatto concreto che io, che avevo 17 anni, venivo fermata da quelli della Casa del Popolo, nel quartiere di Tetuán, quando andavo alla messa, chiedendomi dove andavo, e io rispondevo che andavo alla messa. Mi dicevano che non dovevo andarci e io gli rispondevo a tono. In tali circostanze a metà luglio del 1936, e per com’era pericolosa la situazione, mio padre decise di anticipare il viaggio a Santander, dicendo a mia madre che preparasse tutte le cose perché “domani ce ne andiamo”. Mio zio venne a trovarci e ricordo che mio padre gli chiedeva perché non veniva con noi, perché per come si stavano mettendo le cose poteva succedergli qualcosa di brutto. Mio zio gli rispose di no, perché la sua responsabilità era quella di stare qui con i suoi e che non doveva pensare a se stesso ma agli altri. Ricordo che si abbracciarono e che noi lo salutammo con un bacio. Tanto mio zio quanto mio padre pens avano che quello che stava per succedere sarebbe durato pochi giorni e che sarebbe stata una cosa senza altre conseguenze. Ricordo anche che mio padre gli diceva di togliersi la tonaca, ma lui rifiutò sempre di farlo. Per di più la tonaca aveva nella cintura il grande crocifisso degli Oblati“.
Juana Esteban
Un’altra nipote testimonia: “Per quello che ho letto, fu arrestato il 15 ottobre 1936 con altri Oblati. Seppi da mia zia che venne portato al carcere Modelo. Riguardo al carcere le uniche cose che so per certo è che avevano paura, perché leggevano una lista con i nomi di quelli che uccidevano indiscriminatamente, e che avevano fame e freddo. Concretamente uno dei sopravvissuti mi raccontò che una persona, che si scoprì essere una religiosa della Sacra Famiglia di Bordeaux, portò un cappotto a mio zio. Lui, vedendo che un compagno di prigione aveva freddo, gli diede il proprio cappotto. Ho anche sentito che erano soliti recitare il rosario di nascosto quando camminavano nel cortile o nelle celle”.
Teresa Esteban Berredero
Comincia il Calvario
“Dal primo momento in cui fummo arrestati, in ognuno di noi c’era la consapevolezza che saremmo stati assassinati per il fatto di essere religiosi. Dentro di noi, l’unica cosa che aveva significato era lo spirito del perdono, da una parte, e dall’altra il desiderio di offrire la vita per la Chiesa, per la pace della Spagna e per gli stessi che pensavamo che ci avrebbero fucilato. L’unico motivo che ci guidava era soprannaturale, anche perché umanamente avevamo perso tutto. Eravamo coscienti del fatto che se ci uccidevano era per odio verso la fede cristiana”.
P. Felipe Díez Rodríguez, OMI, sopravvissuto
Dall’espulsione dal Convento, e una volta portati alla Direzione Generale della Sicurezza, dopo una breve dichiarazione vennero tutti messi in libertà. Seguendo le indicazioni dei superiori, ognuno cercò rifugio in case private di familiari o conoscenti, restando in questa situazione fino al mese di ottobre del 1936. Durante questo periodo, tanto Padre Esteban, quanto Padre Blanco e Padre José Vega, rischiando le proprie vite, facevano visita agli scolastici di nascosto, incoraggiandoli nella loro fede e negli impegni religiosi. Come fatto concreto, ricordo di aver sentito Padre Porfirio che il 12 ottobre, festa di Nostra Signora del Pilar, patrona dello Scolasticato, si riunivano alcuni dei Servi di Dio, e che dopo aver passato molte ore in adorazione del Santissimo, che tenevano nascosto, al calar della sera dicevano come sarebbe stato il Viatico.
Stavano arrestando a poco a poco tutti i Servi di Dio e li stavano rinchiudendo nel carcere Modelo, ed è precisamente lì, nella disgrazia, che, esprimendo in maniera chiara le proprie profonde convinzioni evangeliche, si incoraggiavano a vicenda e incoraggiavano anche altri. Tutto ciò, per quanto gli era permesso, con la preghiera e l’esperienza dei maltrattamenti e delle umiliazioni delle quali erano oggetto, con spirito di fede. Tenendo conto che nel mese di novembre a Madrid il clima, a volte, è freddo, nel carcere faceva moltissimo freddo perché non avevano neanche un misero cappotto, e il poco che avevano lo condividevano con altri che sembravano averne più bisogno. Ricordo che Padre Francisco Esteban regalò il proprio cappotto a uno dei suoi compagni di prigione. Oltre al freddo, “compagni” di prigione erano anche la fame e i parassiti, perché l’igiene era quasi inesistente.
Tutto questo l’ho saputo in un modo molto particolare da uno che fu testimone sopravvissuto ai fatti, mio fratello, Jesús, o.m.i.
Autore: P. Fortunato Alonso, OMI
Fonte:
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www.martiripozuelo.wordpress.com
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