Non so come sia morta Cristina né se si chiamasse veramente Cristina. È probabile, come per molte ignote martiri cristiane, che il nome di Cristina le sia stato attribuito solo dopo il martirio. Non so neppure quale sia stato il martirio subito da Cristina: so soltanto che Cristina è la fanciulla che vado a trovare ogni giorno, distesa nella sua teca, nella chiesa del Redentore a Milano, sotto il grande crocifisso. I pochi capelli biondi le scendono discreti, nella loro umile finzione, ai lati del volto: sotto la maschera rosata, dietro le palpebre abbassate, Cristina dorme da secoli. È ricoperta da una veste bianca, il petto attraversato dalla palma guadagnata con il martirio. Del suo vero corpo scorgo solo le fragili ossa dei piedi infilate nelle pantofoline scollate. Di Cristina dicono si sia conservata l’ampolla del sangue, murata dietro la lapide che ricorda il secolo in cui è vissuta e in cui è morta. Ho familiarità con Cristina e le parlo: ma brevemente, per non disturbarla. A Cristina attribuisco, senza alcun dubbio, due delle tre virtù teologali: la fede e la speranza. Ma, soprattutto, a lei così fragile, così debole, attribuisco la terza delle quattro virtù cardinali: la fortezza. Fortitudo, l’avrebbe chiamata lei se, nella sua innocenza, l’avesse riconosciuta.
La fortezza non è una virtù facile da riconoscere, tanto che il saggio Marco Aurelio non l’attribuiva neppure ai martiri cristiani – ipnotizzati, secondo lui, dal fascino dello spettacolo da essi dato, nelle arene, nell’esibizione di due virtù teologali, le stesse di Cristina: la fede e la speranza. Ubriachi della fede in Cristo e della speranza del paradiso, già divenuta certezza nella certezza della fede , si offrivano incomprensibilmente al martirio. Invitato a parlare della fortezza nella sede di un circolo di ufficiali, mi ritrovai non poco in imbarazzo nel districare l’apparente assurdo contrasto tra la fortezza e la debolezza, inestricabilmente unite tra loro. Platone riconobbe nell’audacia una delle virtù necessarie alla solidità delle Stato e della persona. Riconosciuta come virtù dalla dottrina cristiana, a partire da sant’Ambrogio, neppure il Catechismo della Chiesa cattolica mi era di aiuto a definirne i confini con la debolezza. Il carattere che identifica la fortezza di un cristiano sarebbe, infatti: «La costanza nella ricerca del bene… la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli della vita morale». Anche il dizionario della lingua italiana mostra soprattutto i muscoli di questa virtù: «Fortezza: capacità di azione, reazione, resistenza». Ma poi, quasi proditoriamente, ne inverte la barra con un’aggiunta che, se non cambia la sostanza, né limita profondamente la forma: «…quasi esclusivamente spirituali».
E Cristina? La mia fanciullina sembra del tutto indifferente a tante definizioni. Lei sa che la sua fortezza è oltre. Ma oltre dove? Chi più degna di Cristina della definizione di cristiana? Se nel Nuovo Testamento la fortezza è proprietà di Cristo quale figlio di Dio, nell’Antico «grande, forte, terribile» è Dio stesso. Nella Prima lettera, Giovanni chiama «forti» i cristiani. Sant’Agostino fa consistere la fortezza in un misto di capacità di sopportazione nella speranza dei beni supremi. Molto più variato il pensiero di san Tommaso che, alle consuete qualità della fortezza vista nel suo duplice aspetto di repressiva del timore e moderatrice dell’audacia, non esita, riferendosi all’uomo forte, di attribuirle l’uso dell’ira, che di sua natura non è né buona né cattiva, purché sia moderata. Una fortezza che non rifugge neppure dalla guerra pur di difendere il bene comune. Per «fame e sete di giustizia». E Cristina, quale di tutte queste qualità della fortezza possedeva? Contro chi o che cosa si opponeva la piccola Cristina per venire uccisa, anonima tra altri anonimi? Cristina non si opponeva, Cristina affermava, debole della sua debolezza, condizione essenziale della forza. Nessuno è forte come un debole, nessuno è vittorioso come un fallito. «Gesù è morto da fallito» (Jorge Mario Bergoglio). Cristina è morta da fallita: non assaporerà mai la vita nelle sue gioie e dolori, non l’amore umano, non l’esultanza della maternità.
«Forte è colui che sa di essere debole» (Carlo Maria Martini). Chi più cosciente di Cristina della propria debolezza? Il paradosso esplode in san Paolo nella Lettera ai Corinzi: «Quando sono debole è allora che sono forte». Che cosa è accaduto, che cosa intende dire san Paolo parlando così di se stesso? Le interpretazioni sono molteplici ma nessuna, a mio parere, del tutto convincente nell’urgenza di mettere in relazione la debolezza – tutta umana, quasi vantata da san Paolo – con la debolezza vittoriosa di Cristo nella Resurrezione. No, san Paolo sembra avere scoperto nella debolezza, così umana, così compartecipata da ciascuno di noi, la vera natura della forza. Non esiste forza se non nell’abbraccio con la debolezza. Per la filosofia orientale lo stesso significato del mondo, la forza stessa nasce dal morbido avvolgimento, dall’incontro di due forze, di due principi, di due corpi. Il simbolo dello jing e dello jang che si compenetrano in parti eguali nel cerchio, pur nella contrapposizione del bianco e del nero. Il karate zen, dove si cede alla trazione violenta dell’avversario per forzare il suo equilibrio. Cristina giace tranquilla nella sua urna. Cristina e l’esercito degli anonimi hanno sconfitto, con la loro debolezza, la potenza dell’impero di Roma. L’ira di Nietzsche sembra riversarsi su questo esercito di anonimi che marcia oltre il sangue delle arene fino a piantare il proprio simbolo di debolezza, la croce, sul labaro del potere. È questo lo scandalo, quello che Nietzsche disprezza quale trionfo della massa, dei ciandala sugli aristocratici: la debolezza dei ciandala abbatte la fortezza degli aristocratici.
Così come in ogni rivoluzione dove il desiderio di rivalsa, le ressentiment di massa, trasforma la debolezza in violenza. La violenza della non-violenza. Così il cristianesimo, così il socialismo, così la democrazia. Nel cerchio non c’è né jing né jang: o il bianco divora il nero o il nero divora il bianco, due contrapposte soluzioni etiche. Cristina non sa nulla di tutto questo, il suo sangue riposa nell’ampolla murata: non sa di potere né di gloria, non sa di crociate, non di eresie, non di inquisizioni, non di dogmi. La sua semplice veste candida non dice se il suo ceto fosse nobile o plebeo. Non sappiamo se la sua vittoriosa debolezza fosse aristocratica o ciandala. Cristina è oltre. Nietzsche doveva fare morire il Dio di Cristina prima di scorgere dietro il suo irreperibile cadavere l’esercito dei ciandala. Il Dio di Cristina era un dio aristocratico: talmente aristocratico da essere unico.
Con la morte del Dio unico o, comunque, con la sua eclissi, Nietzsche sembra avere visto, più che un processo storico del passato, il volto futuro della società di massa in cui la debolezza, privata di ogni fede, ha perso la propria forza assumendo l’immagine di una putrefatta debolezza: la maschera del nichilismo di massa, il nichilismo debole per cui nulla ha più senso se non il bene personale e immediato. A questa disperata – inconsciamente disperata – forma di debolezza sembra impossibile associare una qualunque immagine di forza. Se Dio non risorge, se Cristina non torna a camminare per le nostre strade: qualunque sia la nuova forza della loro debolezza.
Autore: Ferruccio Parazzoli
Fonte:
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Avvenire, 13 ottobre 2013
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