Il vero cognome è Agricoli, come mostra un documento vaticano risalente al 1435, redatto per lui, e che è l’unico a conservarne, in forma latina, l’identità familiare, benché sia stato variamente letto (Argerculi, Agriculi, Agrinelli, Agriculli). Nulla si sa dei suoi genitori.
Il cognome Pendinelli gli fu attribuito, a fine Cinquecento, dall’erudito G.P. Marciano, a seguito di errori e congetture svelati ormai da tempo (Vallone, 1991). L’erudizione salentina del primo Settecento, e per primo Alessandro Tomaso Arcudi, riscoprendo il documento ora citato nominò Stefano con irenistica doppiezza come Agricoli Pendinelli. Ma, in verità, la famiglia Agricoli nel XV secolo era saldamente attestata a Galatina, nella Terra d’Otranto; e a Galatina, senza ragionevole dubbio, nacque Stefano, nel primissimo Quattrocento o a fine Trecento, perché l’affermazione di un teste credibilissimo, che lo conobbe, lo dice ucciso dai Turchi quando era «annorum octuaginta et ultra» (Capano, 1670). Si può anche dire che l’informazione sul vero cognome sopravvisse a Galatina a lungo, ancora nel 1673 (Vincenti, 2013).
Dei suoi primi anni nulla sappiamo, fuorché la sua parentela con la famiglia Barlà, e in particolare con Tuccio Barlà (che nel suo testamento del 1446 lo definì ‘nepote’), il quale fu personalità eminente della corte e dell’amministrazione orsiniana. La prima notizia certa che lo riguarda è appunto quella del 1435 (8 febbraio), quando fu nominato vescovo di Nardò, con successivi atti e comunicazioni fiscali (Vallone, 1993). In questa diocesi Stefano successe al minorita Giovanni Barlà (1423-1435), suo probabile parente. È del tutto impensabile che alla sua nomina, e a quella precedente del Barlà, fosse estraneo il gradimento e l’influenza del principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, che aveva a lungo lottato per strappare la città alle pretese di Luigi Sanseverino, riuscendoci alla fine dell’estate del 1422, o poco dopo. E Orsini restò il costante punto di riferimento di Stefano.
La sua attività pastorale a Nardò è avvolta in gran parte nell’oscurità. Alcune notizie sono da respingere perché derivate da opere dei falsari Pietro Pollidori e Gian Bernardino Tafuri; diversa rilevanza ha la controversia durissima che tra il 1440 e il 1444 oppose Stefano ai Cavalieri teutonici per il possesso dell’abbazia di Santa Maria de Balneo, sul mar Ionio. Diversi atti legati a questa lite, editi nel 1913 da Fortunato Camobreco, hanno suscitato alcune incertezze, ma una bolla di Eugenio IV del 10 maggio 1440 dà credibilità all’insieme, e consente di ricostruire con esattezza almeno le fasi iniziali della vicenda.
La lite fu avviata nella Curia romana da fra Giovanni Bock per conto dell’Ordine. Il papa dapprima aveva investito della decisione il vescovo di Chieti, uditore apostolico, Battista de Romanis; ma Stefano, con petizione, chiese più pronta soluzione, e il papa, avocata a sé la lite, investì della decisione, appellatione remota, Pirro Sambiasi, arcivescovo di Brindisi. Le cose, però, andarono diversamente e la lite fu nuovamente delegata (o forse appellata) al vescovo di Andria, Giovanni Donadei, con rimostranze di fra Giovanni Helfenbeck, procuratore dei Cavalieri, perché le città di Andria e Nardò sub uno domino gubernantur, cioè l’Orsini, che influiva sui vescovi delle sue terre, e anzi aveva scritto molte lettere ai curiali romani a favore di Stefano. La controversia, tuttavia, si risolse a favore dei Cavalieri, non senza, pare, tentativi di resistenza anche armata da parte di Stefano, nell’estate del 1444; fino alla riappacificazione fra Stefano e Helfenbenck, a Lecce nel dicembre 1444, preludio dell’immissione dei Cavalieri nel possesso dell’abbazia.
Il profilo dell’uomo, ostinato e combattivo, è ben manifesto. Nel 1445 Stefano concesse ai francescani osservanti di Galatina la chiesa Sanctae Mariae Novae, presso Racale, con ratifica pontificia del 18 maggio. Nel 1446 (?) sappiamo che Tuccio Barlà investì nel suo testamento il nipote Stefano di legati e incarichi. Ed è proprio con la morte di Tuccio che si lega più chiaramente la figura di Stefano a quella di Orsini: il 15 giugno 1449 Stefano, con Francesco Sanguigni, vicario del principe nella contea di Soleto, ratificò l’assunzione in officio dei due procuratores dell’ospedale di S. Caterina di Galatina; l’atto, importante, rivela il contesto galatinese del giro orsiniano: i notai Alberto Rappatito, Giacomo Quaranta e, specialmente, Nicola Calò; e anche Stefano Barlà, cugino, senz’altro, di Stefano. Quindi, il 29 giugno 1449, Stefano in persona fu nominato, dal principe Orsini, rettore dell’ospedale cateriniano, carica che forse di fatto già esercitava, in sostituzione del defunto Tuccio Barlà. Il trasferimento di Stefano alla prestigiosa arcidiocesi di Otranto è fissato per data certa di documenti vaticani al 16 giugno 1451; ed è possibile che egli, per ottenerne l’investitura, ricevesse addirittura un prestito dal suo predecessore, Nicolò Pagano, e forse una malleveria del suo amico Orsini, che già il 27 luglio lo sollecitava a emanare una sentenza per lite sorta dinanzi al giustiziere feudale e al capitolo di Nardò (Idra). Quindi, trascurando diversi atti di semplice amministrazione, il 31 dicembre 1453, come rettore dell’ospedale di S. Caterina, acconsentì alla vendita a pro del monastero di S. Chiara in Nardò del feudo di Ignano (o Agnano?), proprietà cateriniana, con destinazione dell’introito ad acquisti e restauri. Qualche anno dopo, l’11 aprile 1456 fu redatto a Taranto lo strumento dotale di Caterina Orsini del Balzo, figlia naturate di Gian Antonio, per le nozze con Giulio Antonio Acquaviva; e a prova ulteriore del suo legame con la casa principesca Stefano ne fu teste, insieme a personaggi notissimi del Quattrocento salentino: Antonio d’Ajello tarantino, l’ostunese Gaspare Petrarolo, Giachetto Mangalabeto di Gallipoli, Agostino Guarini di Lecce.
È probabilmente falsa la notizia, prodotta per riconio da scritti letterari (Sabatino degli Arienti) e storici (Pontano), che Stefano avesse accompagnato la regina Isabella da suo zio Orsini per supplicarlo di non prendere Napoli, dopo la vittoria di Sarno nel 1460. Poi, alla fine del 1463, morto l’Orsini, o forse ucciso da Antonio Guidano, di Galatina, e da Antonio d’Ajello, secondo una tradizione che ha fonte autorevole nel Pontano, si disse (Arcudi, 1709) che il suo corpo fu trasportato da Altamura a Galatina «dall’Arcivescovo di Otranto, dal vescovo di Gallipoli, dal vescovo di Castro e dal vescovo di Ugento».
Nella documentazione successiva, merita menzione quanto rivela il carattere dell’uomo, sempre autoritario e forte. Così, nel febbraio 1467, nominò a cappellano della chiesa di S. Salvatore a Soleto il diacono Gabriele de Vito da Nardò, ma di famiglia galatinese, «quamquam nostre iurisdictionis non sis», come gli scrisse Stefano (dal suo bollario, ora edito; cfr. Vallone, 2008). Poi un documento vaticano del 19 marzo 1467: all’epoca, il vescovo di Lecce Antonio Ricci lamentò al papa i gravi danni arrecati alla sua giurisdizione diocesana dall’arcivescovo di Otranto e suo metropolita, ch’era appunto Stefano, il quale, vantando (o forse avendo) consuetudini in tal senso, aveva concesso licenza di rimaritarsi alla vedova di un prete ‘greco’; di più, dava licenza a diversi preti e chierici, sempre della diocesi leccese, di convivere con le loro concubine; e in generale usava giurisdizione direttamente in prima istanza su diverse persone soggette alla diocesi di Lecce. Il papa incaricò il vescovo di Nardò, Ludovico de Pennis, e l’arciprete di Altamura, ancora Antonio d’Ajello, di comporre la questione. Infine la caduta di Otranto: Stefano, all’irruzione dei Turchi in città, il giorno 11 agosto 1480, li attendeva in cattedrale, vestito dei paramenti sacri e con le insegne vescovili, com’è attestato da ogni fonte; fu subito ucciso. E certo, se solo si pensa a quel che era avvenuto alla caduta di Costantinopoli (Runciman, 1968), e che Stefano certo conosceva, possiamo dire che volle, indubbiamente, essere riconosciuto.
Autore: Giancarlo Vallone
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