Era notte e p. Luigi conversava col suo diacono sulla veranda della missione. Tre individui, in tute mimetiche, sbucano dal buio e ordinano "a terra". P. Luigi va loro incontro, celando la paura sotto un pallido sorriso, chiedendo "cosa posso fare per voi?". Il diacono, che era fuggito, sente tre colpi di mitra ritorna sui suoi passi. C'è solo il parroco accasciato, ferito allo stomaco, con una mano quasi amputata. Inutili i tentativi della suora infermiera per fermare le emorragie. Non c'è che l'ospedale, ma dista 70 km di strada accidentata. Rimasto lucido non cessa di pregare ma muore quando mancano pochi chilometri alla meta.
Luigi, cinque fratelli fra i quali due suore, entra nella Congregazione Missionari della Consolata, professo nel 1959 viene ordinato sacerdote nel 1964.
Arrivato in Kenya nel settembre 1970 ha sempre prestato servizio nella diocesi di Marsabit, tranne che nei sei anni nei quali è stato richiamato in Italia.
Ha cominciato a Moyale, ai confini con l'Etiopia, dopo due anni a Sololo, in piena zona islamica, nel 1976 Archer's Post.
Dall'80 all'86 in Italia, nel Veneto, per l'animazione missionaria. Riparte nel 1987, parroco a Sukuta Marmar dove vive gli anni più belli della sua vita: rinnova la missione, costruisce nuove distantissime cappelle, l'aiutano le Suore di Madre Teresa e un buon gruppo di catechisti. Con il dispensario mobile raggiunge anche i villaggi più remoti, dà un grosso impulso alle scuole e, soprattutto promuove l'amicizia e il dialogo fra due etnie reciprocamente ostili.
Alla fine del 1996, a sessant'anni, gli domandano un nuovo trasferimento: tornare parroco ad Archer's Post: una missione enorme, con scuole e cappelle distanti anche 130 km dal centro (quattro ore di jeep su strade malandate), un luogo molto più caldo e insalubre. Lui ricomincia con il suo sorriso, finché un mitra ferma il suo passo contadino.
Così, nel 1986, aveva descritto l'ambiente e i suoi compiti: "… la perdurante siccità e l'aridità del terreno rendono impensabili eventuali possibilità di agricoltura… La tentazione di dipendenza dalla Missione è forte anche per persone che noi vorremmo fossero autonome. La Missione fa quel che può in termini di carità, con la distribuzione periodica di viveri ai più poveri e offrendo ai giovani la possibilità di scuole superiori, anche se comporterà loro la necessità di lasciare il paese per portarsi in province più progredite….La missione è impegnata nell'assistenza medica ai vari villaggi, lontani anche 80-100 km. E ancora abbiamo progetti di sviluppo, pozzi, pompe, aule scolastiche, casette.
Un'altra seria difficoltà per noi missionari che ci troviamo a vivere in questa zona del Kenya, è l'insicurezza, incolumità per la propria vita. Sono frequenti gli scontri tribali, gli attacchi a mano armata. La situazione continua ad essere tesa e fonte di preoccupazione per tutti, cittadini e missionari…".
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