Umberto Urbani nacque a Roma il 22 febbraio 1943, nel mezzo del secondo conflitto mondiale, motivo per cui suo padre, Ferdinando, dovette partire per il servizio militare nel mese di maggio. La madre, Maria Alessandrini, sfollò quindi con il piccolo e sua sorella Lauretta a Pietralunga (Gubbio), dove viveva suo suocero, che era un Salesiano Cooperatore.
A undici mesi, Umbertino, come era soprannominato, fu preso da convulsioni: la mamma, allora, lo portò in chiesa, per domandare su di lui e su di sé la cosiddetta “benedizione degli Apostoli”. In base alla pia pratica, s’inginocchiò presso l’altare della Madonna e recitò tre Ave Maria, il Credo e la Salve Regina. Dopo che il sacerdote ebbe pronunciato un’orazione specifica, venne invitata a estrarre a sorte il nome di uno degli Apostoli, incluso san Paolo, che sarebbe stato lo speciale protettore del bambino: venne fuori proprio l’Apostolo delle Genti. Da allora, il piccolo non ebbe più convulsioni, ma continuò ad essere molto vivace, tanto da rischiare l’intossicazione per aver ingerito accidentalmente dell’olio di canfora.
Una malattia della madre e problemi di sciatica del padre fecero loro decidere di affidare Umberto alle Piccole Suore del Sacro Cuore, che a Pietralunga avevano un asilo. Anche lì si fece notare per la sua vivacità, ma ancor più per la compostezza con cui recitava le preghiere. Un giorno le suore gli chiesero di recitare il Credo per intero davanti ai bambini di terza e quarta elementare: arrivò in fondo con una sicurezza tale che i presenti finirono con l’applaudirlo. Non strappava applausi solo per come pregava, ma anche per come recitava durante i piccoli saggi scolastici.
A fine luglio 1947 gli Urbani, a cui era nato Enrico, tornarono a Roma, stabilendosi alla Pineta Sacchetti, vicino alla via Aurelia, perché papà Ferdinando aveva trovato lavoro in una ditta. Anche per Umbertino iniziò una nuova esperienza: a ottobre venne iscritto alla prima elementare presso le Suore di Nostra Signora di Lourdes. Nonostante la mamma dovesse sobbarcarsi notevoli sacrifici economici, era desiderosa di dargli un’istruzione e una cultura cristiane. Per lo stesso motivo, l’anno dopo lo iscrisse dai Padri Carissimi, presso i quali, perché ritenuto impreparato e perché non aveva l’età prescritta, ripeté la seconda classe.
A causa della sua costante irrequietezza, non riusciva molto bene, per cui, nel 1951, prese a frequentare la terza a Pietralunga. Incoraggiato dalla maestra Ida Bovicelli, fece grandi progressi, ma al solo scopo di farla contenta.
Sempre nel 1951, il 20 maggio, arrivò il giorno della sua Prima Comunione, a cui si preparò con piccoli sacrifici e tre giorni di ritiro presso le suore da cui aveva frequentato la prima elementare. La mamma, però, non c’era, perché doveva restare ad accudire suo fratello Bruno. Quando lo vide tornare, l’abbracciò commossa, raccomandandogli: «Adesso devi diventare più buono!». Le suore, saputo del suo dispiacere, l’invitarono alla Messa nella loro cappella per il giovedì successivo, solennità del Corpus Domini, parandola a festa come la domenica precedente. Da quel giorno, Umberto si accostò all’Eucaristia tutte le domeniche e i Primi Venerdì del mese.
A ottobre 1952 la famiglia traslocò nuovamente, stavolta in via del Mandrione, tra l’Acquedotto Felice e la ferrovia Roma-Napoli, in un appartamento decoroso, anche se lungo l’asse ferroviario sorgevano numerose baracche. Per inserirlo in un ambiente positivo, mamma Maria decise di far frequentare a Umberto l’Oratorio retto dai Salesiani di Don Bosco, che proprio a cinquecento metri da casa avevano una struttura, sede tra l’altro dell’Aspirantato. Una domenica, dopo aver partecipato alla Messa nella cappella del luogo, presentò il bambino a don Baldazzi, direttore dell’Oratorio, che rimase favorevolmente impressionato da lui.
Umberto avrebbe voluto andare tutti i giorni, ma il padre gli consentì di frequentare solo la domenica e il giovedì. Lo stile salesiano faceva proprio al caso suo: c’era il tempo di pregare e di vivere giornate di ritiro, ma anche di partecipare a gite e gare sportive, nelle quali riusciva tra i primi. Si affezionò particolarmente a un giovane chierico, don Luigi Ricciarelli, che gli propose di aderire all’Azione Cattolica, in qualità di Aspirante Minore.
A scuola, invece, aveva i soliti problemi: nel dicembre 1953, divenne allievo delle Suore di Nostra Signora di Namur a Torpignattara e, in quinta elementare, passò alla scuola statale «Giulio Cesare».
Fu lì che avvenne un episodio che lo turbò profondamente. Un suo compagno, facendo cadere per sbaglio la penna, proferì una bestemmia contro la Madonna, ma il maestro non lo corresse. Confidò l’accaduto a don Luigi, il quale gli suggerì di pregare per quel ragazzino poco rispettoso, ma lui aveva iniziato a pensare che c’era un solo modo per far diventare tutti più buoni: «Voglio diventare sacerdote, anzi, devo diventarlo!», dichiarò solennemente.
Che quella non fosse un’idea passeggera lo confermano le risoluzioni prese durante un ritiro spirituale a cui partecipò a ridosso della Pasqua 1954. Nel mese di maggio, palesò il suo desiderio alla mamma, che lo accolse come una grazia della Vergine Maria, in quello speciale Anno a lei dedicato, ma gli fece presente i sacrifici a cui doveva andare incontro, non ultimo quello di un impegno scolastico più intenso.
Aiutato da don Baldazzi, che gli impartiva lezioni supplementari, Umberto affrontò gli esami scritti. Era così impaziente che si presentò agli orali senza controllare i risultati: la commissione d’esame, con suo disappunto, gli comunicò che era risultato impreparato. Durante l’estate s’impegnò ancora di più, così, agli esami di riparazione, fu promosso e poté finalmente iniziare le medie all’Istituto «San Domenico Savio», compreso nell’Aspirantato, il 25 settembre 1954.
Per superare l’inevitabile nostalgia di casa, aveva ideato un pio stratagemma: baciava il crocifisso che aveva chiesto in regalo per il suo onomastico, che gli fu donato dalla mamma insieme a un libro di preghiere e a un Rosario. Come rivelò a un compagno, aveva poi un consolatore speciale: don Bosco, che prendeva a modello sacerdotale. Il suo esempio come ragazzo credente, invece, non poteva che essere Domenico Savio, alla cui canonizzazione aveva partecipato di persona. Quanto alla devozione mariana, portava lo Scapolare, che gli fu imposto dai padri Carmelitani a Capranola, durante una colonia estiva. La sua frequenza all’Eucaristia, poi, divenne quotidiana.
L’amicizia spirituale con don Luigi si rinsaldò quando, sacerdote novello, celebrò la sua Prima Messa nella cappella dell’Aspirantato. Poiché i turni per servire Messa erano già stati stabiliti, offrì quel sacrificio per lui, ma, appena vide la mamma, le disse: «Mamma, pensa che festa quando anch’io dirò la mia Prima Messa!».
I compagni lodavano Umberto per la sua generosità e gli educatori per la forza di volontà, che gli fece compiere progressi sorprendenti. Il suo scopo non era più compiacere l’insegnante, ma diventare sacerdote come don Bosco e alla sua scuola.
La sua formazione religiosa si arricchì con l’ammissione nella Compagnia (le Compagnie salesiane sono formate da giovani particolarmente motivati che si associano tra loro) di San Luigi, motivo per cui aveva intensificato le sue visite al Santissimo Sacramento. Inoltre, era un assiduo lettore e propagandista delle riviste cattoliche destinate ai ragazzi, soprattutto de «Il Vittorioso» e di «Gioventù Missionaria».
Verso la metà del gennaio 1955, però, una forma d’influenza si diffuse in Aspirantato. Anche Umberto fu colpito, ma non ne fece parola con nessuno: solo un suo compagno notò che era pallido e aveva i brividi. Quando provò la temperatura, vide che il termometro segnava trentanove gradi. Alla mamma, accorsa a trovarlo, svelò perché aveva taciuto: credeva che in infermeria non si potesse ricevere Gesù.
Dopo un colloquio col direttore, fu deciso di mandarlo a curarsi a casa. La vicinanza della comunità salesiana continuò a farsi sentire, dato che ogni giorno gli veniva portata, verso le 8:30 del mattino, l’Eucaristia; l’unico giorno in cui il sacerdote non venne, il giovane malato fu terribilmente abbattuto. Anche se per le sue condizioni avrebbe potuto prendere un po’ di cibo, volle ugualmente mantenere il digiuno, ma, per ubbidire alla madre, accettò.
Dal 26 gennaio, quindi, fu costretto a letto, con la proibizione di toccare i libri di scuola. L’11 febbraio, sottoposto a una radiografia, gli fu riscontrata una polmonite coperta, con infiammazione alle vie respiratorie. Lo stesso giorno avvertì dei dolori alla gamba sinistra, il che condusse il medico a una diagnosi più certa: aveva la flebite.
Ogni giorno doveva ricevere quattro iniezioni: era Umberto stesso a ricordare al padre il momento di praticarle, ma stava peggio durante la notte. Una volta, nel mezzo dei dolori notturni, espresse ad alta voce il suo pensiero ricorrente: «Gesù, non ne posso più: però Tu hai sofferto molto più di me. Aiutami Tu».
Sul comodino si era fatto mettere una sveglia, per seguire ora per ora i suoi compagni Aspiranti. Quelli della Compagnia di San Luigi, dal canto loro, gli fecero sapere con una lettera che avevano iniziato una novena a san Domenico Savio per la sua guarigione.
Spesso la mamma gli leggeva qualche testo spirituale, a cominciare dal Vangelo e dalla «Filotea». Il suo preferito, però, era «Così parlò la Madonna del Carmine», precisamente il capitolo intitolato «Quel pezzo di stoffa mi ha salvato». Inoltre, di sera, pregava il Rosario aiutato da una trasmissione per ragazzi di Radio Vaticana.
Le cure, dopo un mese, sembravano sortire qualche effetto. Il 27 febbraio, giorno in cui gli Aspiranti concludevano i loro Esercizi Spirituali, Umberto dichiarò al padre di sentirsi meglio, ma, proprio mentre muoveva la gamba sinistra perché doveva essere spostato per rifare il letto, ebbe un collasso: gli faceva male lo stomaco e si sentiva soffocare. Quando la mamma, toccandogli la fronte, sentì che era gelida, scoppiò in lacrime, ma lui la consolò con un filo di voce: «Mamma, non piangere, ché vado in Paradiso».
Un vicino corse dai Salesiani ad avvisarli e, poco dopo, arrivò il Catechista degli Aspiranti, seguito dal Direttore, che gli portò il Viatico, ma non gli amministrò l’Unzione degli Infermi perché lo vide calmo. Il medico curante era assente: a fatica se ne trovò un altro, che per giunta era tornato indietro perché gli era stato riferito il numero civico sbagliato.
Verso le 9:15 Umberto ebbe un nuovo attacco e seguì a stento le preghiere degli agonizzanti. Il medico arrivò e, dopo la visita, affermò che poteva trattarsi di embolia prodotta dalla flebite: bisognava subito condurlo al Policlinico.
Arrivato al Pronto Soccorso, si ricordò di aver lasciato in un cassetto del suo comodino lo Scapolare, così, appena vide una suora, gliene chiese uno. Trovandola ammirata per la sua devozione, le rivelò di essere un Aspirante salesiano. «Allora conosci anche Domenico Savio!», commentò lei, alla quale rispose: «Altro che se che lo conosco! Noi due siamo grandi amici».
Nello stesso istante, arrivò il Cappellano con l’Olio Santo, ricevuto il quale Umberto dichiarò di essere tranquillo. Dopo che il sacerdote lo salutò dicendogli «Arrivederci», la suora gli chiese se avesse bisogno di qualcosa: «Sì, ho sete!», rispose, ma non poté bere l’aranciata calda che gli fu preparata perché doveva subire una trasfusione di sangue; prima che iniziasse, la religiosa gli mise al collo l’abitino del Carmelo.
La madre tornò a vederlo dopo la trasfusione e gli chiese se stesse bene: «Sì, sto bene!», furono le sue ultime parole, pronunciate mentre versava l’unica lacrima che gli fu vista uscire in quella sofferenza. In quel momento suonava mezzogiorno, così la suora invitò la signora a recitare l’Angelus, mentre il ragazzo sembrava assopirsi, stringendo in mano lo Scapolare. Terminata la preghiera, la religiosa gli tastò il polso: non dava più battiti.
Nella camera ardente, allestita al Policlinico, sfilarono tutti gli Aspiranti e i ragazzi dell’Oratorio. I solenni funerali, invece, si svolsero nella cappella dell’Istituto.
La vicenda di Umberto fu a lungo molto nota, specie nelle scuole rette dai Salesiani. Le riviste da loro promosse e un foglietto stampato per il primo anniversario della sua morte contribuirono a farlo conoscere anche al di fuori. Nel novembre 1960, uscì a firma di Ettore Conti, per la collana «Fiori di Cielo» delle Edizioni Paoline, la sua biografia, «Piccolo Alfiere». Il titolo era stato ispirato da un episodio immortalato da don Luigi Ricciarelli con la sua macchina fotografica: durante una gita a Frascati, terminata con una gara di corsa sul monte Tuscolo, Umberto vinse di volata, afferrando la bandierina che spettava al vincitore.
Anche se oggi quasi nessuno sa chi era Umberto Urbani, chi lo conobbe fu certo di aver trovato in lui, come san Giovanni Bosco con san Domenico Savio, la stoffa di un bell’abito da regalare al Signore e un corridore che, come san Paolo, gareggiò per conquistare un premio eterno.
Autore: Emilia Flocchini
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