Come famiglia non è certamente il massimo che si possa desiderare, quella in cui, ad Ancona, il 5 novembre 1883, vede la luce Maria Aristea Ceccarelli. Papà è irascibile, scontroso e violento; primeggia nella bestemmia e nel bere e la maggior parte delle sue questioni le risolve a scazzottate; pur essendo di origini benestanti e con una buona istruzione, ben difficilmente riesce a garantire pasti regolari alla sua famiglia, perché ridotto sul lastrico dal vizio del gioco.
Ha lasciato moglie e figlio per andare a convivere con un’amante dalla quale ha sedici figli, soltanto cinque dei quali riescono a superare l’infanzia. Alla compagna, solo successivamente sua moglie, affida la gestione di un’osteria di infimo livello, perennemente in passivo, e quindi ben poco utile al mantenimento della famiglia. È, questa, una donna, pur se bella, completamente analfabeta, con un carattere molto duro, introverso e incapace di ogni minimo gesto affettuoso.
Non è dunque a questi genitori un po’ “particolari” che Aristea può essere debitrice di ciò che diventerà, a cominciare dalla preparazione alla cresima e alla prima comunione, perché si rifiutano perfino di accompagnarla in chiesa per le celebrazioni. E neppure alla sua istruzione si sentono obbligati, cosicché lei con una serie di lavoretti impara a mettere insieme soldo su soldo per pagarsi “lezioni private” da una vicina di casa, appena un po’ più istruita di lei, che comunque interrompe le sue ripetizioni non appena si esaurisce il piccolo gruzzolo di Aristea, diventata capace appena di fare la sua firma.
In compenso si preoccupano per tempo di combinarle il matrimonio, scegliendo per lei tal Igino (Gino) Bernacchia, facendoglielo sposare, dopo quattro anni di fidanzamento, nel 1901, prima ancora cioè che compia 18 anni. Le condizioni economiche del marito sono senz’altro migliori di quelle di casa sua, perché gestisce con fratello e genitori un piccolo spaccio di generi alimentari: peccato che l’intera famiglia (Gino compreso) abbia la sensazione, più che una moglie o nuora, di aver assunto una persona di servizio, dalla quale pretendere tutto e, per questo, considerata «ultima di tutti, al di sotto di tutti, anche dei garzoni. Indegna di essere avvicinata da chiunque, considerando tutto quello che mi si dava, o faceva, come una carità e misericordia del Cielo». Sono, queste, parole di Aristea, racchiuse in un “diario” voluto dal suo padre spirituale e che lei, appena capace di tenere la penna in mano, deve farsi scrivere da una persona amica.
Dall’indifferenza e dallo sfruttamento all’insulto il passo è breve: «Neppure l'onore di essere chiamata col nome di Battesimo mi fu accordato nella nuova famiglia, da mio marito. Ma Gino mi ha sempre, per abitudine, chiamato: carogna schifa, carogna fetente, checca, cioè a dire stupida. Ma questi erano i titoli nei tempi di buon umore e di calma, ché, nei momenti di ira, vi era ben altro», fa annotare Aristea nel diario.
Sembrerebbe la descrizione di una purtroppo ben conosciuta cronaca di violenza domestica, verbale e anche fisica, con la prevaricazione di un marito violento su una moglie sottomessa, anzi decisamente succube, ma non è così, perché «a Gino non ho mai celato nulla, ma con semplicità e schiettezza il labbro ha ripetuto quanto avevo nel cuore! Certo il Signore veniva chiaramente in aiuto, a sostenere questa mia semplicità sincera, franca, leale, altrimenti avvenimenti e situazioni rimarrebbero inspiegabili ed incredibili».
Si tratta, piuttosto, della resistenza “sui generis” di una donna forte, che non si lascia piegare pur soffrendo terribilmente, tanto da poter far scrivere: «La mia vita è un libro di dolore chiuso… è tutta in due parole: privazioni e umiliazioni».
Nel 1907, cioè ad appena 24 anni, deve sottoporsi all’espianto dell’occhio destro, perché un anno dopo il matrimonio c’è stata la perforazione del globo oculare e le cure non sono servite a scongiurare l’intervento. Le resterà una nevralgia del trigemino, cui nel tempo si aggiungeranno coliche e dolori diffusi in tutto il corpo che, pur facendola soffrire, non sono tuttavia nemmeno lontanamente paragonabili alle sofferenze morali, che le procurano un «dolore così vivo ed intenso, al cui confronto il trigemino è un signoretto, perché almeno so di che cosa si tratta».
I figli non arrivano, in compenso a dieci anni dal matrimonio arriva per Gino un posto fisso nelle Ferrovie, nel settore Ragioneria, che comporta il trasferimento a Roma. Sembra proprio che il Signore stia attendendo qui Aristea, facendole frequentare la parrocchia romana del Corpus Domini, dove entra in contatto con i Camilliani.
Saranno tre i religiosi che accompagneranno il suo cammino spirituale, prima il padre Verrinot, poi il padre Ferroni, infine il padre Bini: tre artisti dello spirito che, accorgendosi delle meraviglie che da sempre lo Spirito ha operato in questa umile donna, la sostengono e la incoraggiano.
Cambiando città, infatti, non sono purtroppo cambiati il carattere e le abitudini di Gino, al quale tuttavia Aristea si sente legata per il “sì” pronunciato davanti a Dio e, forse, con la segreta speranza di portarlo a conversione. Nel suo diario ci sono parecchie tracce di questa sua fedeltà eroica, nonostante tutto, all’uomo della sua vita, come quando afferma con assoluta convinzione: «Lo penso sempre e lo ripeterei a tutte le spose: adornatevi internamente l'anima meglio che potete per Gesù, ma esternamente per il marito. Se lo attirerete a voi, lo attirerete a Dio stesso».
La miglior conferma della bontà di questo suo “metodo coniugale” è rappresentata proprio dal progressivo riavvicinamento alla fede di Gino, culminato nel 1948 con la sua “conversione”. Muore il 30 gennaio 1964, pienamente riconciliato con Dio e con gli uomini, soggiogato e convinto dalla moglie, che ha continuato ad amarlo malgrado quanto le ha fatto passare per più di 46 anni.
Lei, da parte sua, evita l’alienazione, cui poteva andare incontro per le disumane condizioni in cui viveva, attingendo una forza inspiegabile nella preghiera: anziché anestetizzarle il cuore glielo rende particolarmente sensibile, anche alle sofferenze degli altri, mentre le fa amare la propria, impedendole di subirla in modo passivo e autodistruttivo. Pressoché analfabeta nelle scienze umane, diventa “esperta” nelle cose di Dio, elevandosi a lui con slanci mistici che hanno dell’incredibile.
“Santa nel quotidiano”, tra i tegami e con il mestolo in mano, si sente spinta verso i malati, particolarmente assidua nel visitare quelli ricoverati al Sanatorio Umberto I°, annesso all’ospedale San Giovanni, e, tra questi, i piccoli tubercolotici. La vedono, inoltre, visitare tanti malati a domicilio, per portare ai più poveri un aiuto anche materiale, ma a tutti indistintamente una parola di consolazione e di speranza.
È per questo che, a poco a poco, diventa un punto di riferimento per chi ha bisogno di un consiglio, una parola buona, una preghiera o un conforto. Dicono che anche il presidente della Repubblica Antonio Segni la voglia a più riprese al Quirinale, riconoscendo in lei una donna che porta Dio ovunque va. «Io fui veramente per bontà di Dio come il canale di tanto e tanto bene» è costretta lei stessa ad ammettere, con la semplicità e l’onestà dei santi, sul finire della sua vita.
La mancata maternità biologica è ampiamente compensata da una maternità spirituale, esercitata soprattutto verso le vocazioni camilliane perché, tra le altre cose, le si riconosce una non comune capacità di discernimento, di cui spesso ci si avvale specialmente nei casi di vocazioni fragili o dubbie. Con la sua adesione al ramo laico della Famiglia Camilliana, è “mamma” a pieno titolo e sono tanti a considerarsi suoi “figli”: si sussurra infatti che cose prodigiose avvengano per la preghiera di Aristea e la sua casa diventa un porto di mare per ogni umana miseria. Che d’altronde nella sua vita non sono mai mancate, come lei stessa ha sperimentato fin da bambina e che culminano, negli ultimi anni, con dolori diffusi, problemi cardiaci ed infine l’idropisia, che le impedisce a poco a poco anche di uscire di casa.
«Non importa spasimare e morire se nella morte noi troveremo la vita, la luce, l’amore!», aveva detto nel periodo in cui maggiori erano i suoi problemi familiari. Ora, che anche la decadenza fisica aumenta in modo progressivo e la lucidità si alterna alla semi-incoscienza, si abbandona sempre più gioiosamente all’intimità con Dio, in un crescendo di fiduciosa confidenza. «Ora devo andare … abbiamo finito di soffrire … non vi abbandonerò!» la sentono sussurrare un giorno: si spegne serenamente poco prima della mezzanotte del 24 dicembre 1971.
Seppellita prima al Verano, dopo sei mesi i Camilliani vogliono traslare la salma di Aristea Ceccarelli nella chiesa di San Camillo, dove incessante prosegue il pellegrinaggio di chi a lei si raccomanda.
Autore: Gianpiero Pettiti
Maria Aristea nacque ad Ancona il 5 novembre 1883, dodicesima di sedici figli, di cui solo cinque sopravvissero all'infanzia. Il padre, Antonio e la madre, Nicolina Menghini, battezzarono la Venerabile il 9 dicembre dello stesso anno. La madre era di modestissime condizioni, d'indole assai chiusa, dura, completamente analfabeta. Il padre, Antonio, prima di unirsi a lei aveva già contratto matrimonio con un'altra donna, dalla quale aveva avuto un figlio. Aveva un carattere estremamente irascibile, duro, scontroso e violento. Era dedito al gioco, al bere e gran bestemmiatore. Si trasferì ad Ancona, nel rione Archi dove gestiva una bettola d'infimo ordine che esigeva l'enorme fatica di tutta la famiglia e dava un reddito minimo. Aristea, fin da piccolissima, appena poteva si recava nella vicina chiesa del Crocifisso ove passava lunghi momenti parlando cuore a cuore con Gesù, il suo grande amico e confidente. Più volte, per questo, giungeva tardi per cui era sgridata e punita. Si rivolgeva anche alla sua "mammina", la SS.ma Vergine Maria, alla quale ogni mattina, appena sveglia recitava tre "Ave Maria". Ogni giorno lavorava instancabilmente, prestandosi a ogni servigio chiestole non solo in casa, ma anche dalle vicine. A sei anni ricevette la cresima. Benchè desiderasse ardentemente poter andare a scuola, non vi fu mai mandata. Si mise d'accordo con una maestra che, per un soldo, le dava una lezione. Guadagnò questo denaro assumendo ulteriori lavori più pesanti e risparmiando su tutto, ma non bastava. Dovette smettere e non poté mai più imparare a leggere e scrivere. A circa undici anni fece la prima comunione, nella totale indifferenza dei genitori, che neppure l'accompagnarono in chiesa. La sua indicibile gioia fu solo la sua intimità con Gesù, che aumentò sempre più.
Dopo quattro anni di fidanzamento, il 9 ottobre 1901 si sposò con Igino (Gino) Bernacchia, che i suoi genitori le avevano scelto senza chiederne il parere. Egli si rivelò subito molto violento, dedito al vino e alla bestemmia, con relazioni e amanti. Per tutta la vita matrimoniale, la maltrattò e offese in ogni modo, tentando più volte di ucciderla.
Appena sposata, andò a vivere nella casa dei suoceri, commercianti benestanti. Questa famiglia, nonostante il benessere, era estremamente divisa, contraria alla religione e alla morale cristiana. Più che come nuora fu accolta come donna di servizio.
Nel 1902, il giorno di Pasqua, M. Aristea ebbe la perforazione del globo oculare destro, ove da tempo soffriva dolori lancinanti. Dopo cinque anni di tormentose sofferenze e cure, dovette sottoporsi all'espianto dell'occhio. L'ultima cosa che volle vedere con esso, fu l'Immacolata, che andò a salutare nella cappella dell'ospedale. Le raccontarono che addormentata sotto anestesia, aveva pregato e cantato alla Madonna. Da quel momento le sofferenze, progressive e sempre più atroci, fra cui la nevralgia del trigemino, coliche e dolori di ogni tipo, non l'abbandonarono più. Quando il marito venne assunto dalle ferrovie, si trasferirono a Roma e andarono ad abitare in via Ancona. M. Aristea prese a frequentare assiduamente la chiesa del Corpus Domini, all'inizio di via Nomentana, ove conobbe il P. Domenico Verrinot, che divenne suo padre spirituale. In questo periodo aggiunse al suo nome pure quello di Maria. Il 4 febbraio 1925, il P. Domenico morì e M. Aristea si affidò alla guida spirituale del P. Angelo Ferroni, camilliano. Nel 1927, morto P. Ferroni, divenne suo direttore spirituale il P. Bini, anch'egli camilliano. La guida del P. Bini l'avviò alla crescita della carità e disponibilità verso gli infermi, unendola così alla spiritualità e apostolato dell'Ordine di S. Camillo De Lellis. M. Aristea sviluppò al massimo quel grande amore per gli infermi, che già era sorto in lei nelle precedenti degenze ospedaliere. Si recava più volte alla settimana al Sanatorio Umberto I dov'erano ricoverati i malati di tubercolosi, fra cui molti bambini. Visitava molti ammalati nelle loro case, consolandoli spiritualmente e aiutandoli materialmente, come poteva. Si offrì vittima per l'Ordine di San Camillo e divenne ardente sostenitrice delle vocazioni camilliane, che chiamava "suoi figli". Per l'obbedienza del P. Bini accettò di scrivere il suo "Diario" che, essendo quasi analfabeta, dovette dettare a un'amica.
La casa di M. Aristea si aprì sempre più alle persone di ogni età e tipo, che andavano a lei per consiglio, preghiera, intercessione, luce, aiuto e conforto spirituale. Anche notevoli personalità l'avevano in grande stima, come il Presidente della Repubblica italiana, Antonio Segni e la sua famiglia, che spesso l'invitavano al Quirinale. L'immensa pazienza, umiltà, rassegnazione, amore, mitezza e preghiera di M. Aristea ottennero la conversione del marito, che morì, riconciliato con Dio, il 30 gennaio 1964. Fu un grande dolore per Aristea, che lo aveva sempre amato, venerato e obbedito, vedendo in lui la mano di Dio che la purificava incessantemente. Le sue malattie e sofferenze crescevano incessantemente. Fu colpita anche da idropisia e, nell'aprile 1968, il cuore peggiorò notevolmente. Ormai non usciva quasi più. Riceveva ogni giorno la S. Comunione. Le sue condizioni di salute si aggravavano sempre più, non chiedeva nulla, ringraziava di tutto e rimaneva abitualmente assorta in continua e profonda preghiera. Molte persone si recavano alla sua casa per vederla ancora una volta. Al termine di una vita d'inaudite sofferenze, sopportate con fede, pazienza e amore eccezionali, morì piamente alle ore 23,25, del 24 dicembre 1971. Era la vigilia di Natale, la festa che tanto amava.
I funerali furono celebrati solennemente nella parrocchia di S. Camillo De Lellis, il 26 dicembre. Alla celebrazione era presente numeroso clero, religiosi ed una moltitudine di fedeli. Fu sepolta, in un primo momento, al Verano nella cappella dei Padri camilliani. Il 17 maggio 1972 la sua salma fu traslata nella chiesa di S. Camillo dove tuttora riposa, numerose persone quotidianamente visitano la sua sepoltura e in molti si affidano alla sua intercessione per ottenere speciali grazie.
Autore: Andrea Maniglia
Note:
Per approfondire:
Andrea Maniglia - Patiendo et orando. Maria Aristea Ceccarelli. Laica, sposa... madre - Edizioni Tau
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