Avventurosa e complessa come la sua personalità, la storia di Bonsignore Cacciaguerra è lunga e a tratti incredibile. Nato a Siena nel mese di giugno del 1495, appartiene a una famiglia di mercanti ed è a questa attività che dedica interamente la sua giovinezza trascorsa a Palermo tra le più eclatanti dissipazioni di una vita splendida e viziosa. All’apogeo della prosperità economica gli affari prendono però una piega tutt’altro che positiva e in breve tempo il mare gli porta via buona parte del patrimonio. Inizia così una profonda crisi spirituale che lo porterà alla conversione e al compimento di un cammino di ricerca interiore che da tempo si sta facendo largo tra le superficiali abitudini mondane.
Non cambia però il suo viscerale bisogno di esagerazione e, per sancire il passaggio spirituale, a trentacinque si mette in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela facendo notizia per le crudeli mortificazioni a cui sottopone il suo corpo lungo la via. Assume anche il nome di “pellegrino” come Sant’Ignazio di Loyola e inizia effettivamente una innumerevole serie di peregrinazioni vivendo di elemosina, confortando i malati, esorcizzando gli ossessi. Torna dunque a Palermo dove, male accolto dal fratello nel frattempo impadronitosi di quel che è rimasto dei suoi beni, viene ospitato da una donna che era stata sua schiava. Tormentato dalla coscienza degli antichi peccati, comincia a comunicarsi con una frequenza sempre maggiore e della pratica della frequente comunione farà ben presto il caposaldo del suo apostolato. Da Palermo si reca prima a Roma e poi a Milano, dove sembra voler temprare la sua vocazione ascetica nella casa dei barnabiti guidati da Sant’Antonio Maria Zaccaria. Vi resta quattro mesi, ma il santo capisce che a questo strano personaggio già famoso per la sua particolare storia vocazionale manca ancora una cosa fondamentale: l’umiltà. Per questo lo mette da subito a dura prova e, come era prevedibile, Bonsignore non regge.
Dopo questa breve esperienza milanese, ritorna a Roma nel settembre del 1539 quindi va di nuovo in Spagna dove può ricevere ogni giorno la comunione nel monastero di Monserrat, poi in Abruzzo, infine a Napoli dove lo chiama nel 1541 il conte di Anversa Giovan Vincenzo Belprato attratto dalla fama della sua santità. A Napoli resta con varie interruzioni fino al 1546 ma questi pochi anni sono fondamentali nella sua esperienza mistica e nella stessa vita religiosa della città. Installatosi nel palazzo dei Belprato alla Vicaria Vecchia, vi riceve i suoi numerosi penitenti reclutati in tutti gli ambienti sociali ai quali suole proporre come rimedio infallibile di tutti i loro malanni, sia materiali sia spirituali, la pratica della frequente comunione. Qui conquista velocemente un grande prestigio spirituale che gli permette di esercitare una forte influenza sulla nobiltà e sul clero napoletano della Controriforma prima con la diretta frequentazione e poi con un fitto carteggio mantenuto a lungo almeno con i più fedeli. Il suo apostolato si indirizza con particolare impegno contro i fermenti protestanti ampiamente diffusi a Napoli dalla predicazione di Bernardino Ochino e diventerà dopo breve tempo provicario generale dell’arcidiocesi. Non meno ricca di risultati è la sua azione di recupero all’osservanza di numerosi monasteri femminili. Abbandonata definitivamente Napoli nel 1546, si trasferisce a Roma dove trascorre l’ultimo ventennio della sua lunga vita.
Nel 1547 si fa ordinare sacerdote e nel 1550 entra nella comunità di sacerdoti che serviva la chiesa di San Girolamo della carità, dove intorno a lui si raccoglie da subito un gruppo di devoti animati dalla stessa passione per la frequente comunione e dalla stessa mistica nutrita di estasi e visioni. La pratica eucaristica ormai fattasi quotidiana provoca non poche difficoltà al tranquillo collegio di sacerdoti e suscita forti ostilità all’interno stesso della comunità, non meno di quella folta compagnia di donne che Cacciaguerra sempre si trascina dietro. Difficoltà nascono anche dalla sua pretesa di costringere tutti i preti di San Girolamo a celebrare quotidianamente la messa senza pretendere alcuna ricompensa dai fedeli e i suoi avversari fanno arrivare le loro proteste fino al cardinal vicario e al papa. Due monaci dimessi dal loro ordine e che rabberciano il mestiere di sacrestani a San Girolamo gli vengono messi alle calcagna con il compito specifico di scoraggiare con tutti i mezzi la pratica della messa e della comunione quotidiane.
Di questa persecuzione soffrirà anche San Filippo Neri, membro eminente della comunità che inizia a celebrare con una dignità singolare anch’egli la messa tutti i giorni e al quale preparano sempre i paramenti peggiori e lini più sporchi per mortificare la sua elevata attenzione al decoro della liturgia e all’igiene personale. Quello del rapporto con San Filippo è un capitolo importante e per certi aspetti controverso della vita di Bonsignore Cacciaguerra. Inizialmente anch’egli lo ha in simpatia ma le profonde differenze tra i due non tardano ed emergere e porteranno San Filippo a prenderne le distanze. Tutto improntata sulle visioni e presunte esperienze mistiche la spiritualità dell’uno, assolutamente diffidente verso queste cose l’altro; istrione e severo l’uno, riservato e bonario l’altro. Ad accomunarli sono il desiderio della celebrazione frequente dell’Eucarestia e un buon seguito di discepoli ma le differenze sono significative e San Filippo, che non ha alcun interesse a imporre la sua linea alla casa, lo lascia fare dedicandosi sempre più ai figli spirituali che riceve notte e giorno nella sua stanzetta e all’esercizio dell’Oratorio al quale spesso troviamo Bonsignore stesso tra i partecipanti. Ad ogni modo, la sua tenace resistenza all’opposizione degli avversari è vincente e nel 1558 il cardinal vicario finisce con l’accordargli il permesso di continuare la sua strana pratica eucaristica nominandolo addirittura superiore della comunità di San Girolamo.
Gli ultimi anni della sua vecchiaia li dedica alla pubblicazione di alcune operette ascetiche che aveva scritto in precedenza; i libretti più famosi sono il “Trattato della comunione” e il “Trattato della tribolazione”. L’enorme fortuna raggiunta da questi libretti a livello popolare, saranno ristampati più volte fino all’Ottocento, non è certo segno di profondità, al contrario tutti i suoi scritti hanno scarsamente originali e caratterizzati da una grande inconsistenza dottrinale. Soltanto l’ossessione delle mortificazioni corporali, l’esaltazione morbosa della malattia e l’ansia torva della morte dominano le sue esortazioni. Anche il metodo eucaristico, privo dunque di solide basi dottrinali, si risolve in una pratica facilona che trova grande successo in quegli ambienti religiosamente sprovveduti che nella trascuratezza pastorale dell’epoca non mancano ma si rivela un labile successo che si eclissa con il personaggio stesso senza diventare un vero segno profetico.
Infine, Bonsignore Cacciaguerra muore a Roma nel 1566 attorniato dalla sua solita corte di devote visionarie attratte più dalla sua attenzione che da Dio e che per questo si disperde di lì a poco. Nonostante questi tratti esasperati e i legittimi dubbi sulla sua santità, non si può negare che anch’egli abbia contribuito alla riforma della Chiesa che in quegli anni a Roma e in tutta la cristianità prendeva sempre più piede. Egli ne incarna alcune forme certamente eccessive ma presenti anch’esse e ha probabilmente salvato molti animi semplici dall’andarle a cercare in altri luoghi estranei alla Chiesa.
Autore: Emanuele Borserini
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