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Padre Agostino Borello Sacerdote oratoriano

Festa: Testimoni

Chieri, Torino, 3 marzo 1636 - 12 giugno 1673


Numerosi e antichi manoscritti, inediti, conservati in archivi statali ed ecclesiastici,  rivelano le vicende di un sacerdote oratoriano vissuto nel ‘600, autentico modello di prete morto in concetto di santità, oggi caduto completamente in oblio.
Agostino Borello nacque a Chieri (Torino) il 3 marzo 1636. I genitori, Giovanni e Caterina, lo fecero subito battezzare in casa, la cerimonia nella parrocchia del Duomo si poté fare solo il 19 maggio in quanto il sacro edificio era stato interdetto per un fatto di sangue.
Agostino, fin dall’adolescenza, manifestò doti non comuni: i genitori lo educarono cristianamente ed egli corrispose, incline a pietà e devozione. Aveva sette anni quando in una camera appartata di casa fece un altarino. Poté studiare presso i Minori Conventuali della sua città, un po’ debole di salute a causa dell’asma. Nel 1648, a dodici anni, vestì l’abito clericale, ebbe la tonsura nel settembre 1648 a Torino, presso il palazzo dell’arcivescovo Giulio Cesare Bergera. L’accompagnò la madre, in quanto il padre era malato di gotta. L’arcivescovo, vedendolo così modesto, durante la cerimonia, gli disse che abbandonando le cose terrene, il suo bene più prezioso doveva essere Dio. Ponendogli la mano sul braccio, aggiunse: ”Iddio vi dia sanità perché sarete un grand’uomo”. L’anno successivo cominciò a frequentare il collegio torinese dei Gesuiti che era a fianco della chiesa dei Ss. Martiri. Ebbe un buon compagno, con il quale decise di portare il cilicio e digiunare due o tre volte la settimana. Di Agostino si invaghì una donna, ma il giovane riuscì a resistere. Non lo si vide mai commettere un gesto disonesto, era pudico negli atti e nella parola, come venne poi testimoniato. Ancor giovane fu colpito dall’esperienza della morte di un giovane studente del collegio. 
Licenziatosi in Filosofia, tornò a Chieri e si mise ad insegnare in casa grammatica ad alcuni giovani. Erano una dozzina, numero che scelse in onore degli apostoli. Li seguiva formandoli anche cristianamente, conscio dell’importanza di trasmettere un po’ di istruzione anche ai ragazzi appartenenti a famiglie non abbienti. Con i suoi allievi andava a servire Messa nella vicina chiesa di S. Francesco: quei giovani erano d’esempio a quanti frequentavano un’osteria davanti alla quale ogni giorno dovevano passare. Nuovamente Agostino dovette affrontare “sorella morte”, che questa volta colpì casa sua. Il fratello maggiore venne assassinato e il giovane, superato il dolore, non solo perdonò il colpevole, ma fece in modo che la sua famiglia e quella dell’uccisore si riappacificassero. Ottenne che del perdono si facesse pubblica scrittura.
In quegli anni veniva fondato in Chieri un Oratorio di S. Filippo e fin dai primi tempi Agostino cominciò a frequentarlo, tanto da venire conquistato, in breve tempo, dal carisma filippino. L’idea della fondazione era venuta ad alcuni canonici della Collegiata della Madonna della Scala che, durante un soggiorno a Roma, avevano apprezzato l’opera feconda svolta dai Filippini. Il permesso fu dato il 13 dicembre 1657, con incarico al padre Francesco Amedeo Ormea, nativo di Chieri. Questi mise mano all’impresa su direttive del Bergera, insieme a padre Alessandro Capris e al fratello laico Giovanni Giacomo Todasco. Si stabilirono presso il Santuario dell’Annunziata che dipendeva dalla Collegiata, il cui Capitolo garantì sostegno e collaborazione. Il 29 giugno 1658, al mattino, nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo, si fece una processione dal duomo all’Annunziata. Parteciparono il clero della città, i sindaci, i consiglieri e numeroso popolo. Il Santuario fu tappezzato per l’occasione con stoffe di Fiandra fatte giungere da Torino. Si fece l’esposizione del SS. Sacramento con le Quarantore, con indulgenza plenaria concessa da Papa Alessandro VII. Seguì una novena in onore di S. Filippo. Padre Ormea stette a Chieri sei mesi, poi fece ritorno nel suo Oratorio di Torino.
Agostino Borello fu accolto da padre Salvio, il primo preposito: entrò in congregazione il 14 settembre 1659, il 14 ottobre fu ammesso al noviziato. Ricevette in pochi mesi gli ordini minori. Umile e mansueto, faceva i lavori più semplici, fu esemplare nel rispetto delle costituzioni, serviva più messe nella stessa mattina, puliva la chiesa, faceva il cuoco e il lavapiatti. Per cinque anni i Filippini dimorarono presso l’Annunziata, mentre si pensava all’erezione di una chiesa monumentale dedicata a S. Filippo. Padre Agostino incoraggiò i tre zelanti confratelli che avevano l’incarico di portare avanti l’opera a confidare nella Provvidenza: erano i padri Francesco Antonio Broglia, Francesco Amedeo Ormea e Pompeo Salvio. Quest’ultimo, prima di portare avanti il progetto, chiese consiglio anche ad una clarissa cappuccina torinese, la mistica madre Amedea Vercellone, da cui ricevette un grande incoraggiamento. Il 30 ottobre 1662 padre Broglia subentrò all’incarico di preposito. Nello scegliere il sito per l’edificazione i Filippini ebbero a disposizione diverse soluzioni, ma optarono per il luogo in cui era la casa natale di mons. Michelangelo Broglia, arcivescovo di Vercelli, che aveva a tale scopo destinato cospicue donazioni. Si celebrò la prima messa, nell’erigendo Oratorio piccolo, il 1° maggio 1664. La costruzione della chiesa grande, su disegno dell'architetto luganese Antonio Bettini, sarebbe terminata nel 1673. Fu dedicata all’Immacolata Concezione della Vergine di cui Borello era un fervente devoto.
Ordinato sacerdote, padre Agostino fu sempre zelante nel celebrare il divin sacrificio. Pregava a lungo inginocchiato, con lo sguardo a terra. Frequentava con regolarità, almeno una volta al mese, gli ospedali per confessare gli infermi. Li benediva con il segno della croce, usando una reliquia di S. Filippo. Alcuni attestarono di essere stati da lui miracolati. Visitava e confortava i malati in casa, a tutte le ore, con qualunque condizione di tempo. Non si spaventava se gli veniva segnalato qualche peccatore ritenuto “disperato”. Riuscì a riconciliare con Dio un uomo che risultava insopportabile anche ai suoi di casa e in seguito lo aiutò durante una lunga malattia. Andò costantemente a fargli visita, anche se il viaggio era lungo e disagevole. Lo confortò fino agli ultimi giorni di vita, facendolo accostare ai sacramenti.
Fu un ottimo e ricercato confessore, stava molte ore in chiesa, anche d’inverno, noncurante del freddo. I suoi penitenti erano di ogni ceto sociale, ma ebbe maggiori cure dei più vili: tra questi l’assassino di suo fratello. Fu predicatore di esercizi spirituali, in particolare nei monasteri. Andò anche presso le monache di S. Anastasio di Asti e vi introdusse l’abitudine degli esercizi spirituali annuali. Nel sacramento della penitenza aveva il dono di scrutare i cuori, convinse molti suoi penitenti a cambiar vita, egli stesso faceva mortificazioni per ottenere da Dio la loro conversione. Ciò era risaputo in tutta la città. Aveva il dono di rasserenare le coscienze turbate. Seguì un novizio che non si sentiva degno di diventare sacerdote, lo aiutò, portando a compimento un’impresa tentata invano da altri preti. In questo ebbe per modello il beato Giovenale Ancina, oratoriano, apostolo del confessionale e del pulpito. Padre Agostino ottenne dal suo superiore il permesso di recarsi a confessare nei villaggi dei dintorni di Chieri, dove pochi volevano andare. Per convertire i peccatori, contro ogni rispetto umano, si inginocchiava ai loro piedi presentando un’immagine del crocifisso. Riuscì a sventare un assassinio, giungendo, non si sa bene come, in tempo per evitare il misfatto. L’uomo ebbe una reazione furibonda, ma il sacerdote gli presentò la croce e riuscì a condurlo in chiesa. In seguito, ottenne persino che facesse pace con quella che doveva essere la sua vittima.   Aveva cura dei morti e delle loro esequie: capitò un giorno che un defunto fosse privo delle calze, egli si privò delle sue e tornò a casa a piedi nudi.
Poco più che trentenne padre Borello fu nominato preposito, nonostante le sue rimostranze. Per tre anni fu quindi superiore, ma era il primo a servire i confratelli. Al termine del mandato ebbe quello, altrettanto delicato, di maestro dei novizi. Per tre anni li formò, soprattutto con l’esempio personale; fu apprezzato confessore della sua comunità e di altri religiosi. Padre Francesco Maria da Mondovì, cappuccino, affermò che tutti erano concordi nel pensare che egli, giorno e notte, pregava e predicava per la salute delle anime.
Fu un uomo della carità: non era difficile incontralo con fazzoletti carichi di monete e gioielli, che i benestanti gli davano per i poveri. Dava tutto ciò che poteva in elemosina, con grande rispetto e riservatezza. Un giorno incontrò per le strade di Chieri una giovane ragazza, che veniva dalle campagne in cerca di lavoro. La portò a casa della sorella e dopo qualche giorno riuscì a collocarla a servizio in una casa distinta. Molte volte per aiutare i poveri si privava della pietanza, sempre però col consenso del superiore. Un giorno si fece prestare dai cappuccini il sacco della questua, capitò che desse ai poveri infermi anche la camicia. L’instancabile apostolato non gli faceva però trascurare l’orazione personale. I suoi libri preferiti furono: le meditazioni di p. Ludovico da Ponte, l’Imitazione di Cristo di Tommaso da kempis, le opere del gesuita Alfonso Rodriguez e la vita di S. Filippo. Teneva nascoste le sue penitenze, viveva in una stanza povera con pochi mobili, alcuni libri e un teschio. Distribuiva molte immagini dell’Immacolata, soprattutto agli infermi. Fu devoto delle anime del purgatorio e cercava per loro suffragi, in particolare il mercoledì faceva fare per loro la comunione. Sua figlia spirituale fu Caterina Busso, che morì giovane il 25 gennaio 1668 e fu sepolta in S. Domenico. Fece fare un suo ritratto in cui si scrisse “Cum Christo requies”.
Suoi penitenti furono il Conte Carlo Felice Balbis e il cappuccino Francesco Maria da Mondovì che, nel suo convento, fu tra i primi, un giorno, a sorprenderlo in estasi. Anche il nobile Tommaso Montafia attestò di essere stato presente ad un analogo fenomeno mistico. Fu visto sollevarsi due palmi da terra per tre quarti d’ora. Ciò fu osservato più volte e da diverse persone.
Un giorno capitò a Chieri, per una missione, il gesuita p. Battista Poggi, noto predicatore. Questi chiese una processione penitenziale, cui intervennero i religiosi della città. Padre Borello, che ai tempi aveva cura dell’Oratorio dei secolari, vi partecipò carico di catene di ferro e col capo cinto di spine. Le doti di padre Borello furono note ai Savoia, quando fece domanda al Duca Carlo Emanuele II di andare, come cappellano, nelle valli di Lucerna, a seguito dell’esercito che aveva il compito di controllare le rivolte dei valdesi. La disponibilità non venne poi accolta.
Padre Agostino ebbe un preciso programma di vita, fin da giovane fece la “Pia pratica della buona morte” con una fede profonda nel paradiso. Predisse, con un anno di anticipo, il giorno della sua dipartita. Soffriva di dolori colici e renali, ma cercò di non essere di peso ai confratelli. Andava a letto per obbedienza, quando ormai era sfinito. I medici imposero cure inutili che misero solo alla prova la sua pazienza. Diffusasi in città la notizia che era gravemente ammalato, fu una corsa al capezzale e lui, senza lamentarsi, cercò di dare conforto e consiglio a quanti lo visitavano. Molti lasciavano la sua stanza con le lacrime agli occhi. Stabilì che le sue vesti sarebbero andate ai poveri, ricevette  il viatico e l’estrema unzione. Anche mentre stava male si preoccupava degli altri. Al prete che l’assisteva disse “Coraggio, Dio vuol grandi cose da lei”. Gli fu ancora fatto un salasso, inutile, che offrì però meditando sul sangue versato dal nostro Redentore sulla croce. Gli fu posta la reliquia di s. Francesco di Sales. Quando ebbe intorno tutti i confratelli, fece un discorso invitandoli a vivere nell’umiltà. Chiese di esser accompagnato alla finestra, da cui esclamo: “Paradiso, paradiso!”, e di essere posto sulla nuda terra, col cilicio, cosparso di cenere, un crocifisso, un’immagine della Madonna e la regola di S. Filippo. Perse l’uso della parola e della vista, fino a che spirò. Erano le 22 del 12 giugno 1673, aveva soli trentasette anni, di cui tredici vissuti nell’Oratorio.
Si scrisse per informare le case religiose di altre città, mentre tutta Chieri piangeva la sua morte. Tra i primi che vollero rendergli omaggio vi fu il Cavalier Cesare Amedeo Broglia. Profondamente addolorati furono pure alcuni artisti che da lui avevano avuto per anni consigli e suggerimenti. L’orazione funebre fu fatta da p. Dabraj. Molti vollero sue reliquie, si distribuirono anche le pagliuzze del materasso. Essendo la chiesa grande ancora in costruzione, fu sepolto nell’oratorio piccolo, presso l’altare. Dopo cinque anni fu tumulato nella cripta della chiesa grande. Tra le molte attestazioni di grazie ricevute per sua intercessione una è “bollata” e porta la data del 6 gennaio 1716. Attestarono la sua santità p. Dabraj, Antonio Pallavicino e il beato Sebastiano Valfrè.
Le biografie del Borello, rimaste inedite, furono scritte da padre Pompeo Salvio, autore delle poche notizie presenti nelle “Memorie historiche della congregatione dell'oratorio” di Giovanni Marciano, da Michel Angelo Baudo, novizio del Borello, e da Guglielmo Broglia. Si chiese e si ottenne da Angelo Bernezzo (1719), consultore del S. Uffizio e Revisore, il permesso per la stampa di una di esse, ma poi non si procedette. Forse anche per questo motivo le tante carte ancor oggi conservate negli archivi sono rimaste silenti.


Autore:
Daniele Bolognini

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Aggiunto/modificato il 2013-03-01

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