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Massimo Ghio Giovane laico

Festa: Testimoni

Broni, Pavia, 28 ottobre 1965 - 26 agosto 1996


“Strongly recommended”
Così era scritto nel suo curriculum di volontario della Croce Rossa Internazionale: fortemente raccomandato!
Si era certamente fatto ben volere, Massimo Ghio, e aveva dato prova di una dedizione unica al suo impegno umanitario e cristiano, tanto da meritarsi una tale presentazione presso i superiori di tanta benemerita organizzazione sovranazionale. E non è così facile ritrovare la stessa identificazione per altri delegati.
Se si fosse presentata altra occasione per future missioni nei paesi più disperati del mondo, per soccorrere persone in difficoltà, Massimo sarebbe stato tra i primi della lista ad essere chiamato, perché non sapeva risparmiarsi.
Le sue esperienze di soccorso internazionale, prima in Albania, per tre mesi, e poi a Goma nello Zaire, nel campo profughi creatosi in occasione della guerra fratricida in Rwanda, erano l’esplicita garanzia che lui aveva messo al primo posto nella sua vita la donazione agli altri.
La sua eccezionale disponibilità per le situazioni più disagiate e urgenti in ogni capo del mondo, era stata notata persino a più alti livelli, tanto da essere contattato dall’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU, per un possibile prossimo impegno in tale organismo.
Era sempre stato così lui, l’aveva assunto come stile di vita: quello di mettere davanti alle proprie esigenze quelle del prossimo, di quanti avevano bisogno di una mano, di un soccorso, di un aiuto.
Ma non lo faceva per una gloria personale, per diventare famoso. E neppure per un vago senso di pura umanità. Spiega il suo amico Marco che lo faceva spinto dalla sua fede: “Quando partiva non era semplicemente per “fare del bene”: in chi soffriva vedeva Cristo. La sua era una fede mai sbandierata, ma certamente lui era un testimone”.

Figlio di commercianti

Massimo nacque a Broni, in provincia di Pavia, il 28 ottobre 1965, ma le sue origini non erano lombarde.
I genitori infatti si erano trasferiti da poco nella zona dell’oltrepò pavese a motivo del lavoro. Provenivano dalle montagne cuneesi, e precisamente dalla borgata di Moschieres, nel comune di Dronero.
Questo dà da pensare che i primi anni dopo il cambio di residenza non siano stati certo facili. Massimo crebbe, insieme al fratello Angelo, di qualche anno più giovane, e al cugino Daniele, ‘adottato’ dalla famiglia perché orfano in tenera età, imparando presto che la vita bisognava guadagnarsela.
I suoi genitori erano commercianti, persone di fatica, gente che non si perdeva tanto in chiacchiere, piuttosto taciturni, anche se allegri, proprio come sarà Massimo da adulto; abituati all’azione più che ai grandi discorsi.
Per questo se la sua infanzia è stata serena come per tanti suoi coetanei, si deve sottolineare che gli esempi di famiglia ne forgiarono un carattere molto forte, una personalità decisa, per niente amante delle mezze misure.
A Broni Massimo frequentò le scuole elementari, le medie e il liceo scientifico. E partecipò assiduamente anche alle iniziative parrocchiali, dove consolidò quella fede che aveva appreso in famiglia e che diverrà il sostegno della sua vita nei momenti difficili, sebbene sempre libera da forme esteriori appariscenti.
Simpatica l’immagine che Jean-Marie usa per ricordarlo: riandando con la memoria agli immancabili ritrovi del sabato, quando giocavano insieme a calcio sul polveroso campo di terra battuta dell’oratorio parrocchiale, l’amico ci dice che Massimo era uno di quelli “convinti che la partita si può sempre vincere, anche quando si sta perdendo quattro a zero!”.

“Qualcosa di creativo!”
Fisicamente gli amici lo descrivono “altissimo, magrissimo e allampanato” sebbene, quanto a mangiare, non si tirasse mai indietro, come ogni giovane pieno di vita e che non sta fermo un attimo.
Massimo era appassionato di ogni cosa a cui metteva mano, anche se talvolta sembravano imprese impossibili.
Lo faceva con la massima precisione possibile.
Estroverso al punto giusto, cercava in ogni ambito qualche cosa di originale, di nuovo, di unico. Se andava al cinema era per vedere films soprattutto d’avanguardia; nel leggere ampliava i suoi interessi a 360 gradi, interessandosi di ogni forma di cultura e arrivando a leggere persino fumetti israeliani; per quanto riguarda la musica, oltre ad avere un mito in Paolo Conte, arrivava ad ascoltare con piacere anche la musica araba; nell’ambito sportivo era interessato soprattutto del calcio, anche se non era particolarmente dotato nel praticarlo.
Per lui ogni incontro era importante per fare nuove amicizie, per conoscere nuove persone e far scambio del proprio bagaglio soprattutto interiore. Aveva per questo amici in tutta Italia, perché conosciuti ad un certo congresso o ad un concerto, durante una mostra o in vacanza.
Per questa sua poliedricità si spinse persino a Parigi con la sua scassata Renault4, dove aveva sentito dire - chissà dove? - esserci una rassegna di film irlandesi. E il bello era che non lo faceva da solo, ma cercava sempre di coinvolgere i suoi amici, anche con dieci telefonate al giorno (e per fortuna non erano ancora diffusi i cellulari!), fino a quando non otteneva un consenso. La sua vitalità era assolutamente coinvolgente e irresistibile.
Giunto ai diciott’anni, a chi gli chiedeva che cosa avrebbe fatto da grande, rispondeva: “Qualcosa di creativo!”.

“La miglior scuola di vita”
Appena raggiunta l’età dei quattordici anni, con la capacità di spingere le barelle degli ammalati, papà Michele cominciò a portare suo figlio ogni anno con l’Oftal (corrispettivo locale della più diffusa Unitalsi) a Lourdes.
Fu per lui veramente una lezione fondamentale che lo segnerà per tutte le scelte che dovrà fare in futuro. Arrivò infatti a dire che “portare i malati a Lourdes era la migliore scuola di vita, in quanto si tornava arricchiti immensamente”.
Quando raggiunse la maggiore età trovò logico entrare nella Croce Rossa di Stradella, una cittadina a pochi chilometri da Broni, come Volontario del Soccorso. Lì fa’ carriera fino a diventare Presidente del locale comitato ed una figura di primissimo piano a livello nazionale. Come aveva imparato dall’esempio del padre, si prodiga per i più bisognosi: assiste i feriti, i malati e gli anziani, trasportandoli in ambulanza.
Sempre con serietà e umanità. Sempre con fede, perché in ogni persona sofferente sapeva vedere il Cristo sofferente. Questo spiega il perché fosse sempre pronto a qualsiasi chiamata, anche nell’ora più inopportuna.
Marco Passantino, delegato della CRI lo ricorda così: “Un umilissimo ragazzo che non temeva di sporcarsi le mani per aiutare il prossimo; anche a rischio della propria vita, Massimo non si tirava mai indietro dove si poteva aiutare il prossimo”.
Per questo davanti a chi faceva mille discriminazioni con i bisognosi lui non riusciva proprio a capire le ragioni. Continua Passantino: “Quante delusioni deve aver passto e quanto difficile era per lui accettare decisioni politiche dei suoi superiori che sfuggivano alla sua fede di Volontario puro, e non semplicemente una persona che svolge una professione come un’altra”.

“Almeno tu smettila!”

L’amico don Maurizio Ceriani l’aveva conosciuto in un camposcuola, quando entrambi avevano sui quindici anni. Stavano cercando in quei giorni di svago e di riflessione quale fosse il progetto da realizzare nella loro vita. Pur impegnati ambedue sulla strada del bene, presero decisioni divergenti, e rimanendo amici, ebbero anche contrasti nel loro modo di giudicare.
Confessa candidamente il sacerdote: “L’ho capito dopo... e anch’io ho fatto parte del coro dei molti che lo invitavano a mettere la sua intelligenza, pari solo al suo cuore, a servizio di se stesso e di un futuro carrieristico, mascherato con i panni della prudenza e del dovere. Qualche volta un po’ sconsolato, mi ha fin detto: “Almeno tu smettila!””.
Mamma Margherita e papà Michele osservavano le scelte del figlio e godevano di vederlo così generoso, ma avevano anche una preoccupazione in cuore: che trovasse il tempo almeno di raggiungere quella laurea in ingegneria che tardava a concretizzarsi.
Finalmente raggiunse anche quel traguardo al Politecnico di Milano, ma questo non fu mai un motivo per mettersi in mostra. In una foto estiva lo si vede, col grembiule addosso, dietro il banco di mercante, a vendere le acciughe.
Qualcuno ha detto di lui che nei suoi trent’anni di vita ha realizzato così tante attività di servizio che sembrano impossibili da contenere in uno spazio di tempo tanto ristretto.
Tenendo conto che studiava, che talvolta dava una mano in famiglia, che si impegnava pure in Parrocchia, nella Caritas e in Oratorio, che coltivava mille interessi giovanili e gli piaceva tantissimo stare con gli amici, si capisce come l’amico prete, decine di volte, gli abbia dato del ‘matto’, ricevendo peraltro in cambio un sorriso!

“Non ho mai chiesto perché”
Delegato della CRI a Goma nel 1994, Massimo non dimenticava mai la Messa quotidiana. In una lettera, ormai sbiaditissima, inviata per fax da Goma, dopo la data si legge ancora nitida una nota: “Dopo la Messa delle 6, 30”.
Prima che scadessero i sei mesi del suo mandato, si sentì male. Forse non vi diede importanza considerando il tanto dolore che vedeva attorno a sè. Di là scriveva agli amici di tutte quelle mani nere dei bambini in litigio fra loro per poter disperatamente afferrare un po’ di riso. Per loro spendeva tutto il suo stipendio.
Al principio i medici gli diagnosticarono un’appendicite e fu operato in Africa per questa urgenza. Ma persistendo il dolore, lo invitarono a tornare in Italia. Non voleva, perché il suo posto era là dove c’era bisogno di soccorso, ma alla fine dovette cedere. Già imbarcato sull’aereo, a chi lo salutava disse: “Torno presto”.
Arrivato in Italia scoprirono che si trattava di un cancro per il quale fecero ben tre interventi, ma non servì a nulla. Durò per due anni. Due anni in cui lui si ostinò a vivere normalmente, quasi non volesse indietreggiare. Gli amici testimoniano: “Non aveva paura di morire, ma sembrava volere lottare fino all’ultimo. Come se fosse un dovere morale... Al pomeriggio della domenica ha convocato noi della CRI di Stradella. È morto la mattina dopo, all’alba. Era il 26 agosto 1996”.
Otto giorni prima di morire, aveva svelato a don Maurizio quanto aveva pensato: “In tutti questi mesi non ho mai chiesto perché: Il Signore ha certamente i suoi buoni motivi”.
Volle fare la sua ultima confessione con un preciso e minuzioso esame di coscienza e chiese l’unzione degli infermi; tutti quelli che lo andarono a trovare sul suo letto di morte partirono rafforzati nella fede.


Autore:
fratel Claudio Campagnola


Fonte:
Nazareth agli adolescenti e agli amici

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Aggiunto/modificato il 2012-09-08

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