Nonostante la sua breve esistenza e i vari decenni trascorsi ormai dalla sua morte, le popolazioni di Urbino, del Peglio, di Sassocorvaro e il clero diocesano continuano a ricordarlo con edificazione e quasi si vergognano di ciò che gli fu riservato da vivo. Nei loro racconti quella figura dolente di sacerdote si collega all’intervento – tanto inspiegabile quanto odioso – del Sant’Ufficio (così si chiamava allora la Congregazione per la dottrina della fede) nei suoi confronti.
Parliamo di don Odoardo Petrangolini. Proveniva da una distinta famiglia urbinate, cristianamente esemplare e benestante, tra le cui glorie si annoveravano altre vocazioni sacerdotali di prestigio come quella di monsignor Luigi Petrangolini, rettore del seminario verso la metà dell’800, al quale si attribuiva un opuscolo molto importante nella storia della pedagogia seminaristica. Vi si diceva, fra l’altro, che alla pietà doveva unirsi un comportamento gradevole, educato, civile per «piacere a Dio e agli uomini»; i quali non avrebbero amato la virtù «se non vestita di gradevoli forme». Insomma la fede veniva associata a una necessaria esternazione piacevole.
Dalla stessa famiglia proveniva don Odoardo, culturalmente e spiritualmente educato nel seminario Pio-romano a cavallo del ‘900, inviatovi dal vescovo monsignor Vampa che allora reggeva, amatissimo, la diocesi urbinate. Nei registri del prestigioso seminario (fondato da Pio IX nel 1854 per accogliervi i chierici migliori degli ex Stati pontifici che aspiravano al sacerdozio) il giudizio finale sul risultato degli studi di Petrangolini è qualificato come «praestantissimus» con assegnazione del primo premio in sacra Scrittura, egittologia e assiorologia.
Divenuto sacerdote nell’agosto 1906 e ritornato con laurea in diocesi, don Odoardo veniva nominato dal vescovo vice rettore del seminario con l’impegno dell’insegnamento di lingua ebraica, esegesi biblica e sacra Scrittura. Tre anni dopo i vescovi marchigiani unanimemente lo sceglievano come insegnante di sacra Scrittura e patristica nell’inaugurato seminario interdiocesano di Fano. Gli si riconosceva una vastissima erudizione, un carattere mite e una condotta esemplare. Edificante anche la sua pronta disponibilità al servizio pastorale e alla predicazione in qualsiasi chiesa, fosse pure la più remota sulle colline marchigiane, difficile da essere raggiunta.
Don Giacomo Rossi, un suo amico che lo conosceva bene, ha scritto che il lavoro pastorale di don Petrangolini «è stato compiuto senza umane soddisfazioni». Tale infatti era quello svolto durante le domeniche, dopo un’intera settimana dedicata all’insegnamento nel seminario di Fano, a Peglio (un nucleo di case in vetta alla collina sopra Urbania) dove si recava come aiutante volontario del parroco.
Un prete colto ed esemplare
Gli studi e l’insegnamento dunque non ne attenuavano lo zelo pastorale, per il quale trovava sempre tempo. Anche la direzione spirituale era un impegno inderogabile. D’accordo con Luigi Tonetti della diocesi di Montefeltro, già suo compagno nel seminario Pio-Romano e non inferiore per zelo, organizzava il primo Congresso eucaristico interdiocesano a Urbino nel 1913. A esso seguivano (al termine della prima guerra mondiale alla quale aveva partecipato come soldato nella VII Compagnia di sanità) il Congresso eucaristico a Loreto nel 1919, quello di Fermignano nel 1924 e infuso l’ultimo a Sant’Angelo in Vado nel 1933, tutti preparati da lui. Sicchè don Petrangolini da quasi tutto il clero e dagli urbinati era considerato e amato come il sacerdote dell’eucaristia e della carità, uno dei preti più colti e più esemplari, intrepido difensore e fedele servitore della Chiesa. La caratteristica della sua spiritualità si poteva indicare nel cristocentrismo. L’intervento del Sant’Ufficio, di cui si dirà subito, vi si collegava indirettamente.
Di ciò che è intervenuto fra lui e la congregazione inquisitoriale non si conoscono i dettagli, essendo inaccessibili i documenti più che mai segreti. Si sa che è più facile entrare nel regno dei cieli che in quegli archivi. Si conoscono però gli effetti esterni provocati dall’intervento: un trauma sconvolgente. Confidava il malcapitato sacerdote urbinate a una persona amica: «Preferire essere chiuso in un sacco di serpenti piuttosto che riprovare ciò che i miei avversari mi hanno fatto soffrire». Pertanto la ricostruzione della triste vicenda capitata a don Petrangolini si baserà sulle confidenze circolate in seno al clero locale, sulle cronache giornalistiche e sulle meravigliose testimonianze pubblicate all’indomani della morte nel volume In memoriam.
Una triste, inspiegabile, vicenda
Tutto era sorto intorno all’associazione delle cosiddette “Piccole Vittime dell’Amore misericordioso” promossa dalla terziaria francescana Renata Nezzo (1894-1925) nota nell’ambiente cattolico della diocesi urbinate per la sua vita di penitenza e per le sue tendenze mistiche. Una specie di Madre Speranza di Collevalenza, per intenderci.
Lo scopo dell’unione o associazione era più nobile. Mirava a sensibilizzare le coscienze timorate riguardo le offese fatte al Signore quotidianamente per indurle a stringersi attorno al tabernacolo in espiazione. Uno statuto, con tanto di approvazione iniziale del vescovo monsignor Ghio, in data 18 aprile 1925, codificava sotto il profilo canonico l’unione. Il primo articolo recitava: «Essere vittima è essere in stato di immolazione, è fare buona accoglienza alla Croce, alle contraddizioni, agli insuccessi!».
Anche i vescovi del Montefeltro monsignor Santi e di Larino monsignor Bernacchia – nelle cui diocesi l’unione incominciava a mettere qualche ramificazione – avevano lodato l’iniziativa della Nezzo. A Urbino, sacerdoti e laici che conoscevano e stimavano la buona terziaria francescana, figlia di un noto artista locale, davano credito all’idea espressa efficacemente nelle preghiere di indubbia spiritualità che precedevano il citato statuto pubblicato in un manuale con la prefazione di don Odoardo Petrangolini, il quale, per il prestigio di cui godeva presso la gente, ne garantiva implicitamente la serietà e il valore, qualora ce ne fosse stato bisogno.
Dopo la morte della Nezzo (11 ottobre 1925), egli prometteva di scriverne la biografia edificante e di continuare a promuovere il movimento delle “Vittime dell’Amore misericordioso”, che in seguito all’iniziale approvazione vescovile dava segni di crescita costante. Diversi sacerdoti ne erano sostenitori e promotori. Tra di essi il parroco di San Bartolo in città don Giuseppe Gori e il suo cappellano don Luigi Nonni, legati spiritualmente a don Petrangolini.
Si dava il caso che, venuto a mancare improvvisamente don Gori la mattina del 6 agosto 1929, la Curia un’ora dopo imponeva al cappellano di consegnare le chiavi della chiesa all’avvocato Antonio Santini, poi di rientrare subito in giornata nella sua diocesi di Pennabilli e di non partecipare quindi ai funerali. Misteriosi restavano i motivi di tanta intransigenza da parte dell’autorità ecclesiastica urbinate, anche se i sospetti non erano difficili a pensarsi. Intanto la notizia della morte di don Gori e l’allontanamento coatto del cappellano giungevano telegraficamente a don Petrangolini nel seminario di Fano. Egli partiva immediatamente per giungere a Urbino in tempo per benedire la salma dell’amico, di cui era forse anche il confessore, e partecipare ai funerali.
Sennonché il giorno dopo, al momento di dare inizio al rito, si presentava per la funzione religiosa un sacerdote inviato dalla Curia, accompagnato da due carabinieri. Ciò avveniva davanti ai fedeli già riuniti attorno al catafalco, indisponendoli. Molti di loro, appartenendo all’unione delle “Vittime dell’Amore misericordioso”, non mancavano di collegare l’odioso intervento curiale a una malcelato disappunto per la loro devozione. Per cui si sentirono in chiesa aperte critiche all’indirizzo del vescovo per quell’intervento persecutorio o quanto meno inopportuno almeno in quella maniera.
Autore: Lorenzo Bedeschi
Fonte:
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Vita Pastorale (1° novembre 2005)
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