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Raffaele Besana Seminarista

Festa: Testimoni

Erba, Como, 10 aprile 1921 – Russia, 2 febbraio 1943

Raffaele Besana fu un seminarista dell’Arcidiocesi di Milano, nato a Erba ma residente a Mariano Comense. Obbligato a partire militare per la seconda guerra mondiale, non perse l’entusiasmo e lo spirito di preghiera. Nell’autunno 1942 venne destinato al fronte russo insieme al compagno chierico Ambrogio Borsa, ma nessuno dei due fece ritorno a casa. Venne dato per disperso per tre anni finché un commilitone andò a trovare i suoi genitori per dare loro una spiacevole notizia: Raffaele era morto assiderato il 2 febbraio 1943, col pensiero rivolto al suo Seminario e al sacerdozio. Il Rettore del Liceo del Seminario, monsignor Giovanni Colombo (poi Cardinale Arcivescovo di Milano), ne scrisse un commosso ricordo nel numero di luglio-ottobre 1946 de La Fiaccola, il periodico del Seminario ambrosiano.



Raffaele, anima naturaliter sacerdotalis. Glielo si leggeva negli occhi illuminati da un azzurro mite e trasparente, glielo si intuiva nel facile sorriso, che gli addolciva la curva delle labbra.

Non aveva qualità sgargianti che lo facessero risaltare fra i compagni. E neppure desiderava d’emergere. Preferiva essere come la viola che profuma la via e non la vedi, come il lievito che fermenta la pasta e non lo scorgi. Fedelissimo al suo dovere, ma senza quella rigidità altera e consapevole che urta e rende antipatica la virtù. Sensibilissimo di cuore, non si ripiegava su di sé romanticamente, né mendicava l’altrui compassione sulle proprie pene, pur se ne aveva eccome! Anzi, dimenticando se stesso, era sempre rivolto ai bisogni degli altri per comprenderli, confortarli, aiutarli. Lo ricordo una volta che soffriva per alcune difficoltà e certi insuccessi negli studi. L’azzurro mite dei suoi occhi naufragava nel pianto, ma dalle sue labbra incurvate ancora al sorriso, uscivano parole sommesse: “Sono contento lo stesso...”.

Pioveva e insieme splendeva il sole. Sempre contento, Raffaele; anche quando piangeva. Sempre un raggio di sole nel suo cuore, anche allora che la Patria lo chiamò, cosi giovane, alle armi e alla guerra. Chiuse i libri di latino e di greco, mutò la divisa nera in quella grigio verde, calzò gli scarponi chiodati, gettò sulle spalle lo zaino e partì, senza pose drammatiche. Disse semplicemente: “Sono contento lo stesso...”.

Cominciò allora il suo pellegrinaggio, o meglio la sua via crucis, di città in città. Mi scriveva: “Tutto è cambiato. Tranne il cuore”. Il suo era un cuore naturalmente sacerdotale, fatto per il bene: dovunque passava, seminava gioia e bene.

Raffaele, tu non sapevi, né potevi sospettare le belle lodi che di te mi scriveva il caro don Carlo Rizzi, allora coadiutore di Melzo, dove tu ti trovavi col tuo ospedaletto militare, e ora eccellente parroco di Cavaglione. Mi diceva che tu organizzavi i giovani della sua Associazione, che li entusiasmavi con le tue parole e l’esempio personale, mi diceva che tu pregavi tanto tanto, e cosi sinceramente, che a vederti, si credeva di più nel Signore.

Nell’autunno del 1942 Raffaele ricevette l’ultima designazione: la Russia. Partì insieme al chierico Ambrogio Borsa, entrambi senza aver fatto ritorno. Dalla grande ansa del Don, le sue lettere giungevano a intervalli regolari, piene di fiducia, di affetto, di aneliti santi.

[...] Sono a 10 Km. dalla linea del fuoco, in un ospedaletto da campo già pieno di feriti. Ho chiesto io d’essere trasferito qui: sono in pericolo, ma posso servire di più. Ciò che mi fa tanta pena è vedere i soldati che chiedono il conforto del Cappellano che qui non c’è. Occorrono preti e santi preti. Fossi anch’io prete! [...] Diventare apostolo, servire le anime, sacrificarmi tutto per loro: ecco ciò a cui ardentemente aspiro. Mi valgano le sue preghiere a raggiungere l’ideale divino, come oggi il pensiero di Lei mi è di sprone a vivere questa dura vita. La voglio vivere nella gioia offrendola a Dio, se si degna di gradirla, per il mio Rettore e per i miei compagni di vocazione (dalla lettera del 9 settembre 1942).

[…] Eroico soldatino, come Lei mi chiama, proprio no: ma il Rosario l’ho tenuto veramente più stretto nelle mie mani e ho supplito le Comunioni che non potrei fare neppure in ricorrenze tanto care. In compenso ho la consolazione di vedere i soldati del mio ospedaletto venirmi intorno ogni sera di questo ottobre a rispondere con fede al Rosario. Se si fosse più generosi con Cristo, quanta gioia di più, quanti lamenti di meno fra questi giovani. Quanto io devo essere grato a Gesù per tanta predilezione! Ma che valgono i ringraziamenti di una misera creatura quale mi sento? Lo spirito trema nella carne inferma […] (dalla lettera del 7 ottobre 1942).

[...] La Russia non mi ha fatto paura, finora. E, sono felice: ho fiducia in Dio. Le ho già raccontato che il giorno del mio onomastico ho fatto celebrare una Messa perché S. Raffaele mi guidi sulla lunga via del Sacerdozio? Chi avrebbe mai pensato che la mia via avrebbe dovuto attraversare anche queste sconfinate pianure russe? Ho pregato S. Raffaele per il mio Rettore e per tutti gli altri Superiori, perché possano essere sempre buone guide[...] (dalla lettera del 2 novembre 1942).

[…] Si è cambiato settore, e così si è pure ridimensionato l’ospedale […] (dalla lettera del 15 dicembre 1942).

Cominciava il cedimento del fronte e si apriva la sacca tragica. Fu l’ultimo scritto, l’ultima voce: poi un silenzio infinito. Tre anni abbiamo teso l’orecchio, come se, da quel silenzio, potesse venire una notizia, una parola almeno, un lamento di ferito o d’ammalato: invano. Tre anni abbiamo aspettato e implorato, lunghi anni in cui la fiamma della speranza tremava, tremava sempre più fioca, eppure accesa. Finalmente tornò il buon soldato di Rovellasca, e andò a Mariano Comense dai suoi genitori, e disse: “Non aspettatelo più da queste parti: è in Paradiso che aspetta voi”.

O buon soldato di Rovellasca, raccontaci tutto quello che hai visto, tutto quello che sai della sua morte.

[…] Tredici giorni camminammo nella neve, senza rancio. Raffaele, per farsi coraggio diceva: ‘Vado verso il mio Seminario: voglio diventare prete ad ogni costo’. Al quattordicesimo giorno si fermò. Cadde sulla neve gelata. Era sfinito e disse soltanto: ‘Ora so che non vado in Seminario, vado in Paradiso’. Poi aggiunse, con le labbra atteggiate a sorridere: ‘Sono contento lo stesso…’ Erano le sue parole consuete. Andammo avanti senza di lui. Il giorno dopo potei trovare una zuppa calda. Rifeci di corsa la strada per portargliene un poco. Lo ritrovai allo stesso posto, sdraiato sulla neve. Aveva gli occhi di un azzurro mitissimo, aperti verso il cielo, ma immoti. Aveva sulla bocca un sorriso dolce ma fermo. E non aveva più bisogno di nessun cibo. Era il 2 febbraio del 1943. Piangendo ripresi il viaggio, per raggiungere i compagni, ma senza voltarmi indietro, poiché non ne avevo il cuore […].

Buon soldato di Rovellasca, se ti fossi d’improvviso voltato indietro, avresti visto la Madonna della Purificazione baciarlo e coprirlo teneramente col suo manto. Avresti visto l’arcangelo Raffaele difenderlo con le sue grandi ali distese su lui.

 


Autore:
Giovanni Colombo


Fonte:
«Quaderni colombiani» 41 (www.coinoniacaronnopertusella.com)

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Aggiunto/modificato il 2014-01-29

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