Figlio primogenito di Bernardo e Lorenzina, Angelo Anselmi, detto Angelino, nacque a Pontoglio, in provincia di Brescia, il 13 luglio 1913. A tre anni venne iscritto all’asilo, mentre a sei iniziò a frequentare la scuola. Venne bocciato in seconda, ma dall’anno dopo prese a studiare con un ardore tale da non ripetere più nemmeno un esame.
Ricevette la Cresima a sette anni e, il 23 marzo 1920, fece la sua Prima Comunione. Da molto prima, però, aveva preso a visitare Gesù nel Tabernacolo della chiesa che sorgeva vicino a casa sua. Di carattere sincero, aiutava con prontezza i genitori, e quando loro dovevano fermarsi fino a tardi nel negozio che gestivano, era lui a far pregare le sorelle e a raccontare loro le storie che a sua volta aveva udito dalla nonna.
Con l’avvento del fascismo, dovette entrare fra i Balilla, ma una domenica, a undici anni, passando vicino a una chiesa, gli venne impedito di entrarvi per partecipare alla funzione pomeridiana. Tornato a casa, confidò alla mamma: «Se non mi lasciano entrare in chiesa, io con loro non ci vado più»: era un segno della sua determinazione a non abbandonare ciò che per lui era più importante.
Nel 1925, affinché si preparasse a dovere agli esami di quinta elementare, i genitori lo misero in collegio. Riusciva bene negli studi, ma gli costava molto dover parlare solo in italiano, secondo le regole in uso. I compagni sulle prime lo ritennero un po’ bigotto, ma, nel vedere la spontaneità delle sue azioni e il contegno limpido con cui pregava, dovettero cambiare idea. Con alcuni, poi, condivideva aspirazioni e sogni, immaginando quanto bene avrebbero potuto compiere nel mondo.
Dopo tre anni e mezzo, Angelino uscì dal collegio con ottimi voti e, ancor più, con una disciplina che gli servì da guida anche fuori da quelle mura. Nei primi tempi gli capitava di rispondere in maniera scorretta e di scattare per un niente, ma, riconosciuti i suoi sbagli, prese a correggersi.
La prima questione che dovette affrontare fu quella di trovare lavoro. Avrebbe potuto continuare l’attività commerciale di famiglia, ma non vi si sentiva portato. Dopo aver riflettuto con attenzione, decise di impegnarsi nel ramo bancario. Nonostante le numerose lettere di presentazione e le promesse che gli venivano rivolte, Angelo restava senza lavoro. Più passavano i giorni, più si deprimeva e si convinceva di essere di peso ai suoi familiari: toccò il fondo quando interpretò come rivolte a lui alcune considerazioni dei suoi circa l’andamento del negozio. Sua madre lo corresse e gli fece presente che la colpa non era sua, ma da allora dovette stare attenta a non compiere nessun accenno, neanche indiretto alla sua situazione.
Nel 1929 un cugino poté assumerlo come fattorino in banca, ma dopo pochi mesi venne licenziato perché, pur dimostrando molta buona volontà, i dirigenti non volevano aumentargli lo stipendio né promuoverlo come impiegato. Angelo ripiombò nella depressione, ma provò a trovare la forza di reagire anzitutto dandosi da fare nella riorganizzazione dell’oratorio maschile del paese, intitolato a don Bosco, e delle scuole catechistiche della sua parrocchia, Santa Maria Assunta.
Finalmente, dal 1 maggio 1930, prese a lavorare come impiegato subalterno del Piccolo Credito Bergamasco, presso le agenzie di Urago d’Oglio e Rudiano. Ogni giorno, tra andare a tornare, percorreva venti chilometri in bicicletta. Il suo capufficio, di Pontoglio anche lui, lo prese a benvolere, tanto da avergli concesso di venire con lui e alcune signorine alla beatificazione di don Bosco a Torino.
Sempre nel 1930, partecipò ad una conferenza tenuta dal sacerdote don Luigi Ziliani circa i martiri della rivoluzione messicana. Quelle parole gli riaccesero in cuore l’ideale che gli era comparso negli anni di collegio: partire missionario, per far continuare a vivere il cristianesimo nelle terre più martoriate. Sua madre, però, gli proibì di affrontare nuovamente l’argomento. Angelo ubbidì, ma continuò a verificare ciò che sentiva con l’aiuto del suo direttore spirituale.
Nell’Anno Santo 1933 fu pellegrino a Roma con suo padre e alcuni compaesani, che in quell’occasione convinse ad accostarsi ai Sacramenti. In generale, sapeva come conquistare le persone e come ricondurle al bene, fossero ragazzi e giovani da invitare all’oratorio o clienti del negozio di famiglia. Non pronunciò mai giudizi temerari e fu dolce verso chi sbagliava, invitandolo, nei casi più seri, a ricorrere a un sacerdote.
Nei periodi di ferie, compiva spesso lunghe passeggiate in montagna, da solo o con alcuni amici, i quali erano ben consapevoli che, dopo cena, Angelino li avrebbe guidati nella preghiera del Rosario, spesso restando a vegliare mentre tutti si addormentavano.
Devotissimo alla Madonna, confidò in lei anche quando, nel 1934, rischiò di essere licenziato a causa di una riorganizzazione del personale. Alla fine, non solo non fu licenziato, ma gli venne detto che, appena compiuti i ventun anni, sarebbe stato assunto in pianta stabile.
Quanto al suo impegno parrocchiale, ricoprì l’incarico di cancelliere delle scuole catechistiche. Per i suoi ragazzi aveva continue attenzioni, confermate dalla sua ricerca continua di modi per venire loro incontro.
Il suo amore per l’oratorio si fece ancora più intenso quando, nel 1931, il governo fascista ordinò la chiusura degli oratori e sciolse l’Azione Cattolica. Lo stesso Angelo subì minacce dagli squadristi, ma non si lasciò intimorire, anzi: fu forse per merito suo che a Pontoglio pochissimi giovani passarono dalla parte opposta.
Nel diario-cronaca steso da lui medesimo, dal 1 luglio 1929 al 5 agosto 1934, registrò minutamente i successi e le gioie che gli venivano quando vedeva i suoi ragazzi accostarsi alla Comunione, o anche le sue riflessioni, come: «Per vivere a contatto con i fanciulli bisogna trasformarsi in fanciulli». Indicò pure i giorni di sofferenza che andarono dal 30 maggio al 13 settembre 1931, periodo nel quale l’oratorio fu forzatamente chiuso dalle autorità civili, anche se i ragazzi rimasero stretti attorno ai loro educatori.
Angelo tentò anche la fondazione di una Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli, ma durò molto poco. Ciò nonostante, continuò a visitare i bisognosi, che trattava con delicatezza, a cominciare dal delicato gesto di togliersi il cappello entrando in qualche casa derelitta: «Non andiamo forse a trovare Gesù Cristo nella persona dei poveri?», rispose a un compagno che gliene chiedeva il motivo.
Intraprese pure un’intensa corrispondenza con i giovani lontani dal paese, o perché militari o perché emigrati in cerca di fortuna. A tutti proponeva, come programma di vita, la fedeltà a Dio, alla famiglia e alla patria, non suggerita da dittatori terreni, ma dallo stesso Cristo Redentore, «per una formazione veramente virile dell’uomo di domani», come scrisse a un amico.
La sua personale formazione, invece, si svolgeva mediante la scelta accurata di libri perlopiù religiosi, tra i quali spiccavano i «Colloqui» di Giosuè Borsi e un testo dedicato ai martiri messicani. Per rispondere all’appello del Papa, persuase i genitori a lasciarlo abbonare a «L’Avvenire d’Italia» e a sua volta ne raccomandava la lettura ai suoi corrispondenti e amici.
La sua attività, tuttavia, aveva solide basi: quotidianamente recitava l’Angelus di mezzogiorno e ogni settimana si accostava alla Confessione. Molti compaesani e colleghi, inoltre, hanno attestato che lo si vedeva a lungo davanti al Tabernacolo della sua parrocchia o delle chiese vicine al luogo di lavoro.
Fu anche durante quei colloqui col Signore che capì di essere chiamato non alla missione, ma al matrimonio. Dopo aver lungamente pregato e ricevuto il consenso sia dai genitori sia dal direttore spirituale, dichiarò i suoi sentimenti per interposta persona a una giovane, di cui non conosciamo il nome (forse Assunta, dato che nell’ultima lettera a lei le chiede se il 15 agosto era il suo onomastico). Pur affrontando ostacoli posti da altre persone, i due fidanzati ricorrevano alla preghiera l’uno per l’altra.
Quando tutto si fu appianato, Angelo scrisse alla sua futura sposa: «Riconoscenza generatrice d’amore: ecco la grande parola! Chiave magica che non falla, con la quale si spalancano tutte le porte, arma vincitrice di tutte le battaglie. Non dimentichiamolo: amore verso Gesù, ecco tutto. […] Andiamo verso Lui; più a Lui ci avvicineremo, più dovremo costatare con gioia che il legame aumenta in potenza fino a formare un’anima sola, una sola individualità nell’amore vissuto, immedesimato in quello di Gesù. […]».
Nel luglio 1934 il giovane affrontò un periodo di lavoro particolarmente intenso, per sostituire alcuni impiegati in vacanza. Il mese successivo, il 13, tornò a casa con la febbre, peggiorata il mattino seguente. Alla sera la febbre continuò a salire, ma lui era intenzionato a non perdere la Messa dell’Assunta, festa patronale, come gli era capitato l’anno prima; dovette cambiare idea solo per ubbidire alla madre.
Venerdì 17 agosto il parroco di Pontoglio venne a trovarlo e, il mattino seguente, suggerì di far chiamare il medico. Dopo la visita e l’esito degli esami del sangue, fu chiaro che si trattava di tifo. Lunedì 20 il parroco gli chiese se avrebbe voluto ricevere il Viatico: Angelo, raggiante, rispose di sì. L’indomani, mentre le campane suonavano a distesa, il sacerdote fu accompagnato da una lunga processione di fedeli, venuti a conoscenza della malattia, verso casa Anselmi.
Tutti ormai speravano nella guarigione, tranne il diretto interessato, il quale, in un colloquio con la mamma, associò il 1925, anno della morte di sua sorella Virginia (a nove anni d’età, anche in quel caso di tifo), a quel 1934 in corso. Così, mentre in tutto il paese si continuava a pregare per lui e a fargli visita, Angelo si preparava al trapasso.
Il mattino di domenica 26 agosto iniziò a perdere sangue dal naso. Verso sera, sembrava cercare qualcosa a gesti: un amico, intuito il suo pensiero, gli mise tra le mani la sua corona del Rosario. Ricevuta l’Unzione degli Infermi con lucidità e rispondendo come poteva alle preghiere, si addormentò. Alle 23 scoppiò un violento temporale e un tuono fece tremare tutta la casa. L’unico a non averlo sentito fu Angelo, la cui morte fu accertata ventisei minuti dopo.
Per tutto il giorno successivo continuò la visita alla salma da parte di tutto il paese, mentre a sera fu vegliata da parte dei giovani suoi amici. L’indomani, 28 agosto, si svolsero i solenni funerali.
Quindici anni dopo la scomparsa del figlio, la mamma ricevette da una signora una cintura di cuoio con alcuni chiodi, che lui si era preparata a mo’ di cilicio. Si era accorta che la portava sin da pochi giorni prima della sua fine terrena, ma non gli chiese nulla, per mantenere il segreto che lui aveva col suo confessore. Don Lorenzo Lebini, che conobbe bene il giovane, inserì questa notizia nella terza edizione della biografia da lui scritta, pubblicata nella collana «Fiori di Cielo» delle Edizioni Paoline nel 1960.
La storia di Angelino Anselmi è stata riproposta, nel 2007, in un servizio de «La Buona Notizia», settimanale televisivo d’informazione religiosa della Diocesi di Brescia, intitolato “Un angelo in bicicletta”.
Autore: Emilia Flocchini
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