La Contessa Ludovica Torelli, signora di Guastalla, era una donna di doti non comuni: appena quindicenne, per la morte del padre e l'incompetenza materna, aveva dovuto, quale unica erede di ingenti sostanze, affrontare le non lievi difficoltà e dell'amministrazione, e del governo dei feudi in sua proprietà.
Spinta dalla madre che si preoccupava di saperla sola in tante gravi incombenze, verso i diciotto anni, si univa in matrimonio col conte L. Stanga di Cremona, che, colpito di lì a poco da una ripugnante malattia, in breve la lasciava vedova. Passava quindi a seconde nozze con il conte M. Martinengo da Brescia, ma anche questo secondo matrimonio non fu felice. L'uomo venale e violento a cui si era unita sperando protezione ed aiuto, avido dei beni di lei, minacciò più volte di toglierle la vita. Egli però cadeva per mano dei parenti della prima moglie da lui uccisa.
Ludovica, nel frattempo, aveva perduto anche la madre ed i tre piccoli, che avrebbero dovuto con le gioie della maternità alleviarle le disavventure coniugali e si trovava, a soli venticinque anni, colma di affanni e pienamente libera di se stessa.
Per sollevare il suo spirito e rifarsi delle passate sofferenze, non trovava di meglio che gettarsi in pieno nel vortice della vita mondana e l'avvenenza della persona come l'acutezza dello spirito e la distinzione del casato le rendevano ben facile l'accesso in quella società cinquecentesca, tutta dedita al culto della realtà esteriore.
Le sue giornate divenivano un incessante alternarsi di cacce, danze e conviti di ogni genere e lo sfolgorio di quelle effimere gioie giungeva ad abbagliare talmente il suo animo da farle ritenere sciupati i pochi minuti settimanalmente sottratti ai sollazzi per adempiere al più elementare dei doveri religiosi: l'assistenza alla Santa Messa festiva.
Era Ludovica una di quelle anime che non ammettevano compromessi con la propria coscienza: riconosciuto che batteva un falso sentiero, determinava senz'altro di ritirarsene.
Spezzati gli specchi, scrive un biografo, disprezzati i ricchi abbigliamenti, licenziati i numerosi cortigiani di cui fino allora aveva amato circondarsi, sotto la guida del celebre domenicano Fra Battista Carioni da Crema, iniziava una nuova esistenza. Come espressione tangibile del suo intimo rinnovamento voleva deporre finanche il nome di Ludovica, che le ricordava i suoi illustri antenati, per assumere quello del gran convertito di Damasco.
In breve il vasto castello si popolava di giovani a cui, con l'aiuto di fra Battista, cercava di impartire una conveniente istruzione e soprattutto una salda formazione morale.
Richiamato fra Battista nelle case dell'Ordine, la Torelli invitava, per sostituirlo, il giovane sacerdote Antonio M. Zaccaria da Cremona.
Dopo qualche esitazione il Santo accettava la proposta e si trasferiva a Guastalla; ivi però comunicava alla Contessa il suo ardente desiderio di eleggere Milano come campo del suo apostolato.
Acquistata una casa presso Sant’ Ambrogio, nel 1530 vi si trasferivano e, per poter penetrare con miglior agio nell'ambiente cittadino, presero a frequentare l'Oratorio dell'Eterna Sapienza, ove incontravano alcune anime disposte a condividere le loro fatiche apostoliche. Le visite ai poveri, l'assistenza agli infermi, l'educazione dei fanciulli, l'istruzione religiosa degli adulti richiedevano un numero sempre maggiore di anime volenterose ed in breve nacque il bisogno di più vasti locali per alloggiare quella benefica compagnia che man mano si era venuta formando.
Scelte allora ventiquattro casette nei pressi di S. Eufemia, se ne faceva acquisto e nell'ottobre del 1534 vi si stabilivano definitivamente. Nel febbraio successivo sei di quelle giovani ricevevano dalle mani dello Zaccaria l'abito religioso e prendevano il nome di «Angeliche». La Torelli continuava a vivere con loro, ma non ne vestiva l'abito; e poiché le ripugnava che le dessero ancora il titolo di contessa, si faceva semplicemente chiamare «Madonna».
Riportano i biografi che ella oltre al modestissimo abbigliamento ed al prestare umilissimi servizi a chiunque, compiva notevoli atti di umiltà anche in pubblico, la qual cosa suscitava le ire dei parenti, già indignati perché vedevano sempre più sfumare la possibilità di ereditare il ricco patrimonio.
Nel 1537, insieme con lo Zaccaria dava inizio a quella nuova forma di attività che va sotto il nome di «Missioni», e che significava una più o meno prolungata dimora in qualche città per rinnovarne lo spirito, inculcando la frequenza ai SS. Sacramenti, promovendo pie associazioni tra i laici, riconducendo alla regolare osservanza i monasteri, sistemando posizioni moralmente equivoche.
Vicenza, Verona, Venezia e Ferrara si giovarono di questo risveglio di vita religiosa ma, avendo alcuni malevoli fatto sospettare alla Serenissima che Barnabiti e Angeliche fossero spie del Gonzaga, governatore di Milano ed amicissimo della Torelli, nel 1522 ne procurarono il bando dalle terre venete.
Costretti ad abbandonare una messe già assai promettente, essi tornarono a Milano sotto l'incubo di vedersi preclusa ogni ulteriore attività.
Solo lo spirito lungimirante dello Zaccaria avrebbe potuto, come già altre volte, riaccendere negli animi piena fiducia nella Provvidenza di Colui che «non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande».
Purtroppo il Padre (1539) non era più con loro ad animarli nell'ora della prova, e quella unità di vedute, da lui stabilita e fin'allora da essi vissuta, veniva fatalmente ad infrangersi.
Coloro che interpretavano il bando come segno di riprovazione celeste per l'inconsueta attività svolta dalle Angeliche, ventilavano l'idea di restringerle alla clausura. Invano la Torelli si opponeva fermamente, affermando non essere quello il disegno tracciato da lei e dallo Zaccaria, invano cercava convincere le poche restie a ritirarsi in altri monasteri di clausura esistenti in Milano; la sua voce non veniva ascoltata e per non sacrificare alcune personali vedute, le Angeliche divennero claustrali.
La Torelli però rimaneva fedele al suo programma di azione e col ricavato della vendita del feudo fondava un nuovo Collegio per giovanette, tuttora esistente, la cui direzione affidava ad istitutrici laiche, con le quali trascorse i suoi ultimi anni.
Nonostante il doloroso distacco, la Torelli rimase sempre in ottimi rapporti con le Angeliche, che le andavano debitrici non solo del grandioso monastero di S. Paolo, ma più ancora della loro organizzazione interna e di alcuni capitoli di regola, che lo stesso S. Carlo Borromeo trovò tanto sapienti da proporli, nel Concilio provinciale di Milano, come modello agli altri monasteri.
Ora che le Angeliche sono tornate alla forma di vita istituita nei primordi, abbiano in benedizione il nome di colei che promosse la loro istituzione e ne vivano lo zelo e gli esempi.
|